Yves Tanguy
Parole chiave: perlaborazione, ripetizione, coazione a ripetere, agieren, parola ‘agita’
Perlaborazione: una dimensione al centro della pratica clinica psicoanalitica
Roberta Guarnieri
Abstract La perlaborazione, concetto proposto da Freud nel 1914 con il termine tedesco di Durcharbeitung, è da considerare come un concetto chiave della pratica clinica in psicoanalisi. Essa, nel suo articolarsi con gli altri due termini, “ricordare” e “ripetere”, permette di prendere in considerazione il lungo, lento e silenzioso lavoro trasformativo che opera nel paziente, nella sua realtà psichica che sempre mantiene una certa opacità. Anche l’analista è coinvolto, nel suo scenario interno, attraverso il proprio “ascolto perlaborativo”, in questa processualità: sarà la sua fiducia nel metodo, nelle potenzialità del tempo di latenza che segna l’attivarsi inconscio della perlaborazione, ciò che potrà favorire l’avvio della perlaborazione nel paziente, anche là dove essa non si sviluppa spontaneamente come effetto del transfert e della cornice analitica. Ciò sarà particolarmente importante per modulare l’assetto clinico dell’analista con quelle situazioni cliniche che non sono organizzate sul terreno della nevrosi ma piuttosto dei funzionamenti psichici in cui l’agieren è in primo piano così come la coazione a ripetere.
“Erinnern, Wiederholen, Durcharbeiten”: questo il titolo, in tedesco del breve scritto di Freud del 1914, comparso come terzo saggio all’interno del lavoro “Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi” 1913-14 (Freud, 1914, p. 353). Le traduzioni in inglese, working-through è il termine utilizzato, e in francese, perlaboration, hanno permesso di marcare la differenziazione necessaria tra il termine generico di ‘elaborazione psichica’ e il suo versante terapeutico: in italiano al contrario la scelta non è stata altrettanto chiara. Il termine perlaborazione viene raramente utilizzato, complice il fatto che la traduzione adottata nelle Opere dell’editore Boringhieri, il vocabolo utilizzato dai traduttori fu quello di ‘rielaborazione’. Nella traduzione italiana dell’Enciclopedia della psicoanalisi di J. Laplanche e J-B. Pontalis, il curatore, rispondendo ai consigli di Elvio Fachinelli, utilizza l’espressione “elaborazione terapeutica”.
Quello che mi pare importante osservare è che il termine scelto da Freud in questo scritto che, ricordiamolo, introduce due nuovi concetti che avranno un’importanza cruciale nello sviluppo della tecnica analitica – la perlaborazione, appunto e la coazione a ripetere-, permette di dare spessore al tipo di lavoro psichico che è implicato nella cura analitica: il prefisso durch imprime alla parola, diventata concetto, la forza di ciò che designa, l’attraversamento e il superamento delle resistenze, da parte del paziente, nel corso della cura. Vedremo che anche l’analista è altrettanto implicato, seppur in una diversa posizione, nella fatica di tale lavoro psichico.
La perlaborazione, nata all’interno della pratica clinica psicoanalitica, ne è perciò un’espressione specifica: essa può articolarsi sia con l’attività sublimatoria sia con il lavoro di cultura, Kulturarbeit: in quest’ultimo caso le sue articolazioni sarebbero da rintracciare e ripensare.
Il lavoro psichico, ciò che si svolge nello psichismo sotto la spinta delle pulsioni, può prendere la via dell’elaborazione psichica o del suo parziale fallimento: sarà all’interno della cura analitica che le potenzialità elaborative proprie dello psichismo potranno prendere la strada della vera e propria perlaborazione. Nulla toglie che altre forme di elaborazione psichica siano possibili, anche al di fuori dell’esperienza dell’analisi.
Sia Laplanche e Pontalis sia, più di recente, Le Guen, attribuiscono alla perlaborazione una valenza assai rilevante. I primi affermano infatti che “… la si potrebbe definire come il processo capace di far cessare l’istanza ripetitiva propria alle formazioni inconsce mettendole in relazione con il complesso della personalità del soggetto” (Laplanche e Pontalis, 1967, p. 151), puntualizzando anche che essa sarebbe attiva proprio nei momenti della cura in cui il lavoro analitico sembra ristagnare.
Le Guen (2008, p.1087) sottolinea un altro aspetto, affermando che «è proprio a partire dal ricordare (rimemorazione) come scopo della cura e dalla ripetizione come ostacolo, che il concetto di perlaborazione viene introdotto». Nell’opera di questo Autore, il termine utilizzato, a cui è dedicato un lemma, è definitivamente quello di “perlaborazione”.
Ancora più recentemente Udo Hock, nel suo contributo al libro collettaneo IPA, Contemporary Freud Turning Points and Critical Issues Series, “ On Freud’s “Remembering, Repeating and Working-through” (U. Hock and D. Scarfone, 2024) si sofferma sulle diverse traduzioni di Durcharbeitung, mettendo in luce quanto il prefisso durch aggiunga all’idea di attraversamento, anche le “…nozioni di intensità, scalarità e deviazione “ (ibidem, p.24), ciò a dimostrazione di quanto questa nozione freudiana sia nuovamente al centro della riflessione a noi contemporanea.
Ritornando a Freud, è importante rilevare che proprio nel saggio del 1914, egli menziona per la prima volta il tema della ripetizione che sarà il perno attorno al quale si svolgeranno i più profondi rimaneggiamenti concettuali a partire dal 1920 in poi. Afferma infatti Freud: «una volta abolita la resistenza dell’Io resta da superare la forza della coazione a ripetere, cioè l’attrazione dei modelli inconsci sul processo pulsionale rimosso, e non vi è nulla da obbiettare se si vuole indicare questo fattore come resistenza dell’inconscio» (Freud, 1925, p.305)
Per concludere questa parte introduttiva al concetto, mi sento di concordare con la definizione presente nel Dizionario di Le Guen, «Modo di svincolamento dei meccanismi ripetitivi che nutrono la resistenza, la perlaborazione è avviata dall’interpretazione delle resistenze attualizzate all’interno del transfert, – cioè dei ricordi che vengono agiti anziché essere riportati alla memoria» (Le Guen, 2008, p.899)
Tempo psichico e tempo della cura:
La cura analitica, che si organizza attorno alla presenza del transfert, attivo anche quando apparentemente assente o silente, e perciò all’investimento pulsionale dell’oggetto analista, si sviluppa all’interno di una temporalità molto specifica che è uno dei fattori che la definiscono come cura analitica: il tempo delle sedute e la loro frequenza necessaria, sono aspetti non eliminabili del modo in cui il processo clinico diventa pienamente psicoanalitico.
La frequenza delle sedute nel tempo, nel tempo socialmente scandito della settimana e dell’anno, si rende necessario proprio dal modo in cui la perlaborazione lavora. Il tempo delle sedute scorre parallelamente al tempo della vita, e anche l’intervallo che intercorre tra di esse scandisce una ritmicità, il cui valore è stato ampiamente dimostrato (Conrotto, 2010). È come se la cura analitica, fondata sulla continuità, il ritmo e la ripetizione – potesse trattare gli scogli, le impasses, le resistenze di vario ordine e anche la coazione a ripetere, nelle sue forme analiticamente affrontabili, utilizzando la spinta alla ripetizione intrinseca allo psichismo, mettendola al servizio del processo trasformativo. La perlaborazione sarebbe in questo senso, il modo in cui il paziente, ma anche l’analista, permettono al tempo della cura di manifestare le sue potenzialità trasformative: ciò può avvenire in un modo del tutto silenzioso.
Nel suo fondamentale articolo, J-L Donnet tratta proprio di questo silenzio, di questo tempo apparentemente inerte, in cui nulla sembra accadere e le parole, in seduta, non possono dare accesso ai processi che sono in atto, nello scenario psichico inconscio del paziente. Possiamo descrivere in molti modi, ogni analista ne fa esperienza, questi periodi, anche molto prolungati, che potrebbero essere considerati impasses nel processo della cura. Sono particolarmente d’accordo con questo Autore quando egli ci ricorda che è l’analista, che fonda la sua pratica nella propria esperienza di analisi personale, a dover preliminarmente mantenere una ‘fiducia’ nelle possibilità trasformative del processo analitico stesso. Egli, infatti, afferma: “La perlaborazione rinvia dunque, in prima battuta, a ciò che rimane in sospeso nell’attività interpretativa (o di costruzione). Essa domanda allo psicoanalista di lasciar essere, un lasciar-essere dove il paziente – si potrebbe dire con Winnicott – è libero di sentirsi solo in sua presenza. La perlaborazione è legata alla fiducia nel tempo di latenza, alla predilezione essenziale per l’après-coup. In questo modo potrà fare da giuntura invisibile tra il ripetere e il ricordare. La perlaborazione è il percorso radicalmente imprevedibile del senso nel gioco delle forze intrapsichiche.” (J-L Donnet, 2005, p.99).
In questo gioco di forze, intrapsichico ed interpsichico, che si determina nel corso del processo della cura, perlaborazione e coazione a ripetere possono essere considerati come i due versanti, opposti, in cui esso può indirizzarsi. Tra di essi sembrerebbe crearsi dunque una sorta di continui scambi, che farebbero pensare al fatto che la loro differenza possa essere espressione di gradienti di forze piuttosto che di una loro netta opposizione.
La perlaborazione alla prova della clinica dei pazienti non nevrotici.
In rapporto a quanto più sopra esposto, si può intravvedere un cambiamento di accento via via che la pratica clinica si sposta verso la cura analitica dei casi non nevrotici.
Mentre nel campo delle nevrosi l’attività del ricordare, nel quadro di un transfert sulla parola, è il motore della ripetizione transferale e della perlaborazione, nelle analisi dei pazienti non nevrotici la ripetizione prende corpo, con grande frequenza, nell’agieren e la perlaborazione non è affatto l’esito naturale del lavoro analitico. Il campo di ciò che si può includere nell’ambito dell’agieren si è esso stesso ampliato, includendo non solo i cosiddetti «agiti», all’interno e all’esterno della seduta analitica, ma anche la cosiddetta «parola agita» (Donnet, 2005)
C’è però da domandarsi, e personalmente me lo sto chiedendo sempre più spesso, se una troppo netta contrapposizione tra pazienti nevrotici e pazienti con un funzionamento non nevrotico (che avrebbero scarse capacità di simbolizzazione, scarsa ‘mentalizzazione’ o meglio psichicizzazione e che obbligherebbero a modificazioni del setting analitico) risponda alle questioni cliniche che, come analisti, dobbiamo affrontare nella nostra pratica clinica. Intendo dire che anche pazienti che non sono dei casi limite o che non presentano gravi psicosomatosi o comunque funzionamenti frutto di una scarsa psichicizzazione, possono rivelarsi pazienti molto difficili da trattare analiticamente : in molti casi il peso della ripetizione, della coazione a ripetere, è così potente da rischiare di mettere in dubbio, nell’analista, la fiducia nel metodo e le sue capacità di mantenere un investimento nel processo analitico. Ho cercato di descrivere, in questa prospettiva, alcuni momenti significativi di una lunga analisi in un lavoro recentemente pubblicato (Guarnieri, 2024, p.116)
Allo stesso modo sono portata a pensare che gli analisti siano ora più attrezzati nel trattare i pazienti il cui funzionamento cade sotto il segno dell’agieren o nei quali il peso della coazione a ripetere è fortissimo e può indurre un senso di disperazione nell’analista e non solo nel paziente. Alle maggiori capacità cliniche degli analisti non credo sia estraneo il fatto che le stesse analisi degli analisti sono diventate sempre più lunghe e approfondite: ritengo che questo fatto abbia permesso che si espandesse in modo significativo la capacità perlaborativa dell’analista; anche l’esperienza clinica acquisita e condivisa tra analisti, ha modificato, in una certa misura, il nostro modo di lavorare, soprattutto in condizioni lontane da quelle per le quali la cura analitica fu inventata.
Non possiamo non prendere in considerazione la forza attiva della pulsione di morte in questi casi e il fallimento delle capacità di legamento operate dal masochismo erogeno primario: senza poter entrare qui nel merito di questi concetti psicoanalitici, vorrei solo sottolineare che la perlaborazione, nello specifico, è il modo in cui l’attività di legamento, tra rappresentazione di cosa e rappresentazione di parola in primis, si crea nella psiche del paziente, a contatto con quella dell’analista, all’interno della cornice analitica, nel tempo lungo della cura.
Riprendendo il nesso molto forte tra il lavoro psichico durante la cura e la ripetizione agita, in tutte le sue forme, propendo per l’idea che la ripetizione transferale e la ripetizione agita siano aspetti, gradienti si potrebbe dire, di un medesimo movimento la cui differenza è molto probabilmente una differenza di ordine quantitativo: quando prevale la ripetizione agita, il paziente è attraversato da correnti pulsionali, riferite a pulsioni libidiche e pulsioni aggressive (ma anche a pulsioni di morte), di forza eccessiva; la situazione analitica, con l’inclusione in primo luogo dell’analista attraverso i propri movimenti controtransferali, non è in grado di avviare quei processi trasformativi che darebbero luogo alla perlaborazione nel paziente e, quasi specularmente, all’ascolto perlaborativo da parte dell’analista. Il transfert, in questi casi, è prevalentemente un ‘transfert sull’oggetto’ piuttosto che un ‘transfert sulla parola’: l’analista viene sovrainvestito in quanto oggetto mentre la sua funzione interpretante sembra eclissarsi. Noi sappiamo che proprio in quanto l’analista non è l’oggetto al quale gli affetti, supporti dei moti pulsionali della sessualità infantile, sono diretti, accade che il paziente riesca ad attuare il passaggio simbolico, portatore delle trasformazioni psichiche proprie della cura analitica. Tale passaggio simbolico trasformatore consiste, sostanzialmente, nella possibilità di vivere in modo tollerabile l’esperienza della assenza dell’oggetto (primario), trasformando il vuoto da essa creato nell’esperienza della perdita.
In effetti, tale esperienza, l’esperienza cioè dell’assenza dell’oggetto e della sua perdita sul piano simbolico, può diventare un’esperienza, nel senso di esperienza vissuta (Erlebnis) di perdita solo se la parola, che lega la perdita dell’oggetto all’oggetto stesso e lo mantiene vivo ed investito nello spazio psichico del paziente, viene sufficientemente investita.
Una parola che, in analisi, è sempre un effetto del transfert e perciò è sempre, anche nelle situazioni più disperate e disperanti, indirizzata all’analista. Egli, nel momento in cui il paziente gli indirizza la sua parola, o il suo silenzio, non è mai «un» oggetto ma è un depositario di molti potenziali oggetti che si possono ricreare sulla scena dell’analisi.
In fondo possiamo dire che, se la parola in analisi, grazie alla sua carica affettiva, può essere avvicinata ad un processo di scarica e perciò all’agieren, è solo in quanto segnata dal lutto per l’oggetto che essa assume il suo aspetto pienamente simbolizzante (Rolland, 2006). Quando questo processo non si attua, anche la perlaborazione rimane inattiva o non si sviluppa per nulla.
La questione rilevante, che nel lavoro analitico assume un particolare valore, risiede nel fatto che la parola, in analisi, non sia solo la parola proferita: il corso dell’analisi è tessuto di parole mai pronunciate eppure presenti, parole che costituiscono la trama del «discorso interiore», del paziente e dell’analista. Sappiamo che quando l’analista tace, egli in realtà parla continuamente con se stesso e con gli interlocutori che via via si presentano, o si nascondono, alla sua mente. Questa ricchezza e fluidità del discorso interiore dell’analista gli permette di sospendere la sua attenzione e di funzionare in modo associativo: di avviare il suo «ascolto perlaborativo» (Rolland, 2006). Il «discorso interiore» del paziente è ciò che possiamo indovinare a partire dalle sue parole, dai silenzi e da ogni altro elemento significativo (linguistico o extra-linguistico): è ciò che ci induce continuamente a chiederci a «chi» il paziente sta parlando quando si rivolge a noi, ma anche a chi sta parlando, dentro di sé, quando egli tace. Che cosa, di tale lavoro interno del paziente, ha direttamente a che fare con la perlaborazione? Attraverso quali indizi possiamo cogliere, se pur indirettamente, il silenzioso lavoro perlaborativo del paziente?
Se la perlaborazione si riferisce al tipo di lavoro interiore che il paziente compie in relazione agli accadimenti psichici, affettivi in primo luogo, durante la cura, essa avrebbe a che fare con le modalità con cui il paziente «assimila», in cui si appropria di ciò che è stato «trattato» dall’analista e gli è stato restituito come interpretazione (ma anche come qualità dell’ascolto e qualità della cornice analitica nella sua funzione «inquadrante») (Donnet, 1995).
La perlaborazione, pur essendo espressione della resistenza (di transfert), dovrebbe perciò arrivare a riattivare il funzionamento associativo nel paziente: il «discorso interiore» del paziente. L’avvio della perlaborazione avrebbe dunque a che fare con quel momento cruciale in cui il paziente, attraverso l’interpretazione, può fare l’esperienza che uno stesso avvenimento è presente dentro di lui sia nella sua veste di evento del passato sia come attualizzazione nel transfert.
Per concludere, sono portata a pensare che nel lavoro clinico psicoanalitico, il trinomio, “ricordare, ripetere, perlaborare” rimanga alla base della nostra pratica e dell’esperienza della cura che offriamo al paziente. Sta a noi analisti la fatica di ritrovare i modi in cui questa processualità può ricominciare a funzionare o iniziare, spesso per la prima volta, a diventare un nuovo terreno di esperienza soggettiva per il paziente.
Resta il fatto che possiamo concordare con le parole di Freud. “Questa rielaborazione delle resistenze (perlaborazione) può, nella pratica, risolversi in un compito gravoso per l’analizzato e in una prova di pazienza per il medico. Si tratta però della parte del lavoro che produce i maggiori mutamenti nel paziente e che differenzia il trattamento analitico da tutti i trattamenti di tipo suggestivo” (Freud, 1914, p. 361)
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