
Lucio Fontana
Parole chiave: Lavoro della verità – Transfert – Conoscenza – Memoria – Cenere
Veritatem facere
Lavoro della verità
M. Stanzione Modàfferi
“La verità resiste in quanto tale se non la si tormenta”
La morte della Pizia, Friedrich Dürrenmatt
Abstract La verità psicoanalitica non è assoluta ma relativa al soggetto e alla sua storia e il suo obiettivo è lo svelamento del desiderio. Il “lavoro della verità”, come l’analisi, è un compito lungo e faticoso, continuo e incompiuto.
La ricerca della verità nella pratica psicoanalitica non riguarderà mai una verità assoluta, piuttosto una verità del soggetto e della relazione che intratteniamo con lui, di un contesto e di una storia specifica.
Togliere la maschera al desiderio che si nasconde nei sogni, nei sintomi e nei ricordi di copertura equivale allora a svelare la specifica verità del desiderio[1].
L’ascolto analitico è teso a comprendere le trasformazioni della storia – narrata dal paziente che dà voce al bambino che è stato – attuate in nome del principio di piacere, cioè del desiderio del soggetto. Oggetto della psicoanalisi sarà lo svelamento del desiderio nascosto dietro tutta la produttività della vita psichica.
“Quel pane ha un sapore veramente squisito …”[2], così conclude Freud un suo ricordo di copertura, ricordi le cui intensità e sensorialità hanno le qualità di una verità menzognera propria della rimozione e attraverso un lavoro di verità è possibile ricostruirne la verità storica e le deformazioni dovute al desiderio sessuale che vi si nasconde.
La psicoanalisi è un’esperienza di verità sotto transfert, si tratta di contrastare il non voglio saperne niente e di scongelare la parola rispetto al silenzio o la menzogna, ristabilendone il rapporto con la verità. Nel sintomo e nelle immagini del sogno, si manifesta una parola che porta con sé una verità nascosta, velata perché tocca il reale, che può essere letta tra le righe e che J. A. Miller definisce “varietà” cioè diverse, plurali, cangianti in relazione al “riconoscimento della realtà”.
Se la ricerca, la conoscenza e il lavoro della verità[3] identificano i compiti del lavoro psichico, cosa intendeva Freud per verità? Egli chiarisce che “la relazione analitica è fondata sull’amore della verità, ovverossia sul riconoscimento della realtà”.[4] Pertanto, la verità è il “ […] modo di disporsi aderente alla realtà sia essa materiale, psicologica, psichica o storica, tenendole distinte e apprezzandone le diversità pur essendo tutte, tra loro, intrecciate.”[5]
I concetti di verità e realtà, nelle loro valenze irrisolte e i loro intrecci, sono di grande rilevanza per la psicoanalisi e per la filosofia. Mentre la prima ha il suo focus nel rapporto tra la realtà interna (psichica) e la realtà esterna, per la filosofia il quesito riguarda la natura stessa della realtà, con risposte che spaziano dal realismo al relativismo, dall’idealismo al narrativismo.
Il problema della verità pone la domanda sul significato stesso che a tale parola viene attribuito. Cosa s’intende per verità? Nello spazio concesso in questa sede, mi soffermerò maggiormente sugli aspetti psicoanalitici con qualche pennellata filosofica senza cimentarmi in una trattazione sistematica.
Un’indagine preliminare sul significato di verità mi porta ad Agostino: Ecco, tu ami la verità, perché chi fa la verità viene alla luce. Io la farò nel mio cuore davanti a te in questa confessione: e anche su queste pagine però, davanti a molti testimoni [6].
Che cosa intendeva il pensatore di Tagaste per fare verità, oltretutto non a vantaggio di Dio che tutto sa, ma della propria coscienza e di molti testimoni e soprattutto per iscritto (dunque attraverso il linguaggio)?[7]
Farei ricorso alla nozione di aleturgia nell’utilizzo di Michel Foucault[8] nei suoi studi e interrogativi sul parlar-franco, sulla parrēsia come modalità del dire-il-vero:
[…] “mi è sembrato egualmente interessante analizzare, nelle sue condizioni e nelle sue forme, il tipo d’atto attraverso il quale il soggetto, dicendo la verità, si manifesta, e con questo intendo dire: si rappresenta a se stesso ed è riconosciuto dagli altri come un soggetto che dice la verità. Non si tratterebbe assolutamente di analizzare quali siano le forme del discorso ritenuto vero. Si tratterebbe invece di analizzare in quale forma, nel suo atto del dire-il-vero, l’individuo si costituisce egli stesso – ed è costituito dagli altri – come soggetto che pronuncia un discorso di verità: in quale forma colui che dice il vero si presenta ai propri occhi e agli occhi degli altri … In contrapposizione con l’analisi delle strutture epistemologiche, potremmo denominare quest’ambito lo studio delle forme aleturgiche. … Etimologicamente, l’aleturgia sarebbe la produzione della verità: l’atto attraverso il quale la verità si manifesta”.
La domanda centrale ruota intorno alla funzione del “dire-il-vero” ( parresia) ovvero il coraggio di dire la verità, di dire ciò che si pensa e al ruolo che la verità riveste nell’ambito della politica e dei rapporti di potere. Tutto ciò apre la strada all’analisi del rapporto tra il soggetto e la verità che Foucault analizza, all’interno di diverse pratiche (l’esame di coscienza o la confessione), forme culturali e periodi storici (per i greci dire il vero su se stessi era l’asse centrale del principio socratico del conosci te stesso).
La pratica del dire-il-vero su se stessi si poggia sulla presenza di un altro: l’altro che ascolta, che intima di parlare, che parla lui stesso. Perché io possa dire il vero su me stesso è necessaria la presenza e lo statuto dell’altro (Agostino: Io la farò nel mio cuore davanti a te).
Etimologicamente la parresia è l’attività del dire tutto: pan rema (Parresiazesthai significa “dire tutto”). Il parresiastes è colui che dice tutto.
L’invito freudiano, mi dica tutto quello che le viene in mente,[9] comprende solo il significato positivo della parola parresia che consiste nel dire tutto senza dissimulazioni, riserve, clausole, ornamenti, senza maschere, veli e senza nascondere nulla. Nel termine è compreso anche un significatopeggiorativo che implica dire tutto anche ciò che può servire all’interesse di chi parla senza vincoli di verità. Il parresiasta firma la verità che egli stesso enuncia. Essa è nel dire e, poiché si manifesta come prassi discorsiva, il discorso ne è la dimora (Agostino: … su queste pagine …).
Esprimendo la propria verità, pensiero o credenza ci si assume un rischio che riguarda anche la relazione con l’interlocutore che può essere ferito, andare in collera, indotto a sentimenti o comportamenti anche aggressivi. Il coraggio della verità implica anche il rischio di minare o rompere la relazione con l’altro che ha reso possibile il suo stesso discorso.
Aristotele, nell’Etica Nicomachea, parla del legame tra la parresia e il coraggio, di una sorta di patto tra colui che si assume il rischio di dire la verità e colui che accetta di sentirla e di accogliere come vera la verità da lui sentita.
Veritatem facere: fare verità significa fabbricare qualcosa, dunque il momento del fare veritativo, definito aleturgia, implica il compimento di atti. Quando, in analisi, “facciamo la verità” ci occupiamo del particolare e cioè di quell’uomo, inserito nella sua storia e nel suo contesto storico-sociale. Tuttavia i fattori di produzione del processo veritativo si situano tra ontologia ed epistemologia. E’ possibile che dall’ontologia emerga il sapere, ἐπιστήμη?
Si tratta di una realtà oggettiva e immutabile o di un costrutto che affiora attraverso processi di pensiero e di azione per cui “fare la verità” diventa un atto che coinvolge la mente e il corpo?
Il metodo, μέθοδος, inteso come via ripetibile, può essere concepito come verità e rappresenta un fare attraverso il quale l’uomo vuole giungere alla verità. Il metodo è legato alla ripetibilità di un processo che conduce a un sapere. Ma non è forse un equivoco sovrapporre una teoria della verità con una teoria della scienza? Eccoci davanti alla sfida per chi ritiene che il concetto di verità sia monopolio di una sola disciplina e di un solo indirizzo del sapere.
A che scopo facciamo verità? Qual è il τέλος della verità? Per Agostino e Hegel la verità ha in sé una spinta propulsiva verso il futuro. “L’umano deve cessare di essere in-baculum, privo di bastone, deve afferrarlo e intraprendere il buon cammino” (nota 7, Ferraris p.127) dove si evidenzia il legame tra il concetto di progresso e la spinta futurizzante.
Poiché ogni pensiero umano è legato alla nostra condizione di finitudine dando significato alla vita e alla verità, questa non può essere pensata al di fuori dell’orizzonte umano. Nell’era della “post-verità” e del suo legame con la morte e l’intelligenza artificiale, quest’ultima non sarà mai in grado di “morire” e, quindi, di comprendere la verità nella sua dimensione più profonda.
Veritatem facere rimanda a un lavoro, un lavoro psichico e allora stiamo parlando di psicoanalisi, dal momento che l’intera psicoanalisi può essere considerata un’ergonomia del lavoro psichico[10], la “scienza” del lavoro psichico ed è un lavoro lungo e faticoso, il costoso lavoro di incorporazione della verità accanto al lavoro del simbolo.
Ma qual è il carburante del moto psichico? Nella Traumdeutung Freud afferma che “… nulla all’infuori di un desiderio può mettere in moto il nostro apparato psichico” e circa duemila anni prima Aristotele, nella Peri Psuches, “… nulla può mettere in moto la psiche se non il desiderio …”[11]. Ma il desiderio è in relazione con la censura, l’oblio inteso come forma intenzionale di dimenticanza, in pratica la rimozione (leturgia), e allora l’unico scopo della cura sarà quello dello smascheramento del desiderio per svelarne la specifica verità.
La verità è una condizione necessaria per la conoscenza. Tutta l’attività conoscitiva umana, filosofica, psicoanalitica, scientifica si confronta con quello che possiamo considerare il nodo per antonomasia, vale a dire proprio l’enigma della verità.
In filosofia, ci sono diverse teorie fondamentali della verità, ciascuna con i suoi punti di forza e le sue criticità. La teoria corrispondentista per la quale una proposizione è vera se corrisponde ai fatti o alla realtà. In sostanza, la verità è legata a quanto una dichiarazione riflette il mondo. La teoria coerentista si concentra sull’idea che una proposizione è vera se è coerente con un sistema di altre idee, credenze, teorie già accettate come vere. Esistono inoltre la teoria pragmatica, la verità come consenso, la teoria performativa, ecc.
In psicoanalisi, la verità ha il suo focus sull’inconscio e sulla psiche profonda.Una parte significativa della verità di un individuo, e dunque della realtà emotiva, è nascosta nell’inconscio e la coscienza non è in grado di accedervi direttamente poiché essa riguarda pensieri, desideri, ricordi e traumi rimossi ma che continuano a determinare il nostro comportamento. Il lavoro terapeutico (veritatem facere) consiste nel portare alla coscienza questi contenuti inconsci, rendendo accessibili verità che l’individuo non è in grado di riconoscere o tollerare opponendovi un lavoro di difesa (Abwehr) e resistenza. Heidegger traduce la parola greca alètheia con “svelamento” (Unverborgenheit), che noi traduciamo con verità. Non c’è un’unica “verità” assoluta, definitiva o statica da raggiungere, ma molteplici strati che emergono lentamente durante il trattamento e attraverso il transfert.
Vediamo che la verità come corrispondenze tra enunciati e fatti, pedinata dai positivisti, in psicoanalisi non ha senso perché potremmo affermare che i fatti non esistono avendo essi uno status ontologico ed epistemologico dubbio, per cui “la verità diventa corrispondenza tra enunciati e rappresentazioni di fatti, col risultato che l’universo si svuota di oggetti indipendenti dall’attività epistemica.”[12] D’altra parte gli enunciati o sono “eccessivamente deboli o eccessivamente forti”.
Pertanto, rispetto alla verità scientifica, lo specifico apporto freudiano al sapere può, a buon diritto, rivendicare autonomia di oggetto e di metodo. Anche per Freud la verità abita una concordanza tra enunciati e realtà, solo che in gioco vi sono due realtà, quella esterna e quella interna, di eguale spessore “entrambe frutto d’inferenze che la coscienza, solitario mediatore, trae da una percezione doppiamente orientata verso il fuori e il dentro”[13].
Ma circa l’importanza del mondo interno ai fini della verità Napolitano[14] mostra come lo scioglimento dell’enigma della Sfinge da parte di Edipo non sia una impresa conoscitiva e che Edipo non sarebbe affatto l’eroe della conoscenza!
Io farò piena luce afferma con arroganza nella prima scena e quest’arroganza gli impedisce di guardare l’oscurità. La hybris, che dà inizio alla tragedia è il punto di avvio del lavoro della verità. In lui non c’è nessuna vocazione a interrogarsi sul misterioso nesso tra risposta e domanda, nessuna possibilità di interpretare la voce oracolare. Ma calato “con la cecità il buio sulla scena del mondo esterno, estremo rifugio per chi non può e non vuole guardare il mondo interno, ora è quest’ultimo a farsi strada …”.[15] L’auto-accecamento simbolizza il gran prezzo che deve pagare l’azione veritativa. Edipo accecandosi acquista la luce della conoscenza interiore così ponendosi nella stessa condizione di Tiresia, il profeta che vede con la mente ma non con gli occhi (Agostino: chi fa la verità viene alla luce).
La premessa di un autentico percorso di conoscenza di sé e di evitamento delle derive di un sapere-verità implica il saper sostare nella domanda, come propone Fachinelli in Che cosa chiede Edipo alla Sfinge?[16] La psicoanalisi della risposta rischierebbe di entrare nelle fortezze del sapere e, piuttosto che essere trasmessa alle generazioni future, di essere dimenticata. L’ascolto analitico deve invece saper percepire il negativo, l’irregolare, l’aritmico e abitare il vuoto, il frammento, la cancellazione, l’impotenza del linguaggio. Una lama di luce che si allarga solo per mostrare il limite della conoscenza, dove il pensiero fa esperienza dei propri confini affacciandosi sull’oscuro, il segreto, l’impensato; deve saper evitare la fascinazione delle risposte abbaglianti per sostare nel paese dell’ombra, della ricerca e della verità.
Bisogna accecarsi per vederci meglio, questo propone la mistica (μύω, onde μυστικός, significa “chiudere gli occhi“) e Freud in una lettera a Lou Andrèas-Salomè: … “ci dobbiamo accecare artificialmente fino a intravedere una fiaccola di luce nell’oscurità”.
C’è ancora posto per questo tipo di conoscenza nel mondo attuale attanagliato da un eccesso di trasparenza e d’ipervisibilità; c’è ancora posto per far luce sui resti della ragione, per l’etica della cenere?[17] Perché anche dai resti, dalla cenere parte l’interrogazione sulla verità. Ciò che resta del fuoco là vi è la cenere[18].
Questa fraseapre una frattura nel pensiero, apre all’interpretazione, a un angolo del pensiero che abitualmente non frequentiamo, che implica i lati oscuri, le parti mancanti.
La cenere è qualcosa che vediamo, che tocchiamo ma che è il rimando a qualcosa che è stato, già accaduto, già scomparso, già superato, eppure é lì: la cenere è simbolo e oggetto al tempo stesso.
“E quanto alla parola cenere”, dice Moroncini,“mi piace immaginare che essa stessa sia davvero una cenere, nel senso di qualcosa che fu. Lontanissima dal passato, memoria perduta per tutto ciò che non appartiene più al qui. Di conseguenza … la cenere non è più qui. Ma è mai stata qui?”[19]
Cenere, fuoco e, aggiungo, verità, diventano categorie fisiche e temporali. La cenere è memoria del fuoco che c’è stato. In un continuo gioco di rimandi s’ inizia un viaggio in cerca di qualcosa che c’è stato e che non conosciamo.
La magia di ciò che resta del fuoco è proprio questo viaggio il cui senso è già contenuto in esso, guidato dalla passione del non-sapere piuttosto che da quella del segreto.
“Cenere è il nome della verità, di quel che resta della verità, del fatto che la verità è sempre nulla più di un resto … Che cos’è la verità se non il fuoco che brucia, ciò che lascia il marchio, l’olocausto impossibile di cui attraverso il resto della cenere facciamo costantemente il lutto? … Che cos’è cenere se non il nome della sopravvivenza di una verità morta, bruciata, differita, mai stata presente. E tuttavia sempre pronta a riaccendersi … un resto che non resta, che si disperde; un resto vulnerabile”.[20]
Ed è questo ritrovamento e interpretazione della cenere che istituisce un compito etico, quello della testimonianza (Agostino: io la farò nel mio cuore … davanti a molti testimoni). Dopo la morte di qualcuno, dopo un evento catastrofico, dopo gli eventi della nostra vita, dolorosi, traumatici, rimossi, dopo tutto ciò che trasforma la Storia e le singole storie questo compito ci convoca, a vari livelli, alla ricostruzione e testimonianza della verità, certo compito continuo e incompiuto come incompiuti sono i discorsi sulla cenere.
[1] Aletheia: lo stato del non essere nascosto, svelamento, verità.
[2] Freud, S., 1899, Ricordi di copertura, OSF 2, 442-443.
[3] Aleturgia, etimologicamente produzione di verità.
[4] Freud, S., 1937, Analisi terminabile e interminabile, OSF 11, 531.
[5] Campanile, P., Verità storica: un nome alla cosa, in Psiche 2/2017, 433.
[6]Agostino, Le Confessioni, libro X : Ecce enim veritatem dilexisti, quoniam qui facit eam, venit ad lucem. Volo eam facere in corde meo coram te in confessione, in stilo autem meo coram multis testibus.
[7] Cfr. il testo di Ferraris M., Agostino. Fare la verità, Il Mulino, Bologna, 2022.
[8] Nel 1984 Michel Foucault, a pochi mesi dalla morte, tiene l’ultimo corso al Collège de France, raccolto poi con il titolo Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri, 2011-2014, Feltrinelli, Milano.
[9] Freud S., 1913-14, L’inizio del trattamento, in Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi, OSF VII.
[10] Cfr. Napolitano F., Ergonomia freudiana, in Psiche 2/2017, 377-404.
[11] Cfr. Napolitano F., Il desiderio come principio universale della psicoanalisi, in Il desiderio e il suo oggetto, Quaderni Centro Napoletano di Psicoanalisi, 2016, Angeli, 95-106.
[12] Napolitano F., Verità, in Vizzardelli S. e Cimatti F. (a cura di), Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi. Quodlibet, 2012.
[13] ibidem
[14] Napolitano F., Knowingness, in Sete.Appunti di filosofia e psicoanalisi sulla passione di conoscere, Quodlibet, 2006.
[15] ibidem
[16] Fachinelli F., 2010, Il bambino dalle uova d’oro, Adelphi.
[17] E’ un’ espressione di Derrida ripresa da B. Moroncini, alla commemorazione di Derrida a Napoli in Moroncini B., L’etica della cenere, Schibboleth, 2015.
[18] Frase che chiude Dissémination di Jacques Derrida.
[19] Moroncini, 2015.
[20] ibidem