La Cura

Oltre il comportamento: aspetti psicologici ed affettivo-interpersonali delle condotte antisociali e psicopatiche. U. Sabatello

6/04/25
Oltre il comportamento: aspetti psicologici ed affettivo-interpersonali delle condotte antisociali e psicopatiche. U. Sabatello

Parole chiave: violenza, età evolutiva, aggressività, psicopatia

OLTRE IL COMPORTAMENTO: ASPETTI PSICOLOGICI ED AFFETTIVO-INTERPERSONALI DELLE CONDOTTE ANTISOCIALI E PSICOPATICHE

“Forse il valore fondamentale dell’approccio
psicoanalitico è che si tiene ancorato all’idea che l’atto
violento ha un significato che potrebbe non essere mai
conosciuto appieno, e allo stesso tempo riconosce il valore
che la curiosità e l’interesse per quel possibile significato
potrebbero avere nel dare inizio a un cambiamento
nella relazione tra l’autore e le sue azioni”

Stanley  Ruszczynsky [1].

Una tassonomia della violenza non è cosa da poco tanto che ogni tentativo si trasforma in lunghe liste su come gli esseri umani siano in grado di far danno, a se stessi e agli altri. Dobbiamo quindi accettare che le violenze siano tante e diverse e spetta a noi attribuire un principio ordinatore o, al più, un vertice di osservazione. Ritengo che, una prima distinzione che possa ritenersi utile clinicamente, risieda nella differenza tra oggettuale e anoggettuale, tra la violenza che si consuma all’interno delle relazioni personali o ciò che, come la violenza politica, la guerra o la dittatura, è al di fuori di esse.

I sistemi nosografici maggiormente utilizzati e le principali tassonomie longitudinali propongono una categorizzazione dei disturbi della condotta e antisociale in termini prettamente comportamentali, omettendo, riferimenti ad aspetti psicologici e relazionali espliciti. In tal modo la nosografia appare fortemente intrisa di preoccupazioni etiche e le definizioni dei disturbi si configurano in termini simili a categorizzazioni giuridiche, con descrizioni del disturbo mentale come condotte che violano norme piuttosto che come condizioni psicopatologiche, con una sorta di “deumanizzazione” del soggetto agente e privazione di ogni senso comunicativo.

Violenza, devianza, condotte aggressive sono concetti tipicamente fenomenologici che alludono a una tendenza del soggetto ad agire, descrivendo cosa egli faccia; limitarsi a questo livello di valutazione configura una diagnosi essenzialmente tautologica.[2] Restringere lo sguardo ai comportamenti, senza andare oltre il manifesto o il manifestato, sembra inoltre presentare una peculiare corrispondenza – una sorta di collusione – con il fondamento delle psicopatologie della condotta, che consiste in una tendenza alla traduzione dei significati inconsci in azione (acting-out) e al trasferimento a un altro da sé (oggetto o persona cui l’azione viene diretta) di aspetti appartenenti al proprio mondo psichico, spesso non rintracciabili coscientemente dalla persona.

Quando si passa poi dalla “diagnosi nosografica” alla clinica, rimanere sulla descrizione delle condotte appare riduttivo, oltre che poco utile, ancor più perché il nucleo del lavoro terapeutico con queste condizioni psicopatologiche deve necessariamente passare per il percorso inverso all’esternalizzazione, un recupero della relazione del soggetto con il mondo interno e relazionale che vada oltre l’agito e ne riprenda gli aspetti di significato, umani e soggettivi. Nella direzione di un “ritorno all’umano”, un importante passo è la re-introduzione[3]- nel DSM-5- della possibilità di specificare nei disturbi della condotta la presenza di limitate emozioni prosociali (limited-prosocial-emotions, LPE) che, parafrasando in modo meno stigmatizzante il costrutto dei tratti callous-unemotional (CU), ha recepito evidenze, note da tempo ai clinici e confermate empiricamente, sulla presenza di caratteristiche psicopatiche in età evolutiva con l’individuazione di un sottogruppo che mostra evidenze di aspetti genetici, cognitivi, emotivi e sociali differenti, con eziologia e patogenesi autonome ed evidenti implicazioni per la clinica. 

L’interesse e il dibattito per lo studio dei comportamenti antisociali e psicopatici in età evolutiva trae origine dal lavoro di Frick e colleghi (Frick, O’Brien, Wootton, & McBurnett, 1994), ripreso e approfondito da Forth (1995) e Lynam (1996) a partire dagli anni novanta si è successivamente accresciuto negli ultimi 25 anni, come risulta ben evidente dal proliferare dei numerosi articoli scientifici su questo argomento[4].

Nonostante la riluttanza a parlare di psicopatia in età evolutiva e le relative criticità etiche e pratiche implicate, l’esordio non può essere pensato come improvviso all’ingresso nella maturità e, sia l’esperienza clinica sia la ricerca empirica, indicano chiaramente che manifestazioni “in nuce” del disturbo si possono individuare già a partire da fasi precoci, precorritrici di quello che in età adulta si delineerà come “profilo psicopatico”. Il costrutto è diventato importante soprattutto all’interno dell’ambito giuridico come elemento principe per la valutazione della personalità e il tipo di misure attuabili per il soggetto (si pensi, nell’ambito del processo penale minorile, alla valutazione della fattibilità della messa alla prova) considerate le sue associazioni con gli agiti violenti e l’alto rischio di recidiva.[5]

I callous-unemotional traits (CU) sono visti come il nucleo centrale della psicopatia (Cleckley, 1941; Hare, 2003) e si sono rivelati in grado di intercettare, tra i bambini e gli adolescenti che presentano alterazioni della condotta precoci, un sottogruppo di soggetti con caratteristiche temperamentali, affettive, cognitive, interpersonali e familiari distinte. Questi tratti sono costituiti da un pattern persistente di comportamento che riflette un’indifferenza nei confronti degli altri, un’affettività superficiale, la carenza di capacità empatiche, la mancanza di sentimenti di colpa o di rimorso, una tendenza a sfruttare gli altri per il proprio tornaconto, una mancata assunzione di responsabilità per le conseguenze delle proprie azioni, capacità relazionali deficitarie, un utilizzo strumentale dell’aggressività.

In età evolutiva, dunque, l’antisocialità si configura come distribuita lungo due assi, a seconda del tipo di aggressività manifestata: un asse impulsivo, in cui l’aggressività è soprattutto reattiva (l’antisocialità vera e propria, responsabile dei reati più frequenti) per cui l’azione antisociale può sottendere impulsività e incapacità di regolare la risposta esplosiva (discontrollo emozionale e, quindi, comportamentale); un asse più freddo e insensibile, in cui l’aggressività è di tipo sadico-predatorio (la psicopatia, responsabile dei reati più gravi), in cui le condotte sono maggiormente riferibili a compromissioni nei processi di socializzazione e emozionali, con deficit nell’empatia e nelle emozioni prosociali. Alcuni autori collocano antisocialità e psicopatia lungo un continuum, considerando quest’ultima come una declinazione più grave, altri le considerano come due distinguibili configurazioni.

In termini di developmental pathways emergono, quindi, due principali configurazioni di bambini e adolescenti con condotte aggressive e violente, che si potrebbero caratterizzare, in modo schematico ma rappresentativo, in termini di temperatura psichica e/o di pieno e vuoto. Abbiamo, così, una polarità “calda”, che segnala un fallimento nello sviluppo di una adeguata regolazione emozionale, che conduce ad azioni aggressive o altre condotte antisociali impulsive in momenti di intenso arousal emozionale (un “troppo pieno” emotivo. Tale disregolazione interferisce con la capacità del bambino di prendere in considerazione le conseguenze dei propri comportamenti (quasi una nube emozionale che offusca la mente) e non permette di apprendere dall’esperienza.

I bambini e adolescenti con il pathway “caldo” o “impulsivo” del disturbo della condotta mostrano un eccesso di sensibilità ambientale (fearful-type) e reattività (over-reactivity) rispetto a stimoli di natura neutra o ambigua che vengono interpretati in modo erroneo (mislabeling) come minacciosi, ostili o pericolosi; in genere non vi è premeditazione nelle loro azioni, con acting-out associati a bassa capacità di tollerare la frustrazione, scarsa capacità di regolare le risposte emotive e comportamentali a stimoli emotivi, aumento dell’eccitazione fisica e dei livelli di arousal, deficit delle funzioni inibitorie. Da questi aspetti, il risultato sul piano emotivo e comportamentale è una reazione di perdita di controllo, in cui il mondo interno “esplode” in azioni e comportamenti di difficile gestione. Questi bambini si sentono disturbati, “provocati” e colpiscono reagendo, spesso perché c’è qualcosa per loro di ingiusto (in tal senso anche il loro frequente vissuto di essere vittima dell’altro). In termini generali, si può configurare come un sottogruppo che mostra un temperamento caratterizzato da elevata reattività emozionale, inadeguate esperienze di socializzazione e una elaborazione simbolica deficitaria, caratteristiche che conducono al fallimento nello sviluppo delle abilità necessarie a regolare adeguatamente la risposta emotiva e comportamentale ed alla messa in atto di azioni antisociali dettate da aggressività impulsiva, per le quali questi bambini o adolescenti possono provare una certa quota di ansia e, in seguito, di rimorso ma, nonostante questo, presentare ancora difficoltà a non reiterare, non riuscendo ad apprendere dall’esperienza. Dalle ricerche sull’eziopatogenesi, queste condotte sembrano meno influenzate da fattori genetici e maggiormente da fattori ambientali, quali uno stile di parenting ostile e/o coercitivo) o una relazione con gli oggetti primari deficitaria e non contenitiva[6].

Abbiamo poi una polarità “fredda”, che coinvolge un fallimento nello sviluppo di adeguati livelli di empatia, colpa e altri aspetti della coscienza (vuoto) che portano a una forma grave di aggressività di natura pianificata e strumentale.

Il costrutto della regolazione degli affetti ed emozionale,[7] sebbene maggiormente utilizzato nelle ipotesi esplicative della polarità impulsiva dei disturbi della condotta, con la sua continua ricerca di etero-regolazione[8] attraverso l’agito e l’esternalizzazione, ci appare rilevante e non prescindibile anche per il pattern psicopatico in cui appare un eccesso di auto-regolazione fino alla calcificazione o congelamento delle emozioni (ed anche dei loro correlati fisiologici), vanificando l’apporto intersoggettivo dell’altro da sé (per cui, si potrebbe dire, l’inter-soggettività diviene inter-oggettività).

Di tutt’altra natura appare il gruppo di bambini e adolescenti con tratti psicopatici, caratterizzati più da aspetti di carenza o assenza, sia nel sentire (callousness come insensibilità e rigidità) sia nelle risposte fisiologiche ed emozionali (unemotional). L’esito fenomenologico è configurabile sia in termini di minore comportamento prosociale che della controparte di maggiore comportamento antisociale, sebbene quest’ultimo aspetto non sia scontato potendo la psicopatia, anche in età evolutiva, non coesistere con condotte apertamente devianti e rimanere sommersa dietro apparenze socialmente adattate, senza configurarsi in psicopatologie della condotta. Quando esitano in quadri antisociali[9], questi bambini e adolescenti mostrano un pattern di comportamento patologico più stabile e aggressivo, associato a un aumentato rischio di delinquenza a esordio precoce, azioni antisociali di più elevata gravità, mantenimento del disturbo della condotta lungo la traiettoria di sviluppo verso l’età adulta e scarsa risposta al trattamento, suggerendo l’esistenza di una specifica eziologia per questo gruppo di soggetti. Sebbene il comportamento psicopatico sottenda un’aggressività strumentale e proattiva (il “quite-bite attack”; Panksepp, 1998), bambini e adolescenti con alti tratti CU possono in determinate circostanze esprimersi anche in forme aggressive reattive.

Evidenze indicano un maggior peso delle influenze genetiche in questa forma di comportamento antisociale che potrebbero in parte spiegare la emergenza precoce e la loro relativa stabilità nel corso dello sviluppo. Esistono però forme di psicopatia secondaria a traumi precoci o esperienze ambientali negative nelle quali attraverso processi autotomici della mente[10]ci si libera degli aspetti affettivi dolenti, non indispensabili alla sopravvivenza, in una prospettiva di adattamento; tratti di questo genere possono essere frequentemente riscontrati in bambini traumatizzati o in  adolescenti adottati, soprattutto se gravemente e precocemente maltrattati[11].

I tratti CU sono evidenziabili e misurabili già a partire dai 4 anni di età. Da recenti evidenze empiriche, sulla scia delle emergenti conoscenze sulle differenze individuali nelle capacità empatiche e nella coscienza dei primi anni di vita, è stata ipotizzata l’esistenza di precursori ancora più precoci già a 2-3 anni di vita, configurabili, più come “condotte CU” (correlate a minori livelli di colpa ed empatia e a forme di aggressività proattiva) che come tratti, dato il momento di sviluppo. Lo studio e la ricerca empirica sui precursori nelle primissime epoche di vita, sebbene ancora ad uno stato embrionale, si mostra promettente nel suo potenziale contributo per interventi che, se predisposti in momenti evolutivi precoci, possono aumentarne le potenzialità di efficacia.

Numerose evidenze indicano alterazioni nelle modalità di processing delle emozioni e degli stimoli esterni che potrebbero spiegare anche i fallimenti rilevati dei rinforzi negativi nel processo di trattamento. Questi bambini e adolescenti reagiscono a mala pena all’ambiente esterno e presentando anomalie in senso difettivo nelle risposte fisiologiche a stimoli di diversa natura e nelle risposte emozionali (fearless type) con una ridotta reattività autonoma quando guardano immagini di persone in difficoltà e una compromissione nel riconoscimento delle espressioni facciali della paura e della tristezza ed anche di altre emozioni espresse con diversi canali comunicativi. L’ipo-reattività è stata confermata da ripetute evidenze sperimentali, che indicano anomalie in senso difettivo nei principali indicatori fisiologici e neurobiologici (frequenza cardiaca, sistema HPA e cortisolo, circuiti connessi all’amigdala e alla corteccia prefrontale). La tendenziale impermeabilità all’altro da sé è ben rappresentata dalla loro relativa insensibilità ai segnali di disagio negli altri e alla punizione, oltre che da un’esaltazione dell’aggressività come più accettabile mezzo per raggiungere obiettivi, sottolineandone gli aspetti positivi e remunerativi, e di aspetti di dominanza e vendetta nella risoluzione di conflittualità sociali. In termini di capacità empatica, emergono difficoltà con entrambi i principali elementi di tale costrutto individuati da Baron-Cohen (2011)[12], con deficit sia nel riconoscimento, come capacità di assumere un punto di vista duplice (double-minded) per comprendere gli stati cognitivi ed emotivi dell’altro (empatia cognitiva), che nella risposta ai pensieri e alle emozioni altrui con un’emozione coerente (empatia affettiva).

Queste persone sembrano appartenere a un mondo emozionale pre-socializzato (Meloy, 2001), in cui la dimensione intersoggettiva delle relazioni umane scompare e, se presente, viene ridotta a mezzo per finalità personali ed in tal senso deumanizzata. Emerge una connessione con la dimensione narcisistica che, come da molti condiviso, sembra configurarsi come il nucleo funzionale e affettivo della psicopatia[13]. Già Freud, nel suo scritto Introduzione al narcisismo (1914), allude a un legame tra narcisismo e criminalità attraverso il concetto di meccanismi di proiezione, con i quali il criminale, al pari del narcisista, attuerebbe un tentativo di salvaguardare la propria identità. Il maggiore contributo in questo senso rimane tuttavia quello di Otto F. Kernberg[14] che inserisce il comportamento antisociale e psicopatico tra le patologie del narcisismo, di cui costituirebbero una variante primitiva. Kernberg delinea un continuum di comportamenti antisociali e psicopatici che, a partire dalle condotte antisociali come parte di una nevrosi sintomatica (ad es. ribellione adolescenziale), giunge, ai suoi estremi di gravità, a quadri di narcisismo maligno fino al disturbo antisociale e psicopatico di personalità. Le persone antisociali e psicopatiche sono incapaci di stabilire relazioni oggettuali e appaiono privi di qualità etiche, configurando la forma più grave e meno trattabile dell’organizzazione di personalità borderline “bassa”, caratterizzata da fragilità dell’identità del sé, relazioni oggettuali interiorizzate patologiche e meccanismi di difesa primitivi.

È stato quindi ipotizzato, alla base delle psicopatologie psicopatiche, un deficit emotivo di base, il cui nucleo sarebbe costituito da durezza, insensibilità e assenza di empatia. Il risultato è una sorta di deumanizzazione, con un annullamento degli aspetti vitali sia propri (ben rappresentati dalla “freddezza” fisiologica ed emozionale) che dell’altro. Nonostante ciò, le azioni aggressive e antisociali mantengono, anche nelle forme più estreme, un carattere necessariamente relazionale: l’anti-sociale si basa per sua stessa natura sulla premessa di un riconoscimento di un sociale, che si assume come presupposto per poi differenziarsene con condotte, ma anche assetti affettivi e interpersonali, che si pongono al di fuori e in antitesi ad esso, con una sua rottura o distruzione.

Questo avviene anche nelle manifestazioni più estreme di aggressività predatoria e nell’esaltazione della dominanza dello psicopatico che sottendono, comunque, una proposta di contatto e avvicinamento all’altro, pur in forma distruttiva e di rottura della relazione. Un paradosso, dunque, di entrare in relazione distruggendo la relazione, ma mantenendone anche un costitutivo aspetto di dipendenza. Il predatore, infatti, necessita di una preda per esistere, come il dominante di un dominato. Alcuni autori (Glasser 1986; Music, 2016)[15] hanno proposto questo aspetto riferendosi alla nozione di “core complex”, che descrive uno stato della mente in cui la persona non può né avvicinarsi né separarsi dall’oggetto, rintracciabile in molti pazienti con tratti aggressivi, in particolare in quelli con aspetti sadici e perversi; la soluzione per tentare di uscire dal paradosso relazionale è trovata dal soggetto nell’azione distruttiva o sadica che, attraverso l’agito predatorio e la presa di potere sull’oggetto, riesce a far coesistere la distanza (distruzione) e la vicinanza dall’altro divenuto, in tal modo, “controllabile”. In relazione alle tematiche della trasgressione, della mancanza di limite e rifiuto dei confini tra sé e l’altro, alcuni autori mettono in relazione alcune forme di azione violenta con la perversione.[16]

Il tema della dipendenza appare un altro aspetto cardine nelle concettualizzazioni psicoanalitiche della psicopatia. Nancy McWilliams (2011)[17] identifica il nucleo centrale della psicopatia nella dominanza ostile, come tendenza a dominare e manipolare l’altro e rifiuto di essere sottomessi e dipendere. Questo rifiuto si configura come una reazione a profondi vissuti di dipendenza e un tentativo di affrontare l’ancestrale angoscia che ne deriva, negandone forzatamente l’esistenza. Tuttavia: “Un’indipendenza autentica poggia sulla capacità di dipendere da altre persone, e di permettere ad altre persone di dipendere da noi. Dunque, più che di una polarità dipendenza-indipendenza sarebbe meglio parlare di dipendenze sane e dipendenze patologiche, definendo patologiche le forme «non negoziabili» di dipendenza o le pretese, eccessive e illusorie, d’indipendenza. Da una ricerca disperata dell’altro, visto come regolatore unico degli stati del Sé, a una fuga atterrita dall’altro, visto invece come minaccia alla propria integrità” (Lingiardi, 2005)[18].


[1] Dalla prefazione di Stanley  Ruszczynsky a: Jessika Yakeley(2010) “Lavorare con la violenza: Un approccio  psicoanalitico contemporaneo” Giovanni Fioriti Editore.

[2] Egli si comporta male perché ha un disturbo della condotta, ha un disturbo della condotta perché si comporta male.

[3] Tale distinzione era già presente nel DSM III (1980) persa poi nel DSM IV.

[4] Si stima che circa il 20-30% della letteratura scientifica disponibile sulla violenza e la psicopatia sia stata pubblicata sino agli anni ’90 del secolo scorso. Durante questi decenni, la ricerca era limitata e concentrata su teorie più tradizionali. Negli ultimi tre decenni, circa il 70-80% della letteratura attuale è stata pubblicata. Questo aumento è dovuto a diversi fattori: la crescente attenzione su temi di giustizia penale e salute mentale; l’emergere di nuove tecnologie di ricerca e metodologia; un maggiore interesse interdisciplinare.

[5] Il primo ritratto clinico sistematico della psicopatia è stato fornito dallo psichiatra americano Hervey M. Cleckley che pubblicò nel 1941 The Mask of Sanity. L’autore rifiuta l’implicito riduzionismo dello psicopatico alla figura del “criminale”, rilevandone piuttosto l’aspetto più sottile ed anche più pericoloso nella capacità di “mimetizzarsi” dietro una facciata di “normalità”, oltre la quale si celano assenza di sentimenti di colpa, di empatia e lealtà, egocentrismo e tendenza alla manipolazione, incapacità di apprendere dall’esperienza e di provare amore oggettuale, visibili solo se attentamente osservate in diversi contesti. Non tutte le persone con caratteristiche psicopatiche intraprendono carriere criminali e, anzi, di frequente appaiono adattate alla società e vengono considerate “al di sopra di ogni sospetto” (si pensi ai White Collar; Hare, 2003; Neumann, Hare & Newman, 2007; Lishner et al., 2012).

Negli anni novanta, Robert Hare, recependo le descrizioni delineate da Cleckley, ha realizzato e successivamente revisionato la Psychopaty Chechlist Revised (PCL-R) (Cooke, Michie, Hart & Hare, 1999), uno strumento di misura valido ed affidabile per identificare le caratteristiche, sviluppando nel 2003 (Forth, Kosson & Hare, 2003) una versione della stessa scala per l’età evolutiva (PCL-Youth Version) (Sabatello, Abbate & Spissu, 2013).  Dagli studi fattoriali di Hare (1991, 2003) emerge una struttura multidimensionale della psicopatia, comprensiva di diversi domini concettualmente distinguibili ma tra loro correlati. Un primo dominio interpersonale consiste in tratti di grandiosità-manipolatività (anche detto narcisismo) ed è caratterizzato da abilità verbali e manipolative, charme superficiale, egocentrismo ed abilità oratorie. Il secondo dominio, affettivo, consiste in tratti callous-unemotional (CU) e si caratterizza per mancanza di empatia e rimorso, con emozioni di breve durata. Il terzo dominio, comportamentale, consiste in tratti di audacia/impulsività che includono irresponsabilità, tendenza alla noia e alla ricerca di sensazioni, e condotte antisociali. La psicopatia è un disturbo stabile nel tempo, poco sensibile al trattamento, con elevato rischio di recidiva.

[6] Stiamo parlando della funzione di “schermo” e metabolizzazione degli elementi emozionali che Winnicott attribuisce alla madre (Winnicott D.W (1963). La paura del crollo In Esplorazioni psicoanalitiche. Raffaello Cortina Editore Milano, 1995.) ma che appartengono alle funzioni di base della genitorialità.

[7] Bion, W.R. (1962). Learning from experience. Lanham, Mariland: Rowman & Littlefield (tr. it. Apprendere dall’esperienza. Armando, Roma, 1972).

Winnicott, D.W. (1971). Playing and reality. London: Tavistock Publication Ltd (tr. it. Gioco e realtà, Armando, Roma).

Fonagy, P., & Target, M. (2001). Attaccamento e funzione riflessiva. Milano: Raffaello Cortina.

Trevarthen, C. (2001). Intrinsic motives for companionship in understanding: Their origin, development, and significance for infant mental health. Infant Mental health journal22(1‐2), 95-131.

[8] Donald W. Winnicott. Il bambino deprivato : le origini della tendenza antisociale. Cortina, 1986

[9] La prevalenza di soggetti con significativi tratti CU all’interno delle diagnosi di disturbi della condotta è stimata tra il 12 e il 46% (Rowe et al., 2010; Kahn et al., 2012).

[10] A. Imbasciati (1994) Fondamenti psicoanalitici della psicologia clinica. UTET Università.

[11] Quanto scrive Imbasciati ci sembra il medesimo meccanismo che costituisce una delle pietre miliari della teoria bioniana sulla mente (W.R.Bion (1962, The psycho-analitic study of thinking), in cui le emozioni che invadono la mente sono insopportabili e il terrore è tale che non è permesso provare sentimenti anche a costo di cancellare tutto ciò che è vivente, per la propria sopravvivenza. Alcuni casi di cronaca di adolescenti omicidi supportano, clinicamente, una simile lettura.

Cfr. anche T.H. Ogden (2015): “La paura del crollo e la vita non vissuta” Rivista di Psicoanalisi, LXI, 1.

Non abbiamo qui lo spazio per addentrarci nell’interazione epigenetica tra Natura e Cultura.

[12] Baron-Cohen, S. (2011). The science of evil: On empathy and the origins of cruelty. New York, NY: Basic books (tr. it. La scienza del male: l’empatia e le origini della crudeltà, Raffaello Cortina, Milano, 2012).

[13] Kernberg, O.F. (1998). Pathological narcissism and narcissistic personality disorder: Theoretical background and diagnostic classification. In: E.F., Ronningstam (Ed.), Disorders of narcissism: Diagnostic, clinical, and empirical implications (pp. 29-51). Arlington, VA: American Psychiatric Association.

Meloy, J.R. (2001). The mark of Cain. Hillsdale, NJ: The Analytic Press.

Hare, R.D. (2003). The Psychopathy Checklist—Revised, 2nd ed. Toronto: Multi-Health Systems.

[14] Kernberg, O.F. (1992). Aggression in Personality Disorders and Perversions. New Haven, Connecticut: Yale University Press (tr. it. Aggressività, disturbi di personalità e perversioni, Milano, Cortina, 1993).

Kernberg, O.F. (1998). Pathological narcissism and narcissistic personality disorder: Theoretical background and diagnostic classification. In: E.F., Ronningstam (Ed.), Disorders of narcissism: Diagnostic, clinical, and empirical implications (pp. 29-51). Arlington, VA: American Psychiatric Association.

[15] Glasser, M. (1986). Identification as observed in the perversions. The International journal of psycho-analysis67, Music, G. (2016). Angels and devils: sadism and violence in children. Journal of Child Psychotherapy42(3), 302-317.

[16] Otto Kernberg (1992) individua un particolare stile relazionale nel narcisismo maligno e nelle forme più gravi di psicopatologia, che definisce “perversità”. Rispetto alla perversione, questa qualità della relazione oggettuale presenta un maggiore grado di perversione, che va oltre la dimensione sessuale, e riflette l’asservimento, conscio o inconscio, di amore, dipendenza e sessualità all’aggressività. Stanley Cohen (1992) si riferisce alla perversione come ad una forma di maltrattamento (mis-use) messo in atto allo scopo di evitare la responsabilità dei propri conflitti interiori che vengono posti fuori da sé, nella vittima, che viene deumanizzata e degradata al livello di oggetto parziale; lo scopo del maltrattante è raggiungere il controllo dell’altro negandone separatezza e autonomia; tuttavia, ne risulta una dipendenza e un’impossibilità di separarsi del perverso stesso dalla propria vittima. Racamier (1992) descrive le perversioni come “forme di dipendenza patologica, come organizzazioni difensive stabili che sono molto resistenti al cambiamento a causa del loro ruolo nella difesa dalla distruttività e nella preservazione del bisogno oggettuale” (pp. 281-282), sostenendo che lo scopo primario dell’azione perversa sia calpestare la verità e di manipolare cose e persone ai propri fini, in primis per difendersi dalla propria sofferenza ed evitare ogni forma di conflitto interiore.

[17] McWilliams, N. (2011). Psychoanalytic diagnosis: Understanding personality structure in the clinical process. New York, NY: Guilford Press (tr.it. La diagnosi psicoanalitica, Astrolabio, Roma, 2012).

[18] Lingiardi, V. (2005). Personalità dipendente e dipendenza relazionale. In: V. Caretti & D. La Barbera (Eds.), Le dipendenze patologiche (pp. 71-111). Milano: Raffaello Cortina.

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