Sempre più, in modi e in forme certo diverse, ma comunque in maniera trasversale ai diversi modelli teorici dello psichico e della sua cura, si discute di contemporaneità delle forme psicopatologiche, caratterizzate ad esempio da una realtà singolare del sintomo, spesso niente affatto percepito nonostante il disagio profondo del soggetto, o coincidente di fatto con un malessere dalle caratteristiche incerte, di cui il soggetto non riesce a stabilire in alcun modo, per rifiuto, diniego o scissione, una qualche causalità. Malesseri senza teorie, rappresentazioni, e a volte nemmeno descrizioni, sia per la cecità di fronte alla natura del disagio, sia per un grave interdetto, di qualunque natura esso sia, ad osservarsi. Di questa clinica contemporanea dunque si discute, a volte francamente a torto, dimenticando che forse nessuno ha mai visto casi semplici; a volte per ipotizzare in tal modo una modernità del nostro pensiero che si accorderebbe così con la temporalità del presente, liberandoci dal timore di un nostro anacronismo, a volte per sentirci simili a tutti coloro che ne parlano e a volte, sicuramente, anche a ragione. Ad un primo sguardo, l’insieme di fenomeni di cui stiamo tratteggiando le grandi linee, sembra definire essenzialmente una clinica delle strutture non nevrotiche e le modifiche teorico-tecniche necessarie per la loro presa in carico, confrontandoci così a realtà psichiche differenti da quelle organizzate da un buon funzionamento dei processi preconsci, disponibilità all’associatività, tollerabilità dell’attesa e ricorso a modi di simbolizzazione generativi di ricorsività e autoreflessività.
Vorrei sottolineare che la questione indica innanzitutto una direttrice di sviluppo della teoria in ascolto delle nuove fenomenologie cliniche (la fine di un linguaggio unificante, il riconoscimento di una pluralità di modelli che organizzano il campo analitico verso direzioni diverse, la fine della supremazia del divano nei dispositivi analitici-data la crescita di situazioni psicoterapiche o il tipo e la qualità dei funzionamenti mentali con cui abbiamo a che fare-, la frequenza di trattamenti analitici con un numero minore di sedute settimanali, la messa in discussione del primato della rimemorazione o della possibilità di accedere alla propria biografia, la vastità dei processi di dealfabetizzazione emotiva e riflessiva). In altri termini, il confronto con condizioni cliniche (dal narcisismo alle psicosi, dai pazienti limite ai disturbi identitari) per le quali le modalità di intervento, e le teorie del funzionamento psichico in seduta, subiscono dei necessari cambiamenti determinano, per tutti, quale che sia il modello teorico di riferimento, nuove sfide. Fra questi aspetti privilegerei lo statuto del pensiero e i suoi fallimenti (ad esempio, penso a quelle condizioni caratterizzate dall’impossibile separazione dall’oggetto primario e il terrore di ogni movimento psichico che alluda ad uno spostamento da fissazioni identificatorie); la comprensione del dialogo analitico pensabile non solo secondo il vertice rappresentazionale, e dunque trasformazionale, ma lungo quello dell’atto e della scarica, con la prevalenza di un attuale misconosciuto e non assumibile da parte del soggetto, il che sembrerebbe obbligare la coppia analitica a disporsi in una modalità di funzionamento di eterno presente, di continua attenzione per esempio alla possibilità di mantenere in funzione un setting adeguato. Rammenterei anche il problema correlativo di una temporalizzazione in difetto, lo scacco dei processi associativi, la difficoltà di un vertice soggettivo-traduttivo da cui poter partire per istituire un campo di operazioni trasformative, in pazienti in evidente arresto di operazioni di assimilazione-elaborazione o, sempre in questa direzione, il collasso del funzionamento preconscio, il difetto di figurabilità, la perdita delle capacità immaginative.
Possiamo considerare, nel funzionamento psichico rappresentativo della cura classica, che la disponibilità al movimento che si dispiega da una rappresentazione all’altra, da una sensazione all’altra, sia regolata, ad un primo livello, dai meccanismi omeostatici dell’individuo (principio di piacere/dispiacere), ad un secondo livello, dalla spinta alla costruzione di un flusso discorsivo indirizzato ad un interlocutore a cui viene affidato il compito di decifrazione/produzione di senso. Questo aspetto appare importante per significare alcuni problemi che appaiono con particolare frequenza nella clinica dei pazienti limite, dove al contrario, nella impossibile scelta fra presenza intrusiva e distanza abbandonica, la parola è utilizzata non tanto per comunicare aspetti profondi che anzi vengono temuti, quanto per mantenere un contatto con l’oggetto in una forma che garantisca sia da una distanza eccessiva che da una vicinanza angosciosa. Potremmo in tal modo comprendere il bisogno di taluni pazienti di mantenersi a dei livelli di discorso il più possibile monosemici, concreti, o sterilizzati da una banalizzazione che cerca di evitare ogni coinvolgimento emotivo e movimento desiderante. O, ancora, il fenomeno stesso della spersonalizzazione come tentativo di regolazione della distanza, e messa in scacco della libertà associativa. Questo aspetto forse ci aiuta a comprendere meglio perché spesso, nei modelli che costruiamo relativamente a questa clinica in difetto di sentimento di esistenza, sembra regnare la dimensione prevalente di una iperpresenza del materno nella costruzione della causalità psichica, in un regime di funzionamento teso prevalentemente a svuotare di senso il registro sessuale e ad articolare il campo clinico come manifestazione di un narcisismo defettuale, da rinsaldare eventualmente in una modalità psicoterapeutica. Forse, potremmo ritrovarci d’accordo con Green quando nota che se è vero che tutta una clinica dei fenomeni limite si è strutturata intorno ai rapporti con l’oggetto primario e al traumatico ad esso relativo, non è da sottovalutare che il campo si articola e si autodefinisce in questo modo per sfuggire alla ferita che la genitalizzazione, il riconoscimento della differenza dei sessi e delle generazioni impone al soggetto, che si rifugerà allora in un universo vittimario o confuso, arcaico, indifferenziato. A me pare, questo, un buon esempio di come la psicoanalisi dovrebbe prendere in considerazione una variazione teorico-tecnica (il ruolo delle identificazioni alienanti ad esempio o della colonizzazione dell’oggetto, con tutte le conseguenze relative ad esempio al ritmo e al timing delle interpretazioni, all’uso dei materiali proiettivi ecc.) e, allo stesso tempo però, mantenere uno scarto osservativo per avere lo spazio e la possibilità di “accogliere il buio che proviene dal presente”, cioè la rimozione-occultamento del sessuale e della differenza, condivisa sia dal tempo in cui viviamo che dal particolare rapporto con la differenza che caratterizza questi pazienti. Il sessuale insomma sarebbe pur sempre presente ma occultato, negato, sia dal soggetto che da una psicoanalisi che appare sempre più in difficoltà nell’assunzione di questa problematica. In questo senso si corre il rischio di validare una costruzione soggettiva tesa a rivendicare il primato, su ogni sviluppo, di un infans desessualizzato. Se seguiamo invece la pista del malfunzionamento dei processi terziari, che possiamo intendere a questo punto come regolatori degli scambi fra il corpo pulsionale e la secondarizzazione, ne consegue una processualità che definisce un sistema profondamente narcisistico, dove la differenza è esclusa, e che lotta drasticamente contro la separatezza provocata dal sessuale. Si tratta di sistemi narcisistici dove l’inesistenza di un processo terziario si manifesta come tentativo di ricerca di un’omeostasi pulsionale, di una difesa dal conflitto edipico, dalla differenza sessuale, di una dimensione di ripiego che si offre come una zona da restaurare/riparare. È qui che a mio avviso, in questa lotta contro la differenza, il tempo, la perdita dell’illusione onnipotenziale, il soggetto giunge, come estrema difesa, alla cancellazione dell’universo rappresentazionale, alla creazione di vere e proprie negazioni dello psichico, in una dimensione di disinvestimento che però necessita, pena il precipitare in un vissuto di vuoto abissale, la creazione di funzioni-limite autoprotettive dal nulla assoluto. Il che ci pone in una prospettiva teorico-clinica che tenta di ritrovare la necessità del conflitto laddove abbiamo ritenuto che ci fosse solo un buco, un vuoto.
Possiamo allora continuare a pensare, per queste situazioni, ad un doppio registro psichico, uno articolato maggiormente nella direzione dei movimenti inerenti a degli abbozzi di traduzione soggettiva (lo spazio del fantasma, dell’investimento o del controinvestimento); l’altro articolato maggiormente lungo l’asse dell’intrusione dell’oggetto, del suo messaggio non tradotto o in sofferenza di traduzione, del moto caotico, della prevalenza dell’atto e del concreto. Ritengo sia importante prendere in considerazione questa polarità che si manifesta secondo due direttrici da rilevare nello spazio clinico: la prima si muove nella corrente della parola, degli scambi affettivi, dei sogni e del movimento progressivo/ regressivo dell’elaborazione. La seconda appare attraverso la modalità dell’agito, del fallimento rappresentazionale, della costruzione, della memoria amnesica. Ma è solo nel reciproco ascolto dei differenti livelli psichici che un processo può realizzarsi, nella ricerca cioè di quelle operazioni soggettive che dobbiamo necessariamente supporre anche laddove l’alienazione ad opera dell’oggetto è radicale.
In questo senso non dobbiamo necessariamente scivolare nella convinzione della scomparsa della validità del metodo freudiano, del concetto di verità storica, del lavoro dell’associatività, del ruolo strutturante e di elaborazione e lutto dato dall’après-coup. Piuttosto, occorre considerare che è necessario tutto un lavoro, quello dei processi trasformazionali, per definire configurazioni storiche, temporalizzazioni, costruzioni di ricordi usurabili, rappresentazioni transitorie, memorie fondative, soggettività dotate di autonarratività e di autoreflessività. In sostanza, io opto personalmente per un principio di indeterminazione. Se siamo d’accordo sull’errore di condurre, in tali casi, una cura analitica come se ci trovassimo dinanzi ad un paziente nevrotico, si può tuttavia davvero sostenere che questo tipo di organizzazione psichica è sprovvisto di una modalità “rappresentazionale-mnestica”, che rappresentazioni, forme magari precarie, ma non solo, di temporalizzione, limitazioni anche fragili o tentativi di raggiungere una terzeità, accanto a livelli più funzionanti e più organizzati, siano assenti dalla realtà psichica del paziente borderline? O invece dobbiamo supporre che questi elementi continuano a sussistere ma che a difettare non è tanto la rappresentazione, quanto la capacità autorappresentativa del soggetto, il che ci spingerebbe a ritenere che mancando l’una manchi necessariamente tutto il resto? Se le cose stanno in questi termini, come io ritengo, la figurabilità in atto nella costruzione di processi trasformazionali (quello che potrebbe essere definito come il fornire modalità di simbolizzazione e stili di pensiero affinché essi fungano da grumo attrattivo di successivi processi di simbolizzazione), non cancella la residualità storica, cioè le tracce storiche delle operazioni delimitative compiute dall’Io del soggetto, i luoghi direi in cui egli si è occultato, pena il rischio di una nuova colonizzazione, di senso, di immagini, di coerenze narrative che rischiano di produrre modalità mimetiche di sostentamento. Così, se prendiamo in considerazione alcuni aspetti del funzionamento dei pazienti limite in seduta, allorché ad esempio essi invadono il campo con un flusso ininterrotto di parole, storie, ricordi di piccole cose, eventi, senza che si abbia mai davvero la possibilità di sostare su qualcosa, di poterla utilizzare, pena l’angoscia definitoria o identificatoria che ne consegue, ritengo fondamentale- come metodo di lavoro possibile-costruire innanzitutto il quadro di riferimento, il luogo in cui la distruttività, lo slegamento, il disinvestimento possono essere accolti, proposti al soggetto come delle strategie di sopravvivenza che egli ha istituito, senza necessariamente scivolare nella convinzione della loro ineludibile unicità o insostituibilità. Per esempio, lavorando sulla sfiducia in un possibile ascoltatore, in un interprete affidabile, tentando di proteggere il paziente sia dalla via della scarica, sia del dover continuare a fare da sé, in un girare a vuoto, più che in una illusione onnipotenziale. Accanto a questo aspetto, ma ve ne sarebbero tanti da prendere in considerazione e non ho qui lo spazio sufficiente, mi pare utile, attraverso brevi e ripetuti interventi, sottolineare e sviluppare l’interesse per un dettaglio, per il particolare, la singolarità di un vissuto, il che a volte permette al paziente di fuoriuscire dalla convinzione di un tempo troppo esiguo per potersi occupare davvero di lui, di istituire un tempo infine non caotico, perché disperso fra mille rivoli, e la possibilità conseguente di investimenti progressivi, frazionati e, pertanto, tollerabili. Come si vede, più il quadro clinico si complessizza e più diventano rilevanti gli accorgimenti tesi alla costruzione di uno spazio dove pensare, rappresentare, descrivere, sognare, progettare, sono attività ancora da conquistare o arricchire senza, al contempo, ritenere che il soggetto che abbiano dinanzi sia privo di storia, tralasciando la necessità di rintracciare, nella vicenda che si prova a costruire insieme, i resti, le voci, i rimandi, i fantasmi di ciò che si depositò nei tempi della sua costituzione psichica.