LUCIO FONTANA, 1964
Abstract: Nell’agorafobia potenti barriere psichiche devono proteggere un Io che è continuamente a rischio di un collasso, continuando a spostare nello spazio esterno una mancata organizzazione degli spazi interni.
Parole chiave: Agorafobia, agora-claustrofobia, claustrofilia, scissione dell’Io, collasso dell’Io, sindrome degli hikikomori
Spazi esterni ed interni nell’agorafobia.
Marco La Scala
Quando Freud ha sperimentato il metodo catartico (1892-95) ha sentito l’esigenza di individuare quali forme psicopatologiche fossero sensibili a quel tipo di cura. Rispetto all’agorafobia dovette constatare l’inefficacia della cura analitica, escludendola pertanto dalle forme che egli definì psiconevrosi e inserendola nella categoria diagnostica della nevrosi d’angoscia, delle cosiddette nevrosi attuali.
La condizione che Freud (1894) connota con il termine «attuale» indica pazienti che nel racconto mostrano la mancanza di rappresentazioni rispetto alla propria storia psichica, “Senza meccanismo psichico e dove L’eccitamento si sottrae alla rielaborazione psichica.”
Da allora molti sono stati gli studi che hanno lavorato su questa iniziale valutazione di Freud, mostrando come l’agorafobia meriti una trattazione a parte rispetto alle normali fobie di origine nevrotica che sono invece sempre connesse con la rimozione e con un successivo meccanismo di difesa inconscio quale lo spostamento.
La paura di uscire di casa, la sensazione angosciosa di venir meno in uno spazio troppo aperto e vasto, la vertigine, il barcollamento con l’insorgenza di uno stato di panico paralizzante la motricità, sono l’esito di un’angoscia primaria, non legata.
E’ in causa molto spesso in questa condizione, la tenuta dell’Io stesso, nel senso del rischio concreto di un suo possibile collasso, in quanto contenitore e rappresentante della proiezione mentale della superficie del corpo (Freud 1922) che avverte di un pericolo per la propria coesione e integrità. Ma il contenitore che in questo caso viene spostato all’esterno, è in realtà interno e caratterizzato da estrema precarietà.
Freud (1938) in Risultati, idee, problemi scrive: “Lo spazio puo essere la proiezione dell’estensione dell’apparato psichico. Nessun’altra derivazione è verosimile. (…). La psiche è estesa, di ciò non sa nulla ( p.566).”
Questa proiezione dell’estensione dell’apparato psichico va a definire il senso del confine dell’Io, delle sue frontiere e le forme più o meno stabili e coese che esso può assumere nel suo sviluppo, anche in relazione con il suo ruolo di mediazione tra le spinte che arrivano dall’Es e gli stimoli che gli giungono dal mondo esterno.
Amati Mehler (1989), che esamina gli effetti traumatici sullo sviluppo, nel momento in cui il processo di separazione sia ipotecato da brusche interruzioni o costellato da intermittenze del vissuto fusionale cioè da ripetuti microtraumi, situa le fobie spaziali a livelli molto precoci dello sviluppo “nella sindrome dell’agorafobia classica è lo spazio esterno reale, anziché un oggetto fobigeno, ad essere investito -senza soluzione di continuità- da angosce attinenti alle primissime organizzazioni dello spazio psichico interno (p. 199 ).”
E. Gaddini (1978) che si è occupato della costruzione dello spazio del Sé descrive così l’agorafobia: “La difesa agorafobica è un modo primitivo di distinguere lo spazio esterno dal Sé e quindi un tentativo di raggiungere un senso difensivo di identità”. Una difesa che si costituisce tramite la “costruzione attraverso un “non posso muovermi” di uno spazio artificiale entro il quale (gli agorafobici) devono stare e fuori del quale non possono uscire altrimenti non esistono più (p.820).”
L’esigenza di un limite protettivo interno esterno nella costituzione del Sé nascente è particolarmente messo in evidenza da Gaddini (1976-78), ” … mentre lo spazio concreto tendeva a espandersi e ad affermare se stesso, lo spazio concluso del Sé individuale tende a racchiudersi in una forma e ad acquisire un senso di sé. Il mondo esterno, dotato ora di tutta l’onnipotenza di cui era dotato il Sé totale, preme da ogni dove, minacciando la completa disintegrazione del Sé individuale, che è costretto ad organizzare difese atte a rafforzare i propri confini e a garantirsi la sopravvivenza. E’ all’interno di questo spazio concluso che si organizzano le prime difese del Sé cioè l’imitazione e il diniego (p. 758).”
Sappiamo che il senso di sé nello spazio si sviluppa in un’epoca molto precoce e questo induce a pensare che altrettanto precocemente si producano le barriere psichiche compensative messe in atto nelle fobie spaziali attraverso limitazioni di tutti tipi, volte a proteggersi dall’esposizione allo spazio esterno, così come la componente di angoscia automatica connessa all’attesa di qualcosa di traumatico sempre presente in questi pazienti. Le cause di questi sintomi risalirebbero quindi a precoci situazioni traumatiche nel corso del processo di separazione-individuazione, situazioni che hanno influenzato anche dal punto di vista topico e strutturale la forma dell’Io, in quanto essere di frontiera posto tra l’interno e l’esterno.
A è una paziente che all’inizio dell’analisi mi racconta per sentito dire in famiglia che a sei mesi la madre si è ammalata di epatite per cui lei è stata mandata dalla nonna e per forza svezzata, nel frattempo i genitori avevano fatto un trasloco cambiando casa. Ciò che non è rappresentabile e si sottrae al simbolico in questa paziente, ritorna nel reale con la sensazione di sbandare, barcollare e svenire quando si trova sola e all’aperto. Per anni ha potuto venire in analisi solo se accompagnata dalla madre, la quale doveva però rimanere ad aspettarla in macchina sotto il mio studio.
“La comparsa del sintomo agorafobico rimanda inevitabilmente al trauma, nel senso che per questi pazienti il trauma, sia come evento, sia come condizione, sembra sempre essere in agguato. L’agorafobia come secondo tempo del trauma, tenta di dare una forma, dei confini, a qualcosa che è temibile proprio per la sua mancanza di forma, tentando l’Io inutilmente di attuare uno spostamento dall’interno all’esterno. La comparsa dei sintomi agorafobici in conseguenza di un nuovo “evento”, talora un evento reale in sé non rilevante, ma con la connotazione di un confronto con una realtà ormai inevitabile, una sorta di resa dei conti riguardo ad una vera autonomizzazione, spinge la regressione lungo vie prestabilite fino a quelle aree di fissazione che portano all’inelaborato” (Munari e La Scala 1998p,107).
La sintomatologia spaziale agorafobica infatti di solito compare in un epoca della vita che segna un momento di crescita e di definizione, per l’assunzione di un ruolo, scolastico, sociale o lavorativo, che implica la necessità di separarsi e un certo grado di individuazione e di soggettivazione sufficientemente stabili per poter tollerare la trasformazione, condizioni queste che il potenziale agorafobico non è in grado di sostenere. Si tratta dunque di una sorta di resa dei conti rispetto al proprio sviluppo psichico e alle sue lacune; è importante segnalare che anche nell’infanzia, situazioni che implicano analoghe difficoltà, connotano le fobie scolari, così come in adolescenza alcune delle forme della sindrome degli hikikomori.
Processo analitico e scenari fantasmatici
Come ha avuto modo di osservare Weiss (1966) non sempre l’agorafobia si presenta da sola, più spesso si accompagna anche ad un vissuto claustrofobico e questo lo si osserva spesso anche nello svolgersi del processo analitico. La fobia dell’aereo o di percorrere un ponte ne sono degli esempi classici. Il timore dello spazio troppo vasto si affianca dunque alla paura di uno spazio troppo stretto e costrittivo, configurando una coppia di opposti che connota un vissuto spaziale di agora-claustrofobia. Lo scenario fantasmatico è ancora più completo nel momento in cui emerga anche un vissuto claustrofilico, segno del permanere di un bisogno desiderio di indifferenziazione, ma veicolo anche di significativi strascichi di movimenti edipici sessualizzati e contemporaneamente segno della difesa da questi.
In Spazi e limiti psichici (La Scala 2012) ho descritto due forme di fobie dello spazio:
“Una prima forma è caratterizzata dal fatto che all’interno di una sintomatologia agorafobica che abbia dominato il quadro prima dell’inizio dell’analisi, si sviluppino, nel corso dell’analisi anche aspetti connessi a un’angoscia di natura claustrofobica che resta però di un tono minore rispetto a quella agorafobica, più sullo sfondo. E questo è un fatto importante nello svolgersi del processo analitico perché svela e completa lo scenario fantasmatico e permette di disporre di tutti quegli elementi che poi consentiranno una più approfondita interpretazione ed elaborazione attraverso il transfert. Gli aspetti claustrofobici e i relativi impulsi claustrofilici che li sostengono, non arriveranno mai a essere dominanti, ma grazie ad essi il lavoro analitico potrà procedere. Il rischio di trovarsi di fronte ad aspetti inelaborabili è abbastanza frequente nelle gravi agorafobie: in base alla mia esperienza, quanto più latitante è la coscienza relativa agli affetti claustrofobici e alla relativa claustrofilia che li sostiene, tanto più è difficile far emergere gli aspetti egosintonici di quest’ultima.
In questi casi un insieme di difese va a costituire una barriera psichica posta tra interno ed esterno” (p.79).
Nel caso di A, la paziente che ho prima brevemente descritto, fu proprio, ad analisi molto avanzata, l’elaborazione degli elementi claustrofilici, nell’intreccio delle componenti preedipiche e edipiche, e con il ricorso alle sue derive isteriche, che permise la risoluzione della sintomatologia agorafobica. La scena in fondo era stata sempre lì, visibile e incomprensibile: il suo transitare dalla sua casa alla macchina della madre allo studio dell’analista alla macchina della madre, parcheggiata proprio lì, davanti all’ingresso; da un interno a un interno. Sorvegliante sorvegliata con i due, fra i due, nel ripetersi ricorsivo dell’identico dallo stretto contatto al noli me tangere.
Riguardo la seconda forma invece sono, da subito o dopo un certo periodo dall’inizio dell’analisi, presenti sia angosce di natura agorafobica che angosce claustrofobiche e queste si alternano in un andirivieni a volte estenuante che mette a dura prova i pazienti.
Questa polarizzazione senza una gradazione intermedia si configura come una coppia di opposti sostenuta da una scissione dell’Io che spesso rivela un’organizzazione borderline. In quest’ultima tratti agora-claustro sono molto spesso sullo sfondo e comunque caratterizzano anche altre manifestazioni sintomatiche. Non è un caso che negli stati limite i vissuti spaziali siano cosi spesso alla base del disagio vissuto dal paziente che sempre si dibatte tra gli estremi di coppie di opposti non integrabili tra loro a causa della scissione dell’Io sostenuta dal diniego delle percezioni e che sempre si esprimono attraverso una polarizzazione: troppo caldo troppo freddo, troppo vicino troppo distante ecc. .. Nella storia di questi pazienti si riscontra spesso un atteggiamento di sfida presente fin dai primi anni di vita tra azioni fallico onnipotenti e poi capovolgimenti in stati di inermità. In questi casi l’insieme delle difese non vanno a costituire soltanto una barriera psichica posta tra interno ed esterno, ma la scissione si affonda nell’Io creando una barriera interno/interno (La Scala 2012).
Con B, un paziente che ha sofferto di questa forma di agora-claustrofobia: “da una parte vi è stata la necessità di lavorare cautamente nell’intrapsichico, sulla scissione interno/interno nel tentativo di re-integrare le due impostazioni psichiche, dall’altra è stato necessario inoltrarsi con molta cautela sul fronte inter-soggettivo interno/esterno, come causa prima, io credo, nel mantenere il funzionamento psichico prevalentemente ancorato al potere delle percezioni, a detrimento del sistema preconscio e delle rappresentazioni”(ibid. p.93). Proprio quando abbiamo potuto iniziare a ricomporre la scissione, si è contemporaneamente presentata la necessità di affrontare nel transfert l’elaborazione del vissuto angoscioso e doloroso di sentirsi vergognosamente esposto e non protettonella relazione con una madre intrusiva. Il livello di confusione intrusiva in cui era immerso nella relazione con la madre reale e la necessità di mantenere attiva la scissione come difesa, può essere espressa da questa breve vignetta: nel negozio di famiglia la madre cade da una sorta di alto scranno su cui era seduta; lui che stava all’estremità opposta della stanza accorre e la madre gli dice: “non sei stato tu, non si stato tu”. E per un attimo il paziente rimane spazialmente confuso e disorientato. L’utilità, l’indispensabilità, della scissione si evidenzia qui nel suo essere una difesa dalla con-fusione.
Entrambe queste due complesse tipologie, che peraltro hanno molti punti di sovrapposizione, necessitano di un lungo tempo di elaborazione in analisi, il lungo tempo necessario a sciogliere i potenti legami che si sono organizzati nella difettosità dei confini. Le trasformazioni – abbiamo visto quanto siano temibili – devono poter essere così lente da passare quasi inosservate e poter essere colte talora solo a posteriori.
Bibliografia
Amati Mehler J. (1989) Fobie, in Trattato di psiconalisi a cura di Antonio Alberto Semi, Raffaello Cortina Editore
Freud, S. (1892-95) Studi sull’isteria. OSF 1.
Freud S. (1894) Legittimità di separare dalla nevrastenia un preciso complesso di sintomi come “nevrosi d’angoscia”. OSF 2.
Freud S. (1922). L’Io e l’Es. O.S.F., 9.
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Gaddini E. (1976-78). L’invenzione dello spazio in psicoanalisi. In Gaddini E.,Scritti,Milano, Raffaello Cortina, 1989.
Gaddini E. (1978). Appendice III, Note, frammenti, interventi, [Su alcuni meccanismi di difesa]. In Gaddini E., Scritti, Milano, Raffaello Cortina, 1989.
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La Scala M. (2012) Spazi e limiti psichici, fobie spaziali, funzionamento borderline, la vergogna, la melanconia, Franco Angeli, Milano
Munari F., La Scala M. (1998). Sull’agorafobia. In Genovese C. (a cura di) Corpo-mente e relazione. Milano, Dunod-Masson.
Weiss E. (1966). La formulazione psicodinamica dell’agorafobia. Riv. Psicoanal.