Parole chiave: indifferenziazione, trasmissione, topica, confini psichici.
Abstract: Una breve ricognizione sulle questioni dei confini dello spazio psichico e la trasmissione dei contenuti psichici, con particolare riferimento alle patologie extranevrotiche.
Fabio Fiorelli
Spazi e confini psichici
Se è vero che la pratica psicoanalitica si configura come un “curare con le parole”, da psicoanalisti siamo sempre più consapevoli che gli scambi tra analista e paziente passano a volte, e in certi casi soprattutto, per altri canali di comunicazione. In generale, la possibilità per lo psicoanalista di accedere alle aree più indifferenziate della relazione con l’altro dipende, in prima istanza, dalla particolare condizione di ricettività in cui egli si dispone all’ascolto. L’assetto che prevede la cosiddetta “attenzione liberamente fluttuante” genera un particolare allentamento del pensiero logico secondario in favore di una percezione più orientata verso le immagini e più sensibile agli affetti che circolano nella relazione; il pensiero si fa meno finalizzato alla comprensione immediata di ciò che accade, almeno fino al momento in cui non si delinea, in modo quasi spontaneo, una configurazione tale da consentirne una traduzione nel linguaggio verbale e quindi in una interpretazione. In altri termini, per accedere ai livelli più profondi e inconsci del paziente lo psicoanalista si dispone, per usare una terminologia metapsicologica, a rendere più permeabili e fluidi i confini del suo Io attraverso uno “slegamento” dell’energia che altrimenti mantiene coesi e stabili tali confini[1]; altrettanto accade al paziente nel momento in cui si trova ad associare liberamente e a utilizzare forme di pensiero più regredite rispetto al suo livello di evoluzione dell’Io.
Fin qui, siamo in una situazione “modello” che si realizza soprattutto con pazienti che possiamo far rientrare nella categoria delle condizioni nevrotiche. Alquanto diversa può essere la situazione con pazienti che presentano una struttura psichica prevalentemente non nevrotica. In particolare, la clinica delle condizioni extra-nevrotiche – la cosiddetta clinica contemporanea – ha comportato alcune nuove acquisizioni sia nella teoria sia nella pratica della cura. Si tratta di condizioni raggruppabili nelle grandi classi delle sindromi borderline e psicotiche e che “costringono” lo psicoanalista a cimentarsi con variazioni di setting non previste dal modello classico di cura. Ma soprattutto, tali situazioni comportano un’implicazione dell’analista a livelli di coinvolgimento emotivo, e talvolta anche materiale, concreto, che le situazioni prevalentemente nevrotiche solitamente non richiedono. In particolare, ciò che spesso accade è che l’analista si trova confrontato con modalità di espressione e di comunicazione che mettono in discussione la distinzione tra soggetto e oggetto. Ciò può essere fatto derivare, in modo specifico, dalla struttura psichica del paziente che non sembra aver raggiunto stati di differenziazione sufficientemente evoluti (non sufficientemente soggettivata, per usare un’altra terminologia) il che induce, a sua volta, sentimenti analoghi nell’analista. Una manifestazione abbastanza evidente di tale condizione può essere ritrovata nella sensazione dell’analista di una particolare “permeabilità” dei suoi confini psichici, dando luogo a comunicazioni, spesso inconsce, che ben si prestano a rappresentare la condizione interna del paziente. Sebbene le nozioni di identificazione proiettiva e di controtransfert possono in una certa misura rendere ragione di tali fenomeni, potrebbe essere preferibile adottare la visione di Harold Searles che parla, in questi casi, di proiezione nella relazione analitica non tanto e non soltanto di parti del Sé del paziente, quanto piuttosto dell’intera relazione vissuta con gli oggetti primari. Ne può così risultare la percezione, spesso penosa, da parte dell’analista, di trovarsi a sperimentare alternativamente il ruolo del paziente stesso o, per esempio, della madre, vivendone le rispettive emozioni. Tali fenomeni, pur nella loro spiacevolezza, diventano un mezzo fondamentale per la comprensione di ciò che può essere accaduto nelle primissime fasi dello sviluppo psichico del paziente. Per quanto questi fenomeni siano per molti versi inevitabili, occorre anche che l’analista sia disposto ad accoglierli e che si ponga quindi in una condizione di ricettività ancor più ampia del solito[2]. Si apre allora la questione più generale della possibilità di una “trasmissione psichica”, del passaggio cioè di elementi psichici da un soggetto all’altro. La stessa nozione di controtransfert implica che un soggetto possa far sperimentare a un altro soggetto emozioni che appartengono al primo, attraverso uno “sconfinamento” dall’uno all’altro; nel nostro ambito siamo abituati a pensare che ciò possa avvenire, ma forse occorre interrogarsi su come possa accadere che una sostanza immateriale (lo psichico) possa influenzare materialmente l’altro, costringendolo di fatto, in molti casi, a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro e senza che ciò sia, almeno immediatamente, controllabile dalla coscienza[3]. È il problema che si pone, ad esempio, Grotstein (2007), partendo in particolare da Bion, con la sua nozione di transidentificazione proiettiva, nel tentativo di andare oltre le consuete accezioni di identificazione proiettiva e dei conseguenti movimenti controtransferali che, a suo parere, non renderebbero ragione della trasmissione psichica tra soggetti.
In particolare da quando R. Cahn (1981) ha proposto la sua nozione di “soggetto” con i conseguenti sviluppi del concetto di soggettivazione, la psicoanalisi ha iniziato a confrontarsi ancor più da vicino con la questione di quale sia lo spazio psichico dell’individuo e su quali siano i confini dell’apparato psichico. Per quanto la psicoanalisi sia stata edificata da Freud prevalentemente sulla base di una concezione “monadica” dell’apparato psichico – in altri termini sulla costituzione dell’intrapsichico descritta dalle due topiche – la clinica delle strutture limite e delle psicosi ha evidenziato l’impossibilità di pensare l’individuo senza tener conto del ruolo dell’oggetto, in particolare di chi si prende cura del bambino.
A partire dalla formulazione freudiana sulla “psiche estesa”, pensata in uno dei suoi possibili significati, le domande che ci si può porre sono: dove inizia e dove termina l’apparato psichico? I suoi confini sono definibili all’interno del corpo? In altri termini, si può pensare che l’individuo sia definito esclusivamente dal suo intrapsichico? Sono appunto le condizioni extra-nevrotiche che impongono con forza la necessità di pensare il soggetto all’interno dello spazio delle relazioni che ha intrattenuto con gli oggetti primari e che intrattiene con noi in quanto psicoanalisti, con il risultato di dover constatare che spesso è proprio l’intrapsichico che non si è costituito o lo ha fatto solo parzialmente. In questo senso, lo spazio psichico di alcuni soggetti mostra confini che non sono definibili all’interno della persona stessa, o quantomeno non soltanto; come dire che lo psichico ha delle “propaggini” che includono soggetti esterni all’individuo stesso e che si manifestano in particolare sotto la forma della dipendenza dall’altro.
Se nelle condizioni limite ciò si presenta soprattutto come necessità, da parte del soggetto, di mantenere una presenza dell’altro che va oltre gli spazi consueti (per esempio sotto la forma di contatti più frequenti con lo psicoanalista al di fuori della seduta o con la necessità di mantenere un contatto visivo che attesti la presenza dell’altro), è nelle condizioni più francamente psicotiche che tale caratteristica si fa più marcata ed evidente. In altri termini, non sembra in questi casi essersi realizzato quel superamento della dipendenza primaria che caratterizzerebbe, invece, i soggetti definibili nevrotici. Dal punto di vista metapsicologico, si può dire che, se definiamo i processi identificatori come introiezioni stabili e strutturanti dell’apparato psichico, in queste situazioni non si è stabilita quella condizione per cui l’altro si è costituito come oggetto interno, perduto nella sua realtà materiale e riacquisito come parte di sé. La carenza o la mancanza di questo lavoro del lutto che permetterebbe di distinguere, per esempio, sé dall’altro pur riconoscendo il legame, produce relazioni di dipendenza reciproca tra il soggetto e l’oggetto che obbligano a considerare come paziente non tanto una singola persona quanto quella che si può definire una “situazione psicotica” (o un campo psicotico, per usare un’altra terminologia); non c’è quindi “uno” psicotico[4] ma, molto spesso, un insieme psicotico al cui interno uno appare come il paziente designato o, per usare la terminologia di Racamier, il “figurante predestinato”[5]. Se accordiamo, in questi casi, un ruolo determinante all’oggetto e all’indifferenziazione soggetto-oggetto, dobbiamo anche conseguentemente considerare che la topica non si risolve più nella triade Es-Io-Super-io, ma deve includere anche l’oggetto come elemento altrettanto determinante. La domanda potrebbe così essere: qual è lo spazio che contiene gli elementi psichici? Se in quei casi che definiamo da analisi possiamo essere relativamente certi che lo spazio intrapsichico contenga tutta o quasi la vita psichica della persona, in altri l’intrapsichico “sconfina” letteralmente nell’altro e quei contenuti non appartengono più a nessuno in particolare. Se seguiamo coerentemente quanto ci propone Kaës con la sua articolazione della realtà psichica nei tre spazi del soggettivo, del legame intersoggettivo e degli insiemi pluri-soggettivi[6], non possiamo considerare pertinente per noi soltanto lo spazio del singolo soggetto, ma dobbiamo invece, piuttosto, tenere conto di tutte le collocazioni “spaziali” dello psichico; tali questioni sono state affrontate, per esempio, nell’ambito delle riflessioni su ciò che viene definita “terza topica”[7].
La dipendenza del soggetto dall’oggetto e il conseguente allargamento dello spazio in cui lo psichico si manifesta, con il setting stesso che si trova costretto a includere altri soggetti nel suo campo, è proprio ciò che conduce a interrogarsi anche sui livelli di comunicazione che si instaurano tra lo psicoanalista e il paziente.
Un’area in cui queste condizioni indifferenziate si evidenziano più nettamente è anche quella dei fenomeni cosiddetti “telepatici”[8], intendendo qui quelle manifestazioni di particolare concordanza tra paziente e analista: sogni molto simili fatti in contemporanea, intuizioni improvvise di quanto il paziente sta per dire, fino alla sperimentazione di sensazioni apparentemente incongrue che solo a posteriori possono essere fatte risalire a stati mentali ed emotivi del paziente. Tali fenomeni – non unicamente circoscrivibili al rapporto con pazienti con problematiche legate alla differenziazione soggetto-oggetto ma che con essi hanno caratteristiche più marcate e con un maggiore senso di estraneità – possono essere fatti risalire ad aree e fasi dello sviluppo particolarmente precoci e primitive; Elvio Fachinelli (1983), ad esempio, ha indagato ciò che può avvenire nel momento in cui si attivano situazioni che riguardano epoche perinatali, momenti in cui l’area verbale del neonato non si è ancora sviluppata e in cui, soprattutto, la comunicazione madre-bambino avviene per sintonizzazioni inconsce e immediate: si tratta dell’area che l’autore definisce “i dintorni del magico”. La sua riflessione prende le mosse prevalentemente da considerazioni sul tempo, ma possono altrettanto efficacemente riguardare le problematiche sullo spazio psichico qui accennate.
Siamo quindi di fronte ad argomenti molto dibattuti all’interno del pensiero psicoanalitico ma che possono ancora generare riflessioni ed allargamenti del campo teorico e clinico, soprattutto in un momento in cui si parla molto delle “estensioni” del setting.
[1] Cfr., ad esempio, Federn (1952). Rimando anche al mio lavoro del 2014.
[2] Sul questo argomento, e in particolare sul tema della passibilità dell’analista come condizione di particolare ricettività, cfr. Scarfone (2014).
[3] Sull’argomento vedi anche Jung e Pauli (2015).
[4] In analogia con Winnicott per cui non esiste il bambino senza la madre.
[5] Cfr. Racamier (1992).
[6] Cfr., ad esempio, Kaës (2010).
[7] Cfr., ad esempio, Marceau (2020). Cfr. anche Conrotto (2000).
[8] Sull’argomento cfr. la ricca e dettagliata ricostruzione in M. Pierri (2018).
Bibliografia
Balsamo M. (a cura di) (2014), Momenti psicotici nella cura, Franco Angeli, Milano.
Cahn. R. (1991), Du Sujet, Revue française de psychanalyse, 1991/6.
Fachinelli E. (1983), Claustrofilia, Adelphi, Milano.
Federn P. (1952), Psicosi e psicologia dell’Io, Bollati Boringhieri, Torino, 1976.
Fiorelli F., Permeabilità dei confini, in Balsamo M. (2014).
Grotstein J. (2007), ‘Transidentificazione proiettiva’: un’estensione del concetto di identificazione proiettiva, in L’Annata psicoanalitica internazionale, 3.
Jung e Pauli (2015), Il carteggio originale: l’incontro tra Psiche e Materia, Moretti e Vitali, Bergamo.
Kaës R. (2010), Il lavoro dell’inconscio in tre spazi della realtà psichica. Un modello della complessità. Rivista di Psicoanalisi, 56.
Marceau L. (2013), Pour une métapsychologie de l’espace. Une troisième topique, in Filigrane.
Écoutes psychothérapiques, 2/2013.
Pierri M. (2018), Un enigma per il dottor Freud, Franco Angeli, Milano.
Racamier P. C. (1992), Il genio delle origini, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1993.
Scarfone D. (2014), L’impassé, actualité de l’inconscient, Revue française de psychanalyse, 2014/5.