La Cura

La specificità della cura psicoanalitica. R. Musella

30/09/21
Il lettino di Freud

Il lettino di Freud

Roberto Musella

La specificità della cura psicoanalitica

“Come cura la psicoanalisi” è una domanda che continuiamo a porci, pur ipotizzando che considerati alcuni fattori, essa curi in una maniera specifica, qualitativamente e quantitativamente diversa da qualsiasi altra terapia del disagio psichico.

Per quanto l’apparato affetto dalla sofferenza sia di natura diversa, la richiesta di cura del disagio psichico non differisce molto dalla richiesta di cure mediche. I pazienti, al pari di quello che avviene per le malattie del soma, ci contattano perché soffrono e chiedono di stare meglio. In quanto clinici, facciamo le nostre considerazioni su quella sofferenza: considerazioni figlie di esperienza clinica, di studio teorico, di riflessioni collegiali. Tali considerazioni portano taluni analisti a privilegiare alcuni aspetti della psicoanalisi e altri a privilegiarne altri. Le differenze tra noi possono essere anche marcate ma ciò non ci deve portare ad evitare di riflettere sulla specificità della cura psicoanalitica, nascondendoci dietro un relativismo inconcludente.

Gli elementi in gioco sono molteplici ma la validità della psicoanalisi, almeno per quanto mi riguarda, è tale, per una serie di indicazioni terapeutiche, da farla preferire ampiamente ad altre forme di trattamento della sofferenza psichica.

La cura psicoanalitica si propone come una terapia eziologica della psicopatologia. Non ci poniamo come obiettivo immediato di curare i sintomi o di risolvere i problemi esistenziali immediati dei nostri pazienti, la guarigione “sintomatica” sarà un riflesso “un sovrappiù” di questo processo terapeutico e non l’obbiettivo verso cui indirizzare i nostri sforzi. I sintomi, gli agiti, le ripetizioni invece di apparire nemici dichiarati da distruggere diventeranno fedeli alleati dell’analisi, da ascoltare con una cura tecnica peculiare, figlia di una teoria specifica sottostante. La psicoanalisi mira alla trasformazione profonda dell’equilibrio psicosomatico del soggetto, non alla cura dei suoi sintomi. Obbiettivo dell’analisi è consentire al processo psicoanalitico, che mira a tale trasformazione, di svolgersi nonostante le difficoltà che ogni singola analisi comporterà.

Per quanto la cura dei sintomi sarà quindi un effetto, una ricaduta di tale processo e non la mira dello stesso, dobbiamo riconoscere che se un paziente viene in analisi con una nevrosi sintomatica e se ne va dall’analisi con gli stessi sintomi è evidente che l’analisi ha fallito.

Concludo questa premessa affermando quindi che la psicoanalisi è una cura certamente particolare, diversa da tutte le altre, ma fondamentalmente è una cura. La domanda che ci poniamo è, dunque: “come cura?”.

Mi soffermerò su tre di molti punti, che potrebbero costituire paragrafi di una trattazione più estesa, o spunti da cui partire per ulteriori contributi da pubblicare in questa sezione del sito, che ritengo possano considerarsi invarianti intorno cui ogni psicoanalista, pur provenendo da background teorici diversi, dovrebbe concordare.

1. Lo spazio della cura: Il setting

Le caratteristiche precipue dell’organizzazione del trattamento, che regolano la modalità degli incontri, la disposizione e l’assetto della cura sono figlie del metodo e sono necessarie per produrre il processo psicoanalitico.

Il setting psicoanalitico è costituito da uno spazio circoscritto e regolato che mira a prendersi cura dell’altro nel miglior modo possibile. Si tratta di un luogo dedicato totalmente a tale scopo. Isolamento sensoriale, posizione distesa, analista alle spalle, frequenza elevata, costituiscono le premesse necessarie per avviare il processo analitico. A tali premesse si aggiunge tutto il bagaglio tecnico della psicoanalisi, che va dalle associazioni libere, all’attenzione liberamente fluttuante, alle interpretazioni, all’analisi dei sogni, al working through, al lavoro del lutto ecc…

Dopo avere definito i limiti dello spazio analitico, i giorni, gli orari, le vacanze, l’analista lavora duramente per preservare questo spazio nella sua forma ottimale. Si fa trovare sempre puntuale allo studio, evita che ci siano sovrapposizioni di pazienti e qualsiasi altra interferenza esterna. Una malattia non grave non è motivo di assenza dell’analista. Solo eventi straordinari e assai rari possono togliere al paziente, che viene tempestivamente avvisato, lo spazio/tempo che gli appartiene. Per prendersi adeguatamente cura dell’altro, l’analista mette il proprio apparato psichico al servizio dell’analizzando. L’intero funzionamento psichico conscio e inconscio dell’analista è chiamato a rispondere a questo compito. Egli mette da parte le proprie esigenze immediate, il mondo esterno viene tenuto fuori più o meno come avviene in una sala operatoria. Le porte chiuse, il telefono spento. Questo spazio psicofisico dedicato, assoluto e intoccabile, è altamente funzionale alla cura. Lo è direttamente perché consente al paziente di essere accolto, contenuto ed ascoltato attraverso la presenza stabile e competente dell’analista, e lo è più specificamente a diversi livelli perché:

  • Si presta ad essere idealizzato.
  • Favorisce i fenomeni di transfert e la cosiddetta nevrosi di transfert.
  • Produce regressione del funzionamento psichico e regressione alla dipendenza.
  • Facilita la dialettica intrapsichica tra l’inconscio e il preconscio/conscio, ponendo l’analizzando in uno stato di alterazione della coscienza che alcuni studiosi paragonano al sogno.

Lo stato di coscienza, intermedio tra il sogno e la veglia, che si produce in analisi è del tutto peculiare, assolutamente diverso dalla coscienza vigile ordinaria, ed è funzionale al lavoro psicoanalitico. Non bisogna dimenticare che il metodo psicoanalitico discende storicamente dall’ipnosi. Conserva dell’ipnosi una quota di alterazione dello stato di coscienza senza però indurne la sua assenza, producendo un equilibrio peculiare tra il pensiero onirico e la presa di coscienza, che consente alla psicoanalisi di essere intimamente trasformativa.

La stretta relazione esistente tra il dispositivo della cura, la parziale sospensione dell’esame di realtà e la trasformazione onirica dei residui diurni del lavoro analitico rende la psicoanalisi un metodo di cura unico. Il setting consente al funzionamento inconscio del paziente di manifestarsi nella cura, con la mediazione del preconscio, e ne promuove la sua elaborazione. All’interno della stanza d’analisi, si rivelano le propaggini del funzionamento inconscio del paziente, che in relazione al rapporto affettivo che stabilisce con la rappresentazione dell’analista[1], definiamo transfert. Sarà necessario riprodurre il disagio nel laboratorio analitico, la cosiddetta nevrosi di transfert, per poter efficacemente trasformare l’equilibrio tra le rappresentazioni e gli affetti causa di sofferenza psichica.

Il laboratorio dell’analisi così concepito sarà funzionale ad esplorare e trasformare i rapporti di forze tra le istanze psichiche inconsce e quelle preconsce/consce. Il lettino, la posizione distesa, le libere associazioni, il dire tutto e non fare niente, l’analisi dei sogni ecc. sono strumenti indispensabili per accedere all’inconscio e per avviare una trasformazione delle forze endopsichiche e psicosomatiche riprodotte nel campo analitico.

2. Esperienza dell’inconscio e trasformazione

Il secondo punto non può che essere centrale nell’ambito di un discorso sulla cura psicoanalitica. La psicoanalisi è la scienza dell’inconscio! L’emersione e il riconoscimento dei processi psichici inconsci è il primo e necessario obiettivo della psicoanalisi, cui deve seguire una trasformazione dell’equilibrio psicodinamico tra il funzionamento preconscio/conscio del soggetto e il suo inconscio. Non si può parlare di psicoanalisi se ciò non avviene.

L’esperienza dell’inconscio è la chiave d’accesso al percorso psicoanalitico. Per Freud era da sola sufficiente ad indottrinare i futuri analisti che si rivolgevano a lui per apprendere la tecnica psicoanalitica. È necessario sperimentare il dominio che l’inconscio ha su di noi per capire quanto siamo soggetti a sintomi, agiti, ripetizioni, transfert, quanto l’inconscio ci gestisce in ogni momento della nostra vita. All’esperienza dell’inconscio deve poi far seguito il lento e faticoso processo di trasformazione delle forze che mantengono le istanze psichiche in un equilibrio antieconomico e disfunzionale.

La psicoanalisi spiega la patologia come uno squilibrio topico, economico e dinamico e la terapia come il mezzo attraverso cui raggiungere un nuovo e più funzionale equilibrio.

Per procedere alla trasformazione delle forze in campo è evidentemente necessario rendere conscio l’inconscio. Tutta la psicoanalisi freudiana, dai primi scritti fino agli ultimi, ruota intorno a questo principio. Tale obiettivo si persegue tecnicamente attraverso due vie. La prima via mira a colmare il vuoto di consapevolezza che separa le istanze psichiche del soggetto e si propone di sostituire alla produzione sintomatica, agli agiti, alle ripetizioni, un nuovo e diverso sapere su di sé. La seconda via mira alla trasformazione economica delle forze in campo.

Non tratterei dettagliatamene, in questa sede, la differenza tra il cosiddetto inconscio rappresentazionale e quello puramente economico, non rappresentazionale. Entrambi i modelli hanno la loro ricaduta sulla patologia e sulla cura e si prestano ad essere schematicamente riferiti rispettivamente più alle nevrosi, il primo, e più alle organizzazioni borderline e psicotiche, il secondo. La realtà è, come spesso accade, più complessa della teoria e prevede quasi sempre una commistione tra le diverse forme di organizzazione psicopatologica. Il primo modello si poggia sulle rappresentazioni inconsce che ci agiscono a nostra insaputa, il secondo modello su una quantità che, incapaci di dominare, patiamo. La disposizione topica e dinamica dell’apparato psichico, affetto da disagio secondo il primo modello, è un tentativo disfunzionale di organizzazione dell’energia psichica e contemporaneamente una fissazione pulsionale regressiva a tale equilibrio. Il secondo modello, prevalentemente economico, considera le forze in campo come elementi bruti, disorganizzati, da portare sotto il dominio dell’Io. Sotto la formula “rendere conscio l’inconscio” dobbiamo considerare dunque due vettori: uno riguarda la presa di coscienza, favorita dall’interpretazione psicoanalitica, delle rappresentazioni sostitutive che imbrigliano le pulsioni, e l’altro è l’alfabetizzazione che promuove la trasformazione delle pulsioni brute in elementi catturati dalla trama rappresentazionale preconscia e dal pensiero onirico, favorendo i processi di simbolizzazione.

Il risultato che ci proponiamo di raggiungere, lavorando su questo doppio binario, sarà quello di rendere l’Io del paziente capace di gestire meglio le forze pulsionali dell’Es, allargando l’area del preconscio e sviluppando la capacità di sognare[2]. Un’operazione tanto complessa e ambiziosa è possibile solo con la psicoanalisi.

Per trasformare l’equilibrio delle forze in campo, il trattamento psico-analitico dovrà prima incidere sul precedente equilibrio. La metafora chimica potrebbe aiutare. Per liberare energia e produrre un nuovo equilibrio molecolare, bisogna prima rompere i legami che tengono untiti gli atomi tra loro. La rottura dei legami statici, cui mira l’analisi[3], libera energia psichica e avvia la formazione di legami più fluidi e capaci di mobilità.

I sintomi, le ripetizioni patologiche, gli atti mancati, sono frutto di un blocco, sono molto investiti, e si manifestano secondo la logica che il singolo individuo trova per esprimerli. Per una parte si tratta di spostamenti e fissazioni dell’investimento psichico, come è proprio dei cosiddetti disturbi nevrotici.  Sovente si tratta di un eccesso di energia libera, sintomaticamente esperita come angoscia, che esita in un difetto di organizzazione delle istanze psichiche con ricadute frequenti sul soma.

In un caso o nell’altro, se questi sono i presupposti con cui inquadriamo il disagio, la risposta, la cura eziologica psicoanalitica, non può che essere la controparte di tale presupposto. La cura deve ristabilire, o stabilire per la prima volta, un equilibrio funzionale e vitale e par farlo deve riposizionare l’equilibrio psicosomatico del paziente.

L’obiettivo, tra l’altro, prevede il raggiungimento di un livello sufficiente di sublimazione pulsionale per via della trasformazione della meta immediata delle pulsioni. Il che non implica, ovviamene, la bonifica dell’inconscio ma un equilibrio più funzionale alle esigenze del soggetto e del contesto in cui vive. La cura deve rendere, in-fine, il soggetto capace di utilizzare le proprie energie psicosessuali in modo più funzionale e creativo.

Se prendiamo il sogno e la sua interpretazione come esperienza paradigmatica della psicoanalisi, dobbiamo affermare che il fine ultimo dell’analisi non è certo quello di eliminare la produzione onirica, ma di mettere il sogno al servizio della nostra soggettività. Il sogno ci auguriamo diventi, in-fine, fonte di ispirazione e di creatività e modello elementare di sublimazione riuscita.

All’equazione inconscia della cura va aggiunto, tristemente, un fattore che da solo è capace di far saltare il banco. Abbiamo solo il tempo di farne un accenno ma può avere un peso definitivo in alcuni soggetti. Si tratta del fattore antilibidico che, declinato nella più radicale pulsione di morte o impastato sotto forma di masochismo, rende la vita dura ad ogni trattamento che si rispetti. Da una parte la pulsione di morte si oppone radicalmente alla trasformazione, dall’altra la libido si fissa pervicacemente a mete masochistiche (sovente è la stessa malattia ad essere investita) che impediscono alla cura di progredire.

3 La cura come riconoscimento del limite: il lutto.

Ultimo compito della cura, di cui ci occuperemo in questo breve contributo, è in stretta connessione con il metodo scientifico: favorire la conoscenza della realtà a discapito delle illusioni, delle false credenze, delle costruzioni deliranti. Non è un’operazione semplice né indolore. 

La psicoanalisi è figlia del metodo scientifico non tanto (o non solo) per il suo statuto epistemico (molto dibattuto) quanto per i suoi fini terapeutici. Allo stesso modo in cui Copernico, Bruno, Galileo, Darwin ecc… sollevavano l’uomo dall’illusione di essere al centro dell’universo, la psicoanalisi, attraverso un lavoro che implica la conoscenza del reale e del limite umano, mira ad affrancare il soggetto dalle sue illusioni narcisistiche e onnipotenti per favorirne un miglior adattamento alla vita.

L’intera storia dell’umanità, e la storia di ogni singolo individuo, con alterne fortune, è fatta di una progressiva caduta del narcisismo e delle illusioni che lo sostengono. Qualcuno potrebbe domandarsi, giustamente, se disilludersi è terapeutico. Filosofi e poeti (Pascal e Rimbaud ad esempio) hanno sostenuto il contrario: a fronte di una vita misera e dolorosa è meglio illudersi che non illudersi. Freud affermava, invece, che la cura avrà raggiunto il suo scopo se sarà riuscita a sostituire alla miseria isterica (leggi l’illusione) l’infelicità comune (leggi la dura realtà). Un mio vecchio maestro amava ripetere che la verità fa male, ma non fa ammalare. Il prezzo che si paga all’ignoranza è, non solo quello di possedere delle false credenze su cui è inevitabile inciampare, ma quello di mantenere un equilibrio psicodinamico svantaggioso e antieconomico per il soggetto, il quale resta fissato a rappresentazioni che ne impediscono la libertà degli investimenti psichici e la creatività. Se crediamo che la danza della pioggia basterà da sola ad irrigare il raccolto, profondendo energie psichiche e mentali nella sua pratica e nella sua delirante teoria, non andremo in cerca dell’acqua che potrebbe salvarlo e rischieremo di morire. Continuando ad investire l’illusione magica della danza della pioggia, non avremo a disposizione energia psichica sufficiente per risolvere diversamente il problema. Evidentemente illudersi non è tanto funzionale se non a mantenere una condizione di “comodità”. Una condizione infantile in cui prevarrà la credenza che ci sarà qualcuno o qualcosa che determinerà, in un senso o nell’altro, il nostro destino e che non sarà nostro compito prenderci cura di noi stessi. Nella circostanza in cui l’onnipotenza e il narcisismo la fanno da padrone, il risultato sarà aver consumato energia in una rappresentazione fissa e infruttuosa (la danza della pioggia), aspettandosi una risoluzione magica alla siccità, ed essersi allontanati dalla possibilità di risolvere creativamente il problema.

Questo vale anche per le fantasie a carattere persecutorio. Credere pervicacemente che il professore che ci ha bocciato è sicuramente contro di noi, a prescindere dalla nostra ignoranza, ci solleva dalle nostre responsabilità e non produce l’effetto adeguato, ovvero studiare meglio quanto abbiamo negligentemente trascurato.

Essere consapevoli che la danza della pioggia non serve ad irrigare il raccolto, che il professore non ha nulla di personale contro di noi, è il primo passo per organizzare un rapporto con il mondo più dinamico e creativo. Tale passo è funzionale alla cura se accompagnato da quello che chiamiamo insight. La conoscenza di un contenuto precedentemente ignorato, o per via della rimozione o perché mai conosciuto, produce effetti trasformativi solo se acquisito attraverso un’introspezione emotiva.

Un brevissimo esempio a partire da un altrettanto breve sogno[4]: Luigi sogna la nonna morta che, nel sogno, deve essere riposta in un cassetto. Seguono le libere associazioni del paziente: gli vengono in mente due modi di dire “avere un sogno nel cassetto” e “uno scheletro nell’armadio”. Poi un ricordo: intorno ai sei, sette anni era vestito da Zorro quando la nonna per acciuffarlo gli strappò il mantello. Da allora ha sempre associato la nonna a qualcosa di negativo, al ricordo di una nonna repressiva e cattiva. Il lavoro fatto sul sogno gli consente di recuperare la memoria di una nonna del tutto diversa da quella cui era rimasto fissato per i successivi quarant’anni. Lo strappo del mantello (associato alla propria onnipotenza: essere Zorro) aveva cancellato la rappresentazione della nonna affettuosa che, in realtà, quel giorno lo voleva acciuffare per dargli un bacio. Adesso, in seduta ricorda con un effetto sorprendente (l’insight) che la nonna, in realtà, aveva sempre avuto un grande affetto per lui, lo lodava spesso e gli voleva veramente bene. La rimozione (della nonna premurosa) si accompagnava ad una fissazione all’onnipotenza infantile, essere Zorro (il suo sogno nel cassetto) e non un bambino qualsiasi amato dalla nonna. Il falso ricordo, la nonna cattiva (lo scheletro nell’armadio), manteneva l’affetto legato ad una rappresentazione che teneva in scacco gli investimenti libidici. Dopo il lavoro di interpretazione Luigi si riappropria del ricordo della nonna amata e libera l’affetto vincolato all’onnipotenza infantile. Negli anni la quantità di affetto inibita, da una lunga serie di rimozioni e controinvestimenti, aveva prodotto come sintomo un’inibizione sessuale. In analisi Luigi un po’ alla volta (certo non solo magicamente attraverso l’interpretazione del sogno della nonna) poté fare “il lutto” della propria onnipotenza infantile, liberando con la mediazione del transfert quella quantità di affetto che gli impediva di avere una vita sessuale soddisfacente.

Il dispositivo analitico produce un’inevitabile idealizzazione dell’analista che diviene, attraverso la nevrosi di transfert, il concentrato delle idealizzazioni onnipotenti. Compito di un’analisi avanzata sarà consentire il graduale disinvestimento delle idealizzazioni prodotte e, promuovendo i processi di identificazione con la funzione analitica e allargando lo spazio metapsicologico del sogno, avviare il lutto della relazione analitica idealizzata, rendendo la psiche libera di investire creativamente e soggettivamente il rapporto con la realtà.

Il riconoscimento della differenza tra sé e l’altro, il riconoscimento che il fascio di proiezioni che ha investito l’analista non corrisponde alla persona dell’analista stesso[5], può avvenire anche molti anni dopo che l’analisi si è conclusa. Il lavoro del lutto è un lavoro lungo e doloroso che non si conclude con la fine della cura ma prosegue, nei casi riusciti, anche per tutta la vita. Esso riguarda non solo l’elaborazione del proprio percorso di analisi ma, più ampiamente, il rapporto che abbiamo stabilito con il mondo e determina la graduale trasformazione degli investimenti, progressivamente abbandonati, in una nuova e più creativa disposizione al pensiero onirico e alla spinta del desiderio.

Il lavoro del lutto in analisi non deve far erroneamente pensare che il soggetto analizzato aderirà ad un pensiero unico, ugualmente adattato ad una realtà monodimensionale, ma che produrrà ad analisi avanzata la capacità di liberare creativamente le proprie energie psichiche, rendendo l’analizzando capace di sostare in uno spazio intermedio e fecondo tra la creatività del sogno e il rapporto con la realtà circostante.


[1] Va sottolineato che l’affetto lega la rappresentazione dell’analista (il quale si presta “tecnicamente” a tale scopo) non la persona “reale” dell’analista come si potrebbe più semplicemente, ma erroneamente, pensare.

[2] Il sognare cui facciamo riferimento non si limita alla produzione onirica tout-court ma più ampiamente al pensiero onirico, sempre all’opera, anche durante la veglia.

[3] Che non a caso si chiama psico-analisi e non psico-sintesi.

[4] L’interpretazione dei sogni, su cui non possiamo dilungarci oltre nel tempo che ci è concesso, resta la spina dorsale della tecnica psicoanalitica, strumento unico e privilegiato di esplorazione, elaborazione e trasformazione dell’inconscio.

[5] Come accennato sopra l’investimento inconscio è sulla rappresentazione dell’analista, sul fantasma, non sulla sua persona.

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