Robert Smithson, 1970
Parole Chiave: “nuove patologie”; ascolto psicoanalitico; regredienza; raffigurabilità; contemporaneità
Abstract Considerazioni sulla sfida teorico/clinica delle “nuove patologie” alla luce di riflessioni antropologiche, culturali e sociali, con riferimento al pensiero di alcuni Autori
Nella terra sconosciuta delle nuove patologie
Fabio Castriota
In un articolo del 1984, Eugenio Gaddini scrive: “Se è vero, come oggi crediamo, che l’individuo non è il risultato automatico della sua combinazione genetica, ma è invece il risultato del suo sviluppo, vale a dire della sua interazione con l’ambiente in cui nasce e cresce, dobbiamo ammettere che la psicopatologia individuale cambia, così come cambia l’individuo umano, a seconda dell’ambiente socio culturale in cui si forma […] La patologia che emerge come conseguenza di situazioni esterne eccezionali non è mai nuova e imprevedibile, di norma si tratta di sindromi che erano diventate oggetto di crescente interesse per gli psicoanalisti nel periodo precedente a tali situazioni, ma che, per effetto delle situazioni scatenanti, si manifestano in tutta la loro evidenza […] Se tutto questo fosse, come sembra, vero, dovremmo concludere che è come se stessimo navigando, nostro malgrado e con velocità crescente, verso il bordo di una cascata” (1984, p. 654).
Queste parole ci interrogano sulla nostra capacità umana di confrontarci in primis con la complessità con cui sempre più velocemente si articola la vita attuale e con le ricadute anche psicopatologiche che interessano non solo i giovani, ma ciascuno di noi. Alcuni studi di neuroscienziati e antropologi ci fanno riflettere (a proposito della “velocità crescente” cui allude Gaddini) sul limite delle nostre capacità mentali a gestire un cambiamento forse troppo rapido. Quello che osserviamo nei nostri studi è il presentarsi di quadri psicopatologici diversi da quelli del passato, sui quali si era interrogata la teoria psicoanalitica, strutturando la pratica clinica. Diversi sono i fattori che pensiamo siano intervenuti a orientare lo sviluppo cognitivo ed emotivo dell’uomo postmoderno: rapidi cambiamenti che hanno comportato lo sviluppo di sofferenze psichiche che attualmente vengono definite come “nuove patologie”.
Circa la dimensione temporale quello che si è affermato è un nuovo modo di concettualizzare e vivere il tempo alla luce del concetto di “istantaneità”. Questa toglie al presente il senso della sua profondità perché vengono esclusi la tradizione del passato e la progettualità del futuro. La finalità del vivere, in un mondo “istantaneo”, sembra legata paradossalmente allo sbarazzarsi del tempo stesso. L’individuo finisce per vivere in uno stato di emergenza, nella sensazione di essere in debito di tempo: “la sindrome della fretta”, così antitetica alla temporalità lenta e progressiva di un profondo percorso psicoanalitico. Il tempo finisce così per essere strutturato in istanti eterni, eventi chiusi, ma senza rapporti. Pensiamo al mondo on-line: un presentismo che esclude il futuro. La deformazione della stessa idea di spazialità legata alla simultaneità postmoderna, ci porta a vivere una realtà deformata dove siamo sempre connessi, ma nello stesso tempo isolati mentre la relazione con gli altri, uno degli aspetti fondanti il nostro lavoro, si struttura secondo un’apparente situazione di contatto senza alcuna vicinanza fisica. Le stesse informazioni, tramite l’utilizzo della rete, sono organizzate inoltre secondo modalità lontane dalla comunicazione lineare, sequenziale e lenta, favorendone una parcellizzata in tanti frammenti.
Nella realtà globalizzata il confronto, talvolta difficile, con l’Altro, viene sostituito da quella che è stata definita “positività dell’Uguale”. Nel mondo dell’Uguale è assente ogni controparte dialettica che lo delimiterebbe dandogli forma, l’individuo finisce per accumulare amici e follower senza mai incontrare realmente l’Altro. Senza il confronto con l’Altro, il rapporto con la Realtà stessa viene alterato al punto di perderne la comprensione, Heidegger direbbe che siamo “nell’oblio dell’essere”. Il filosofo Byung- Chul Han ha scritto (2016, pag.12): “La rete si trasforma oggi in un particolare spazio di risonanza, dal quale è eliminata ogni alterità e ogni estraneità […] nella vicinanza è inscritta la lontananza quale sua controparte dialettica e l’abolizione della lontananza non genera maggiore vicinanza bensì la distrugge. Nella globalizzazione è insita una violenza che rende tutto interscambiabile e comparabile e questo conduce alla fine a uno svuotamento di senso”.
Possiamo ipotizzare che queste macro dimensioni stiano influenzando in vario modo non solo la vita concreta, ma anche le configurazioni di personalità; dopo avere osservato nel passato una prevalente struttura dominante superegoica, talvolta persecutoria, assistiamo oggi all’affermarsi di un Ideale dell’Io fondamentalmente narcisistico: questo comporta, insieme alle variazioni antropologiche/culturali appena accennate, una difficoltà ad avvicinarsi al nostro modello terapeutico, che prevede non solo una particolare temporalità, ma anche la capacità di accettare ferite narcisistiche e di accedere ad una terapia basata sul rapporto di reciproca fiducia e sull’investimento su relazioni oggettuali stabili, che attivano un certo livello di dipendenza. Una realtà psichica che difficilmente può accettare un setting e un modello di terapia che si discosta così profondamente da certi parametri della postmodernità.
Diversi autori si sono interessati a questi cambiamenti, come Bollas che ha recentemente scritto: “I primi anni di questo secolo stanno richiedendo una soluzione inconscia al disorientamento avvertito dalle ultime vestigia del Sé umanistico e l’era dell’informatica ha offerto nuovi modi di pensare, di essere e di porsi in relazione, capaci di creare una frattura con i millenni precedenti” (2018, p. 31).
Rispetto ai quadri di queste “nuove patologie” ci troviamo spesso di fronte a formazioni sintomatiche non chiaramente definite, proprio perché la comunicazione è resa difficile da uno scarso contatto diretto. I pazienti portano uno stato di malessere legato spesso a fragili dinamiche identitarie e, anche se la vita può apparire normale, è nell’area degli affetti e della sessualità che emergono i problemi. L’appropriazione stessa dell’esperienza soggettiva è carente, per cui l’Io perde la capacità di rappresentare e trasformare la realtà, chiudendosi in un mondo narcisistico. Con questi pazienti è difficile immaginare di poter costruire una relazione terapeutica e mettere in moto lo stesso processo analitico, utilizzando le regole di un setting consolidato basato sulle libere associazioni e l’attenzione liberamente fluttuante: si tratta di un processo fantasmatico negativo che mette in scacco l’analisi perché tutti i parametri e gli accorgimenti teorico clinici e tecnici che conosciamo sono come destrutturati.
Green (2004) ha scritto che in queste situazioni l’analista ha la sensazione che quanto ha imparato sia inutile, non trovando tracce di quanto gli è stato insegnato, mentre si trova esposto a meccanismi di difesa e a resistenze di cui non ha esperienza, portando avanti il suo lavoro in una “terra sconosciuta”. In questi casi la stessa interpretazione è resa difficile perché il paziente, per la scarsa dimensione soggettuale, ha difficoltà ad associare, pensare e sognare, per cui il vissuto dell’analista è segnato da un senso d’ impotenza che può portarlo ad ancorarsi ancora di più a quanto sente di più conosciuto nella sua esperienza teorico clinica. Si tratta di confrontarsi con uno stato di indifferenziato, vicino al concetto di “blank” di Green, in cui l’analista è ingaggiato faticosamente in un lavoro continuo di regressione e costruzione.
In questa situazione è quasi impossibile, inoltre, che si strutturi una nevrosi di transfert e l’analista finisce per farsi carico della responsabilità di un’interpretazione che, nel pensiero della Aulagnier (1975), rischia di porsi come una riedizione della “violenza primaria”. L’analista quindi deve fare riferimento alla sua esperienza analitica e al lavoro auto analitico sul proprio inconscio, disposto comunque a lasciar cadere le proprie certezze per raggiungere l’altro nella sua particolare dimensione. Per farlo deve riuscire a lasciarsi attraversare in parte da uno stato talvolta di disorganizzazione quasi allucinatoria, sostando in una condizione ibrida tra la veglia e il sogno per riuscire ad accedere a tutti i rappresentanti negati, alle endopercezioni forcluse e a tutti quei pensieri che il paziente non ha potuto pensare. Potrà comunicare solo attraverso una silenziosa interpretazione in quanto il paziente deve essere protetto da quanto potrebbe vivere come una ferita per i propri limiti, mentre il suo assetto interno è l’unica possibilità per una risposta creativa là dove è bloccata quell’attività naturale dell’apparato psichico verso la raffigurazione, la rappresentazione e i processi di simbolizzazione. Non possiamo d’altronde dimenticare che in questi casi lo stato di non integrazione è contemporaneamente una difesa in una condizione di non-esistenza funzionale, ma anche il tentativo di mantenere una situazione al riparo dalla separazione. Per sopravvivere e controllare l’invasività di un eccesso di presenza o di assenza dell’oggetto il paziente non può non mettere in atto un attacco al legame e l’evitamento del pensiero. Potremmo dire che in questi casi la stessa guarigione può collegarsi ad un’angoscia di annullamento, a meno che l’analista non riesca a sopravvivere utilizzando i suoi convincimenti simbolici ma anche affettivi.
Tra i diversi contributi su questo tema ricordiamo anche il concetto di “unisono”, formulato da Bion come capacità negativa dell’analista che lo porta a sintonizzarsi con gli aspetti emotivi del paziente più inconsci. Si tratta di una situazione emotiva, un vivente legame d’amore, che contiene sempre momenti dialettici di tensione vitale. Quello che si deve attivare è il funzionamento inconscio delle menti nell’attualità della seduta: la verità dell’unisono che viene prima del contenuto relativo alla ricostruzione del passato. La verità che emerge da questa “danza della relazione” promuove la creazione di senso perché “per fare una mente occorre un’altra mente”. Per Fedida, d’altronde, essere analisti è poter essere costantemente scissi, espulsi dalla propria identità e per Pontalis l’analista deve lasciarsi catturare, portare via, fino al non vedere più ciò che è intorno a sé, fino a non essere più rinchiuso in ciò che si crede di essere, fino a sentire solo le “voci che vengono dall’entroterra” e infine per Winnicott l’analista per lavorare deve essere pur sempre capace di regredire ad uno stato di non integrazione.
Non possiamo dimenticare anche il pensiero dei Botella (2004) che parlano di “regredienza” per descrivere la regressione, in questi casi, del pensiero dell’analista in seduta, capace di creare le condizioni affinché il lavoro di raffigurabilità consenta di vedere e comprendere il vissuto di un tempo non rappresentabile, fuori e prima del linguaggio. La regredienza non è però solo uno stato psichico, ma anche un movimento in divenire, un potenziale di trasformazione, mentre la raffigurabilità rinvia all’iconico e per mezzo della regredienza, si collega alla “memoria senza ricordi” della preistoria individuale, a ciò che è prima del linguaggio e si sottrae alla storia e alla narrazione. Sul versante clinico i Botella parlano di “lavoro in doppio”: lo stato psichico al limite dell’attenzione fluttuante, dove “l’orecchio dell’analista vede” e la sensorialità domina sul contenuto. La raffigurabilità che ne deriva porterà ad una interpretazione capace di creare un senso dove non c’era che disorganizzazione. Per finire ricorderei il pensiero di Di Benedetto secondo il quale: “Il vero scoglio non è “capire”, ma far risuonare in noi le parole dell’altro, nel mentre ascoltiamo noi stessi per dare senso, il nostro personale, genuino senso vissuto a quei messaggi. Più l’analista adopera questa recettività interiore, più il paziente riesce a sentire profondamente, dentro sè stesso, riecheggiare questo lavoro formativo dell’analista […] I fenomeni di rêverie, di empatia, di controtransfert e di identificazione proiettiva si realizzino all’interno di una simile gnosi arcaica, in cui la formazione e la comunicazione degli affetti avviene senza figurazioni di sorta e precede l’invenzione simbolica di tipo figurativo-metaforico. Gnosi arcaica fondata su funzioni di ascolto, non tanto legate a una percezione uditiva, quanto ad una capacità della mente di assecondare la recettività di tutto il corpo come luogo della non-parola, per accedere al quale occorre sviluppare un’attenzione più pertinente a un tipo di conoscenza sensoriale e motoria” (1991, p. 321).
Bibliografia
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