La Cura

Lavorare intorno al bianco. La clinica contemporanea. A. Giuffrida

12/04/22
Lavorare intorno al bianco. La clinica contemporanea. A. Giuffrida

ANISH KAPOOR, 1992-1998

Parolechiave: Blank a-rappresentativo, Livelli di simbolizzazione plurima, Ruolo dell’allucinatorio positivo e negativo,Io osservante, Follia dell’analista

Abstract: Le “nuove patologie “ interrogano l’analista e mettono alla prova sia la sua identità di curante, che le teorie che sottendono la sua pratica. Il “blank” , per Green, insieme di bianco e vuoto della rappresentazione, sembra un territorio non esplorabile e poco aggredibile analiticamente. Come recuperare allora un’attività figurativa, di raccolta di immagini, di legami nuovi o  di nessi (ri)visitati? A quale tecnica o sapere fare appello? L’autore formula alcune ipotesi al fine di poter lavorare “intorno” al bianco, confidando anche sui livelli plurimi di simbolizzazione e la tendenza naturale verso la terzieità dell’apparato psichico. 

Lavorare intorno al bianco. La clinica contemporanea

Molte teorie psicoanalitiche attuali attribuiscono la mancanza di risorse psichiche che si manifestano nella psicopatologia all’ impossibilità di rappresentare, a livello inconscio, la propria vita fantasmatica. L’individuo diviene così preda del  vuoto e del bianco mentale.

La prima questione che sorge rispetto all’individuazione di questi spazi bianchi della rappresentazione si ricollega al fatto che potrebbe trattarsi di una aumentata capacità teorico-clinica degli addetti ai lavori nel cogliere fenomeni già esistenti del passato, che sono rimasti a lungo silenti. Oppure potrebbe trattarsi di  nuove patologie, dovute alle trasformazioni sociali e culturali.

Se pensiamo ai pazienti di Freud, in particolare all’”Uomo dei lupi” o alle isteriche degli “Studi sull’isteria”, non possiamo non considerarli molto affini agli analizzandi che oggi definiremmo  soggetti al limite o addirittura psicotici. Però con una differenza sostanziale: e cioè, che i pazienti di Freud sognavano, laddove oggi il racconto di un sogno durante l’ analisi è spesso una conquista, dopo anni di cura. Così come l’accesso all’attività della libera associazione.

I “nuovi disagi della civiltà” vengono attribuiti dalla letteratura contemporanea ad una “mutazione antropologica”, la quale si manifesta, nel registro  dello psichico, attraverso una trasmissione transgenerazionale ed esponenziale del disinvestimento dell’attività rappresentativa. Ne deriva il caos identitario e la stereotipia dei processi ideativi e simbolici.

In altri termini, il fenomeno del “Falso Sé” (Winnicott, 1965) si incarna nell’adozione di forme di personalità prefabbricate da indossare come vestiti dalla taglia unica apparentemente adattate, che sono accompagnate però, di sovente, da affezioni psicosomatiche o da dipendenze comportamentali (tossicomania, bulimia, sessualità coatta, abuso di mezzi telematici, ecc.).

Queste “nuove malattie dell’anima” (Kristeva, 1998) che possono essere silenti per gran parte della vita divengono dinanzi ad un trauma o una frustrazione eccessiva delle vere e proprie implosioni che l’Io non è in grado di fronteggiare.

Green, aprendo così un vastissimo campo di indagine e di sfida alla psicoanalisi, afferma che il modello del sogno nelle patologie attuali cede il passo al modello dell’atto e della scarica bruta. Laddove la rappresentazione inconscia, che domina il quadro della nevrosi, diviene solo uno dei destini possibili della pulsione. In questo scenario il lavoro del lutto, che prepara alle identificazioni e alla relazione d’oggetto, può solo essere negato o evacuato attraverso l’agire.

Così vediamo vite vissute nella apparente “normalità”, spesso anche brillanti, in cui solo qualche problema al livello del registro    sentimentale e sessuale svela e occulta al tempo stesso dinamiche identitarie traballanti.

Vite “normotiche”, che interrogano l’analista sul senso delle richieste di analisi, nelle quali spesso si palesa, in un tempo successivo, uno stato minaccioso di attesa, simile ad alcuni eventi naturali, in cui la calma, la stasi annunciano le peggiori catastrofi.

Dove il clima di collaborazione e di alleanza terapeutica, improvvisamente può mutare, come se i flussi affettivi e di pensiero si arrestassero e si instaurasse un’ideazione e un comportamento maniacale, molto più inaccessibile al trattamento.

Ogni volta che l’analista avverte un senso di impotenza, accompagnato da angoscia e disinvestimento, un ancoraggio eccessivo verso modelli e teorie conosciuti, o quando sperimenta uno stato di rapimento vago, indefinibile, scomodo da vivere, possiamo pensare che la relazione si stia incamminando verso il terreno del  “blank” (Green, 1983), insieme bianco e vuoto di rappresentazione. Ci imbattiamo con il paziente e attraverso il paziente nel nucleo dell’indifferenziato, centratura sorgiva traumatica dell’esperienza di dolore.

Come recuperare allora un’attività figurativa, di raccolta di immagini, di legami nuovi o  di nessi (ri)visitati? Quando l’individuo vive immerso nella situazione traumatica che rimane sempre attuale; nel momento in cui il  “reale” “ingoia”, parassitandola, la dimensione  transferale? O quando la forza dell’Es, senza o con  fragilizzzate mediazioni egoiche, si riversa in pseudo contenitori composti da stereotipi omologanti del tessuto sociale, che determinano fittiziamente la sua soggettività?

Quale transfert allora, o quali transfert? Che cosa si trasferisce? E l’analista chi è, o diviene? A quale tecnica o sapere fare appello? Che  cosa può “inventarsi” l’analista per coltivare parvenze di vita, di libido, di eros, tra tanta pulsione di morte? Uso qui il termine freudiano proprio nel senso del lavoro del negativo in eccesso, di funzione di “slegamento” dell’attività psichica. Laddove “…il nero sinistro della depressione…non è che un prodotto secondario, una conseguenza piuttosto che una causa di un’angoscia bianca, che traduce la perdita subita al livello del narcisismo: …bianco è dunque l’invisibile…o, in generale, l’impercettibile e, al limite, l’impensabile, l’inconcepibile.” (Green, 1980a). Bianco, spesso,  legato, in qualche maniera, alla presenza di una  “madre morta”, che, in seguito ad un’ impossibile elaborazione luttuosa,  ha investito  il proprio “infans” con un eccesso, ripetuto nel tempo, di allucinazione negativa, assegnandogli, quindi il compito di agire coattivamente la cancellazione di sé, divenuta l’unica modalità del suo stare al mondo. L’ oggetto trasmette al bambino, sin dall’inizio della vita, l’odio verso il pensiero, passibile di  veicolare solo sofferenza.

Come farsi carico, vivendolo, dello stesso vuoto mentale che invade il paziente, incorporandolo, lavorandolo per quanto è possibile? Come tollerare questa dimensione, senza perdersi?

Viene attaccata la stessa identità analitica, quando il “blank” diventa un  universo indistruttibile e quando il vuoto, creato attivamente dal soggetto, possiede la funzione di difenderlo dal “vero “vuoto dell’impensabile “agonia primitiva” vissuta quando l’individuo non era lì per sentirla (Winncott, 1963).

I nessi, dice Green, tra rappresentazioni e affetti, tra eventi della propria storia, per questi pazienti, non sono nascosti, ma sono esperiti come baratri.

Tuttavia può comunque confortarci, anche in questi casi, la consapevolezza relativa al fatto che la migrazione dei sentimenti (libidici e distruttivi) dall’oggetto originario verso l’analista, è e resta  un ausilio potente della cura. Perché ogni soggetto “sceglie”, per addentrarsi in una relazione significativa, un oggetto il più possibile simile all’oggetto originario, visto che è proprio l’oggetto della propria storia, della propria vita, l’oggetto traumatico, che il soggetto vuole e non vuole trasformare contemporaneamente.

L’oggetto cheresiste alla distruzione, sopravvivendo, crea le condizioni favorevoli allo svolgimento della vita stessa del soggetto, consentendogli l’accesso al principio di realtà. L’oggetto analista sopravvive sia astenendosi dalle ritorsioni, sia recuperando, quando può, quando è necessario, la funzione analizzante.

Certo è indubbio che le teorie aiutino nel controbilanciare ciò che i Baranger (1988) chiamano, con una suggestiva espressione, il “trauma puro”, invasione energetica senza rappresentazione. Essi ci invitano ad essere grati agli oggetti perché ci permettono di storicizzare il trauma, di creare delle colpe, dei fantasmi intelligibili, delle dinamiche, dei conflitti, di costruire infine una trama cui legare il “terrore senza nome” e renderlo vivibile.  

Ma un recupero della secondarietà prematuro, a volte anche attraverso un’interpretazione brillante, non tiene conto del fatto che occorre una latenza in cui il vissuto di coppia, per quanto penoso, debba dispiegarsi.

All’analista è richiesto un particolare e impegnativo funzionamento affettivo e mentale, fatto di dissolvimenti e recuperi del registro secondario, “morsa” paradossale dove il capire e il non-capire devono intrecciarsi. Paradosso che si traduce quindi nella necessità di comunicare e non comunicare, di interpretare e non interpretare, di “riuscire mentre si fallisce” (Winnicott, 1965), di curare e di non curare, di distanziamento e di avvicinamento  contemporanei.

“l’Io sennò si perde nella confusione con l’oggetto e non vede altra risorsa se non reagire con la distruttività. E’ disposto ad autodistruggersi pur di distruggere l’oggetto invasivo”, ci avverte Green (1991). E ancora che :” In quel momento è forse importante non capire troppo ciò che viene comunicato. Il paziente deve sentirsi indecifrabile, protetto dal muro del linguaggio e delle prestazioni che esso è in grado di realizzare”.

Lasciarsi attraversare allora dai vissuti relazionali è un’operazione fondamentale, da attualizzare ancor prima di recuperare una teoria che  arrechi sollievo.

Dinanzi a questi analizzandi è doveroso talvolta abbandonare ogni furia terapeutica, aspettando che qualche cosa accada (Winnicott).                  

Oscillazioni della mente e del sentire in cui si alternano stati affettivi diversi, pensieri après-coup e vissuti deformati dalla necessaria identificazione proiettiva. Oscillazioni continue tra livelli asimmetrici e livelli simmetrici in cui predomina la inaffidabile percezione del perturbante. Questo argomento introduce il tema della follia (del bambino, della madre, dell’analista).

La follia viene contrapposta da Green (1980b) alla psicosi come sbocco in cui Eros afferma la sua forza. Ma allorché si parla di follia si attraversa un campo minato per l’analista: e’ la terra, come abbiamo visto, della regressione, dell’indifferenziato, delle aree simmetriche di funzionamento. Dell’”amour fou”, ossia della condivisione cieca di madre e bambino dell’idea di essere un oggetto unico e non rimpiazzabile. Passione e destino di questa passione. E soprattutto capacità materna (e dell’analista) nel trasformare la meta della pulsione bruta, circolante nella coppia e di renderla eroticamente tenera, o teneramente erotica. Di iscrivere nella carne i fantasmi di seduzione, “lavorandoli”, trasformando l’eccitazione in affetti.       

Ma è anche la dimensione del sogno, dell’immaginazione, della reverie, dell’allucinatorio che, come sappiamo da Freud, si ricollega per vie dirette alla verità storica.

La “follia” dell’analista, il suo “delirio razionalizzato”, il coraggio di riconoscere gli affetti che lo attraversano, lo preparano a subire il peso estenuante del transfert del paziente e suo. Egli deve disporsi, dinanzi all’”apatia” relazionale e mentale dell’analizzando a “… lasciar libero il campo agli affetti nei loro aspetti meno comuni e meno ragionevoli, più contraddittori e più complessi” (Green, 1991). Questo assetto interno dell’analista può rappresentare la risposta creativa, a quelle situazioni in cui predomina la disperazione, per tentare di recuperare quei “significanti della carne” (Green, 1991) e dell’azione alla consistenza della teoria e della pratica: valore strutturale dell’edipo e ruolo fecondo della triangolazione. 

Questo significa che l’analista lavora, aiutato dagli esiti della sua analisi e dalla sua autoanalisi, ma che deve essere disposto a “perdersi di vista”, perdere di vista le proprie certezze e sicurezze e raggiungere l’altro là dove si trova, senza però mai annegare nei sentimenti controtransferali. L’”altro” deve emergere nel campo, al di là delle forze autarchiche e delle tensioni narcisistiche che si oppongono al suo ingresso. E potrà farlo con più evidenza nei varchi aperti dalla discontinuità di ritmi, di agiti di parole, di latenze legate alle pause dell’analisi, legate alle mancanze, agli stati di disorganizzazione dovuti agli eccessi di affetti. Potrà farlo anche attraverso i “fallimenti” dell’analista, (Winnicott, 1971). Posizione paradossale  ma, senza dubbio  fruttuosa: lavoro fine del controtransfert che si intreccia con l’autoanalisi dove i sentimenti vengono a costituire una sonda per entrare nella carne “viva dell’altro”. 

L’analista prepara il luogo del transfert il luogo del gioco potenziale. Usando le parole come carezze o come sferzate, come suoni puri, come ritmi. Un dispiegamento di tatto e di contatto: processo in cui le parole divengono a volte tocco leggero, quasi impercettibile. In un’atmosfera che annulla il tempo, sovrappone, senza cesure ciò che è avvenuto a ciò che avviene. Introducendo quando si può dosaggi “omeopatici” di variazioni sul tema: parole che tengono, alternate a parole che penetrano. Confidando nella poliedricità della mente umana, dei livelli di simbolizzazione plurima, presenti anche negli stati di maggior regressione. (Baranés, 2016).

L’analista dovrà allora tessere una trama, forse comunicabile solo attraverso un’interpretazione silenziosa, nel rispetto della clandestinità (Gaddini) che protegge l’analizzando da ciò che può essere esperito come una effrazione ai propri limiti.

Lavoriamo intorno al bianco della rappresentazione per tentare di cogliere scene, raffigurazioni in movimento, dinamiche impalpabili, intrecci velati e silenti. Il “buco” a-rappresentativo va infatti “esplorato” nella sua poliedricità: potrebbe essere “rammendato” come ci suggerisce la metafora freudiana (1923): costruzione-delirio dell’analista impregnato dal nucleo di verità storica; così come potrebbe essere aggirato, lavorato nei “pressi”; e potrebbe rivelarsi quando il bianco, dileguandosi parzialmente, lascia intravedere un ordito, seppur incerto, confuso.

L’idea di considerare che dietro tanta stasi rappresentativa e relazionale si cela comunque un processo, una dinamica, generatrice clandestina di movimenti, induce nella mente dell’analista a sua volta flussi immaginativi, forze attrattive verso virtuali agglomerati del rappresentabile. Questa dinamica diviene  paradossalmente l’alleata della cura.

Così come lo sono alcuni assunti teorici  che tornano utili al modo di osservare il campo stesso della cura.

Il primo riguarda il fatto che l’attività dell’apparato psichico tende “naturalmente” verso la raffigurazione, la rappresentazione e la simbolizzazione, tende verso l’organizzazione della  struttura edipica e della terzietà. Se ne deduce che il  mantenimento del “blank” antievolutivo  richieda  un cospicuo, necessario lavoro di investimenti, controinvestimenti e disinvestimenti. E’ dinanzi al trauma che la mente umana produce una rappresentazione paradosso del vuoto, legata alla produzione in eccesso di allucinazione negativa, ovvero di rappresentazione della non rappresentazione (Green, 1993).

Questa definizione greeniana lega quindi l’allucinazione negativa alla potenzialità rappresentativa o a ciò che è passibile di diventarlo. Allucinazione negativa che è un meccanismo fisiologico e organizzatore, una struttura inquadrante, pre-condizione della rappresentazione. E che solo in condizioni avverse diviene, come già detto, un meccanismo patologico. L’apparato psichico dunque possiede una proprietà fisiologica basilare che è quella di cancellare e conservare allo stesso tempo l’esperienza.

 Rimangono delle tracce in giacenza, passibili di essere investite a seconda dei percorsi relazionali del soggetto. Percorsi in cui un incontro inaspettato, quale può essere un’analisi, rientra.      

Il  secondo assunto, consequenziale al primo, riguarda il fatto che in ogni individuo si combinano livelli di simbolizzazione plurima. Il punto di vista economico risulta essenziale per determinare i modi della rappresentazione, delle sue forme, ibride o contaminate. Coesistono nella psiche di ognuno simbolizzazioni primarie insieme a sviluppi più evoluti di pensiero. Esistono quindi zone “cancellate” ricoperte di bianco insieme a processi mentali funzionali.  Si pensi al concetto di “Io osservante” di Freud.

Uno dei compiti dell’analisi quindi consisterebbe nell’occuparsi proprio dei processi in “fieri”, degli stati intermedi, ibridi, contaminati, di “sangue misto”, sottostanti alle formazioni fantasmatiche o protofantasmatiche. La nostra attenzione dovrebbe essere catturata dalle disomogeneità rappresentative, dalle raffigurazioni possibili dalle forme eterogenee di simbolizzazione. Dagli aspetti di questa complessa combinatoria, non inscrivibile nella legge del tutto o niente, deriva la possibilità di recuperare, nonostante l’”incompiutezza” che caratterizza ogni atto psichico, quei nessi perduti tra l’irrappresentabile e la struttura edipica.

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