La Cura

La cura della psicosi. L. Rinaldi

31/01/22
La cura della psicosi. L. Rinaldi

JEAN ARP, 1960

Parole chiave transfert psicosi, dissociazione mente corpo, ritiro psichico

Abstract: partendo dalla scoperta freudiana della comprensibilità dei sintomi psicotici e dalla ipotesi della loro origine in certe caratteristiche dell’intersoggettività primaria, si fa un breve excursus sulle prospettive attuali della pratica e della ricerca psicoanalitica nel campo  della cura delle psicosi.

La psicosi, o per meglio dire le psicosi, sono quelle forme di grave disturbo psichico caratterizzate da una più o meno estesa frattura con la realtà e conseguentemente da un modo primitivo di funzionamento della mente e di costruzione della propria esperienza soggettiva.

Le psicosi hanno una etiologia complessa, multifattoriale (bio-psico-sociale), sono abitualmente distinte in due grosse categorie le “psicosi idiopatiche non affettive”, quelle che entrano nel cosiddetto spettro schizofrenico, hanno un’incidenza di malattia dell’1% rispetto alla popolazione generale, ed hanno un andamento progressivo difficile da bloccare, e le “psicosi affettive” o bipolari, caratterizzate soprattutto da disturbi del tono dell’umore, capostipite la psicosi maniaco depressiva.  I trattamenti attuali, se ben condotti, combinando insieme psicofarmacologia e psicoanalisi, cambiano la prognosi anche delle psicosi più severe, trasformandolespesso in malattie intermittenti, con periodi di acuzie ed altri di stasi.

Ogni tentativo di comprensione delle psicosi non può che partire da Freud. Egli riteneva che i pazienti affetti da psicosi sarebbero caratterizzati da una regressione narcisistica che li rende chiusi in se stessi ed impossibilitati ad investire nella relazione con l’altro e quindi incapaci di formare quella relazione di transfert che sta alla base della tecnica analitica. Ciononostante, fin dagli esordi, ne Le Neuropsicosi da difesa (Freud,1894) ha squarciato il velo della incomprensibilità delle psicosi, individuando un meccanismo di difesa specifico, messo in atto dal soggetto psicotico nei confronti della realtà esterna: il rigetto, Verwerfung. “Esiste per altro una forma di difesa, più energica ed efficace (della rimozione), consistente nel fatto che l’Io rigetta (werwift) la rappresentazione incompatibile unitamente al suo affetto e si comporta come se all’Io la rappresentazione non fosse mai pervenuta (…..)l’Io si strappa alla rappresentazione incompatibile, ma questa è inseparabilmente connessa con un pezzo di realtà; l’Io, strappandosi ad essa, si stacca dunque, in tutto o in parte anche dalla realtà. (….) Questa è la condizione che permette di dare allucinatoriamente vita alle proprie rappresentazioni”(Freud, 1894, 132-133).

Questi temi, che qui sono solo abbozzati, concernenti le rappresentazioni o le percezioni incompatibili (con l’Io cosciente ed i suoi ideali) il cui rigetto porta ad un distacco dalla realtà, l’estrema compromissione dell’Io, il delirio come realizzazione allucinatoria del desiderio, sono ripresi e sviluppati da Freud successivamente: in Nevrosi e psicosi (1923), La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi (1924), Feticismo (1927), e La scissione dell’Io nel processo di difesa (1938). Questi lavori, di importanza fondamentale per chiunque si occupi di psicosi, hanno aperto la strada ad innumerevoli studi, oltre che nel campo psicoanalitico, anche  nel campo delle neuroscienze e delle scienze umane .

I trattamenti psicoanalitici o psicoterapeutici intrapresi dagli psicoanalisti dopo Freud, applicando il metodo da lui inventato e calibrandolo e modificandolo per adattarlo a questo tipo di pazienti, hanno avuto un valore euristico enorme, dimostrando, innanzitutto, che l’ambito dell’esperienza psicotica contiene un potenziale di conoscenza che può arricchire tutte le persone interessate alla condizione umana e soprattutto tutti coloro che operano nel campo della salute mentale.

La prima acquisizione proveniente dal prendersi cura  di questi pazienti è stata il superamento della contrapposizione, a volte diventata drammatica, tra l’intervento psicologico e quello farmacologico, come è accaduto, ad esempio, quando il non aver fornito una terapia farmacologica ad un paziente psicotico ha portato ad una controversia legale che ha posto fine all’esperienza storica di Chestnut Lodge, che era stato negli USA un centro di eccellenza della ricerca e della terapia psicoanalitica.

Per condensare in poche battute la necessità di integrare trattamento psicoanalitico e trattamento farmacologico mi sembra eloquente l’esperienza della scrittrice Elyn Saks, che per la sua grave psicosi ha usufruito per molti anni di ambedue i trattamenti. Invitata a partecipare ad un dibattito indetto dal Journal of the American Psychoanalytic Association,  la Saks ha riconosciuto tra i meriti dell’analisi: la capacità di identificare i fattori di stress insieme alla loro gestione, l’aiuto a sviluppare una mentalità psicologica rafforzando un Io osservante, l’elaborazione della ferita narcisistica di soffrire di una malattia mentale per cui si ha bisogno di una psicoanalisi e di una terapia farmacologica, la capacità di offrire un posto sicuro dove si possono portare i pensieri caotici, l’offerta di interpretazioni fonti di insight, coniugata all’offerta del supporto di una persona gentile, non giudicante, che può accettare un altro essere umano non solo per il buono, ma anche per il brutto e cattivo (Saks, Evans 2011).

Lo studio di questi pazienti ha mostrato poi che nel paziente psicotico convivono parti sane accanto a parti francamente psicotiche, caratterizzate da difese primitive, che, a partire dal rigetto conducono a meccanismi di negazione della realtà, ad identificazioni proiettive massicce e a meccanismi di scissione che vanno fino all’autoframmentazione del sè, e che sono responsabili dei cosiddetti sintomi produttivi: deliri, allucinazioni, disordini formali del pensiero, grossolani disturbi del comportamento.

Accanto a forme caratterizzate da grosse efflorescenze sintomatiche ce ne sono altre (la maggior parte) paucisintomatiche, chiamate in vari modi: psicosi bianca (Green, 1973), psicosi fredde (Kestemberg, 2001), schizofrenia cenestopatica di Huber (cfr.Lorenzi P., Pazzagli A. 2006). Queste forme presentano un nucleo duro, le cui caratteristiche deficitarie, quali apatia, abulia, piattezza emotiva, rivelano un’inconfondibile chiusura autistica. Queste esperienze psicotiche, considerate da molti Autori un percorso di vita e non solo una malattia, evidenziano chiaramente che il problema centrale, alla base di tutte le psicosi, è la grande difficoltà nella costruzione del rapporto con gli altri, con il proprio corpo e con il Mondo. In tale ottica i sintomi psicotici  possono essere considerati come un tentativo di compenso a questo problema centrale: compenso sia a livello biologico (sistemi neurologici abitualmente inibiti che prenderebbero il sopravvento) sia a livello esistenziale, compensando la perdita della realtà con la creazione di una neo realtà più vivibile e quindi in grado di ricostruire una relazionalità, seppure patologica, che protegga dal ritiro autistico e dal rischio di implosione e di estrema frammentazione.

Secondo la maggior parte degli psicoanalisti non si nasce psicotici, ma lo si può diventare per varie concause che sopraggiungono nel corso dello sviluppo: a partire da certe caratteristiche dell’intersoggettività primaria, che non ha permesso all‘infans di fornirsi di un apparato parastimoli, in grado di modulare dapprima le esperienze sensoriali-emotive e poi quelle affettive, percepite, perciò, come invasive e persecutorie, e quindi da rigettare. La madre, per esempio, che lascia piangere il bambino per troppo tempo, o, ripetutamente non è in grado di distinguere se il bambino piange perché ha fame o ha bisogno di essere cambiato o di essere tenuto in braccio, e non fornisce tempestivamente la risposta adeguata, non permette che si sviluppi nel bambino una fiducia di base nel poter ricevere risposte alle domande corporee, che i suoi bisogni e desideri possano essere esauditi. Questo porta alla lunga ad un disinvestimento libidico del corpo, con conseguente perdita della funzione centrale del principio di piacere come regolatore dell’attività psichica e fonte di  investimenti del mondo.

Alla luce di queste considerazioni, si comprende perché il processo psicotico comincia spesso nell’infanzia attraverso il meccanismo del ritiro psichico (De Masi, 2018), in quei bambini che non hanno mai sviluppato quella fiducia in se stessi che permette di sentirsi “visti” e significativi per gli altri, legittimati ad avere un loro posto nel mondo. Per sfuggire a questa realtà intollerabile, questi bambini e adolescenti, si isolano e spesso creano un mondo alternativo di fantasie dissociate in cui si rifugiano (Steiner,1993). Il ritiro offre un’alternativa al mondo relazionale ed ai conflitti ad esso legati (di gelosia, invidia, competizione ecc.) trasformando la mente, da strumento per produrre pensieri (che aiutino a gestire la realtà interna ed esterna), in un organo sensoriale, capace di creare un mondo alternativo, dominato da un piacere speciale e regressivo cui è facile attingere. Da qui l’irriducibilità di alcuni deliri.

Per altri Autori, invece, la parte psicotica della personalità sarebbe nutrita da un’eccessiva predisposizione congenita all’aggressività e all’invidia (Klein,1946), o da un’eccessiva incapacità a tollerare le frustrazioni (Bion,1967).

In linea con la considerazione che la psicosi ha il suo fondamento in certe caratteristiche dell’intersoggettività primaria si inserisce l’articolato pensiero di Piera Aulagnier (1975), che collega l’origine della psicosi alla violenza che la madre normalmente esercita sul bambino per strutturare il suo senso di realtà. Quando a questa violenza primaria si aggiunge una violenza secondaria si crea, secondo questa Autrice, una potenzialità psicotica. Tale potenzialità si attualizza allorché i tre piani, che lei ipotizza costituiscano l’edificio psichico (processo originario, processo primario e secondario), risultino costruiti: il primo da mattoni impastati col pittogramma del rigetto e del desiderio d’autoannientamento, il secondo col fantasma secondo cui tutto è effetto del desiderio onnipotente dell’Altro, e il terzo con enunciati identificatori genitoriali che impongono al già fragile Io di dover essere diversamente da qualsiasi immagine di sé che tenda ad investire.

Dopo questo breve excursus sul come e perché si può sviluppare un processo psicotico veniamo alle prospettive aperte dalla ricerca psicoanalitica sul suo trattamento.

Mi limiterò ad accennare alla questione del transfert, che resta un caposaldo della terapia analitica.

Una volta assodato che, contrariamente a quanto lo stesso Freud riteneva, il transfert non è assente nei pazienti psicotici anzi, come dice Bion (1967), è precoce e precipitoso, seppure fragile, il problema che si pone è innanzitutto l’evidenziazione dei differenti tipi di transfert che si incontrano nel processo della cura, e poi la considerazione del loro ruolo e delle modalità d’interpretazione.

A mio parere il transfert di base che più spesso incontriamo in questi casi è il transfert sul corpo (Lombardi, 2016), transfert che rivela una dissociazione corpo-mente, un “buco nero” nella rappresentazione affettiva e mentale del proprio corpo e della realtà. Si tratta infatti di pazienti che sentono di non abitare il proprio corpo e ci fanno assistere ad un’eclissi del corpo (Ferrari, 1992).  A questo si accompagna inevitabilmente un’eclissi della rappresentazione, a causa della sfiducia, maturata nel corso della relazione primaria, sulla possibilità di riuscire a trasformare un dato traumatico (uno stato di sofferenza corporea) in materiale psichico rappresentato, sufficientemente funzionale rispetto al contenimento dell’angoscia, e che, con l’acquisizione della parola, può poi essere comunicato e condiviso (Rinaldi, 2003). L’evidenziazione e l’elaborazione di questo tipo di transfert può fare acquistare spessore ai discorsi di questi pazienti, facendo perdere quel carattere di vacuità, derivante dall’uso di parole che non affondano le loro radici in quel tessuto sensoriale, emotivo ed affettivo che permette la nascita di una parola “piena”, capace di simbolizzare e comunicare quello che si prova e si pensa.

Esemplare al riguardo è stato un mio giovane paziente che aveva enormi difficoltà di comunicazione, diceva di essersi sentito per lungo tempo come un fantasma, di non avvertire nemmeno il dolore fisico e, durante un’adolescenza senza amici, aveva passato ore ed ore nella quarta dimensione, in compagnia degli eroi dei suoi fumetti preferiti.

Un altro tipo di transfert è il Transfert sul contenitore (Houzel, 2016), che conduce a delimitare in maniera stabile le frontiere del Sé, attraverso il rovesciamento nella situazione terapeutica dei propri stati psichici e la scoperta della possibilità di metterli insieme, conservarli e ritrovarli. O il transfert simbiotico (Searles,1965), che è necessario valorizzare in alcune fasi dell’analisi, per ovviare alla mancanza della normale simbiosi con la madre, non vissuta nell’infanzia.

Freud (1906) ci ha mostrato, inoltre, che è necessario affinare le proprie capacità empatiche, per riuscire a identificarsi ed a parlare non solo con la parte sana dell’analizzando ma anche con la parte delirante, riuscendo, per esempio, a fare un discorso “a doppio senso”, come, fa Zoe, la protagonista del racconto, che, dopo aver imparato a riconoscersi nei sogni e nei deliri di Norbert Hanold, scopre in quale momento una certa parola può destare Norbert senza brutalizzarne il risveglio.

Non solo.  In questi trattamenti è necessaria una continua analisi del controtransfert per capire e gestire il fatto che le esperienze traumatiche hanno portato all’imporsi del negativo (Green, 1993), come rapporto oggettuale organizzato, spesso indipendentemente dalla bontà o meno dell’Altro, e possono condurre ad uno stato in cui è reale solo quello che è negativo. Ciò significa che fino a quando non si riesce a ridimensionare nel soggetto il modello del negativo, diventato il marchio della propria vita, ogni esperienza può andare incontro a vicissitudini “negativiste”, e trasformarsi in sofferenza, rabbia, paranoia, impotenza. Rabbia che si scatena nei confronti di tutti, compreso il terapeuta naturalmente, ma innanzitutto nei confronti di se stessi, del proprio corpo, che è il primo oggetto della psiche. Mi riferisco innanzitutto agli attacchi al legame (Bion,1967) tra organi di senso, emozioni, sentimenti e pensiero.

La psicoanalisi delle psicosi obbliga, in definitiva, il terapeuta ad affinare le proprie potenzialità recettive, facendo appello alle proprie antenne emotive, ed attivando una rêverie sensoriale (acustico-musicale, pittorica…) ed immaginativa, in grado di dare corpo anche a flebili risorse comunicative ed ampliare la gamma percettiva del non detto. Possiamo così aiutare l’analizzando, prima ancora che a verbalizzare,  a “sentire” dentro di sé anche le emozioni che non ha potuto sentire perché ne era stato inibito lo sviluppo,  aiutarlo a sentire quanto in prima istanza non è riconoscibile e rimarrebbe confinato nell’ineffabile e scaricato nell’acting, nel delirio e nel soma.

Privilegiare la propria capacità di sentire e di provare  a stare all’unisono col paziente può portare infine a migliorare nell’analizzando la sua capacità di “sognare i suoi sogni non sognati o interrotti” (Ogden, 2005) per poter elaborare l’esperienza emotiva, renderla pensabile, e mirare ad una “riallocazione della follia” (Blekner, 2016). Cosa che si attua allorché un materiale delirante  comincia ad apparire in un sogno; il che significa non tentare più di risolvere i propri conflitti in modo psicotico, ma in un modo fisiologico e fruibile da tutti gli esseri umani: sognando. L’analista può quindi sostenere l’orientamento dell’analizzando psicotico a pensare la realtà come protofunzione “onirica” (Bion, 1992), incoraggiandolo a far progredire la sua verità soggettiva verso forme più condivise, aiutandolo ad organizzare l’esperienza attraverso la creazione di una membrana/barriera di comunicazione/differenziazione tra conscio e inconscio.

BIBLIOGRAFIA

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