La Cura

Inattualità del rielaborare (e della psicoanalisi). Riccardo Galiani

27/03/25
Inattualità del rielaborare (e della psicoanalisi). Riccardo Galiani

Parole chiave: inattualità, passibilità, pazienza, ripetizione, ripresa

Abstract 

L’autore ricorre al confronto con alcuni contributi ispirati allo scritto freudiano “Ricordare, ripetere e rielaborare” per provare a argomentare e discutere una tesi cui la propria pratica analitica, l’ha frequentemente indotto a pensare, anche per le frequenti induzioni a immaginare per il  rielaborare un ruolo più esteso di quello che sembra essergli inizialmente riconosciuto dallo stesso Freud. La tesi è la seguente: la disposizione dell’analista a lasciarsi modificare, che Scarfone ha a più riprese definito adottando il termine lyotardiano di  passibilité, crea i presupposti per una analoga condizione del paziente, che potrà a sua volta tollerare l’azione di processi che lo modificano, a partire da quelli che sperimenta per effetto della situazione analitica, come lo stesso  durcharbeiten. Al tempo stesso, l’autore prova a mettere in rilievo una particolare simmetria tra il processo di rielaborazione e il metodo psicoanalitico: quella determinata dall’inattualità di entrambi.

Inattualità del rielaborare (e della psicoanalisi) [1]

Riccardo Galiani

Circa vent’anni fa Alberto Semi (2006), interpretando alcune indicazioni freudiane, identificava il Durcharbeiten come una sorta di altro shibboleth della psicoanalisi, ponendolo idealmente accanto alla teoria del sogno (Freud 1914), al complesso edipico (1905, nota del 1920) e all’inconscio, “il primo scibbolet della psicoanalisi” (Freud 1922) [2]. Che gli si riconosca o meno la funzione di segno di riconoscimento di un gruppo (linguistico e culturale), quello che Freud assegna alla “rielaborazione delle resistenze” (Durcharbeiten der Widerstände) è un ruolo qualificante. Lo capiamo quando, in maniera retoricamente non ingenua, prima si dichiara “impegnato” dal titolo (scelto ovviamente da lui) a “descrivere un’ulteriore parte della tecnica analitica” (1914, p. 360; GW p. 135) , per poi accingersi a concludere il saggio affermando (nella penultima frase) che il rielaborare è la “parte del lavoro che produce i maggiori mutamenti nel paziente e che differenzia il trattamento analitico da tutti i trattamenti di tipo suggestivo” (1914, p. 361; GW p. 136: “Es ist … jenes Stück der Arbeit, welches die größte verändernde Einwirkung auf den Patienten hat und das die analytische Behandlung von jeder Suggestionsbeeinflussung unterscheidet”, dove la frase in corsivo è traducibile alla lettera con “si differenzia da qualsiasi influenza suggestiva”, ossia un’influenza che può agire anche in un trattamento non deliberatamente di tipo suggestivo)[3].

Con l’arbitrio di lasciare il “ricordare” sullo sfondo, il “movente” di questo mio lavoro è a sua volta identificabile ad un interrogativo sul ruolo del Durcharbeiten, su quello che oggi esso può dire dell’insieme della pratica analitica. Ciò implica anche chiedersi se sia ancora utile considerare non scontato quale rapporto esso intrattenga con la ripetizione, se sia possibile trarre un vantaggio dall’immaginare un Durcharbeiten al di là e prima, “al di qua” della ripetizione[4].

1.

Per assecondare questo movente giova ricordare, in via preliminare, che ciò che in diverse traduzioni incontriamo con il termine ripetizione (repetition) può riferirsi a esperienze diverse, non sempre accompagnate da coazione e alle volte non “ripetitive”. Questa polisemia dà vita ad una difficoltà analoga a quella generabile dalla lettura di alcune traduzioni di Gjentagelsen di Kierkegaard (1843), al cui centro, nonostante la parola adottata per rendere il titolo sia in prevalenza quella, vi è un’esperienza diversa dalla ripetizionecome “replica dello stesso”. Con l’avanzare dell’ “esperimento psicologico”, Gjentagelsen definisce sempre più un “secondo cominciamento”, un re-inizio, un “new beginning” (come quello cui pensava Søren per la sua relazione con Regine Olsen): non la pura e semplice ripetizione, ma il rinnovamento. Se il termine “ripetizione” evoca la similitudine nella riproduzione della parola o del gesto, la sclerosi dell’abitudine, “lo stesso nello stesso”, la Gjentagelsen diviene al contrario (e per Kierkegaard con la mediazione della fede) una vita nuova, quella della nuova creatura riconciliata («la riconciliazione è la ripresa sensu eminentori»); è sempre “io”, sempre lo stesso, ma tuttavia sempre “altro”, in ogni istante (Vialleneix 1990 p. 57)[5]. In quest’ottica, la ripetizione appare come un “venire meno” dell’attitudine umana alla ripresa (intesa in senso musicale), ad un “tempo secondo” o alla dimensione del “nach” (nel senso -vasto- freudiano).

Nel riassumere le implicazioni psicoanalitiche di tale questione, Balsamo (2007, p. 957) ricorda che la sua centralità è stata ben evidenziata da Lacan, che riconosceva nella ripetizione uno dei quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (Lacan 1973). Lacan osservava che ripetere (wiederholen) e riprodurre (reproduzieren) non sono la stessa cosa, nel senso che la riproduzione (sintomatica) appare come riproduzione dello stesso (così come si dice della riproduzione di un quadro), mentre la ripetizione è inerente a una dimensione simbolica che, essendo sempre in atto, introduce qualcosa di differenziale rispetto alla scena originaria. È in questa direzione che, ricorda ancora Balsamo, si è mosso anche Deleuze (1968, pp. 39-40), teorizzando due livelli della ripetizione: uno «orizzontale», come ripetizione dello stesso, rappresentato dall’automatismo, dal blocco dei concetti e della rappresentazione; l’altro «verticale», quello della determinazione simbolica, determinata dai suoi spostamenti e trasformazioni.

Dunque, la ripetizione non è un concetto univoco e la stessa “coazione”, lungi dal chiarirne la modalità di azione, necessita a sua volta di “proposte interpretative” che di questa non univocità provino a tenere conto (Pozzi, 1987, p. 141). Si può dire che il poter assumere forme diverse tra loro fa parte della natura della spinta a ripetere: è una forza cieca e impersonale, tesa coattivamente alla desoggettivazione, ma è anche una forza che, manifestandosi nei fenomeni di transfert, prova ad utilizzare la coazione per far tornare il soggetto a un tempo potenzialmente ancora aperto, “inesistente se non nell’attualizzazione”, “dove non era mai stato”, come ricorda De Renzis (2009, 48) ricorrendo alle parole di Giorgio Caproni[6].

Prima di andare incontro ad un destino di predominio da parte dell’interesse destato dal secondo e dai suoi derivati, l’interazione proposta dai tre verbi che danno il titolo al “nostro” scritto freudiano (ricordare, ripetere, rielaborare) apre a sua volta a questa varietà potenziale dei modi di “ripetizione”.

2.

Erinnern, Wiederholen und Durcharbeiten è uno scritto in cui Freud, dopo il decisivo “regolamento di conti” con Jung, sente di poter esprimere più chiaramente, in forma pressoché definitiva, le sue opinioni sulla pratica analitica (cfr. lettera a Karl Abraham del 29 luglio 1914; Sedat 2019). Forse è per questo che, includendo le dinamiche intrapsichiche del paziente nel campo di ciò che è oggetto di un “consiglio tecnico”, può suggerire di guardare il fenomeno della ripetizione da un punto di vista che ne fa apparire potenzialità paradossalmente trasformative; queste potenzialità agiscono sugli aspetti vincolanti (compulsivi) della stessa ripetizione. Gli esempli clinici proposti da Freud evidenziano infatti delle trasmutazioni all’interno della seduta: passaggio dall’atto alla sua potenzialità, da questa all’atto di enunciazione, dall’atto di enunciazione al ritorno di questo atto sul soggetto (Bouchard 2000).

Alle potenzialità dell’azione di una ripetizione in parte ancora senza coazione (ma già in grado di lasciar intravedere la posta in gioco rivoluzionaria di una peculiarità del lavoro clinico legata alla ripetizione: cf. Garella 2007) corrispondono aspetti salienti del processo che Freud definisce ricorrendo all’ampio campo semantico della preposizione durch e del verbo arbeiten [7].

Nel suo insieme, il titolo dello scritto, con i verbi sostantivati destinati a designare atti, disegna una “forma esemplare di congiunzione trilogica” (Assoun 2009). Se i due primi termini costituiscono nozioni note, l’innovazione del testo è demandata al terzo: Durcharbeiten. Questo verbo spinge a pensare le caratteristiche di una elaborazione (arbeiten) che si esercita attraverso (durch) le resistenze e che almeno al suo inizio utilizza la ripetizione come supplenza di un’impossibile evidenza del ricordo. L’introduzione di un “temps de la perlaboration” (Bouchard 2000) segnala quindi innanzitutto l’insufficienza del ricordare e la relativa inefficacia dell’interpretazione, facendo da monito sia ai giovani analisti che agli allievi della prima ora. Ciò che avrà poi il nome di “resistenza dell’inconscio” (Freud 1926) inaugura di fatto l’era di una diversa consapevolezza: l’analisi è un lavoro terapeutico non “positivo”, privo cioè di indici posti e definibili in anticipo da una strategia. Attraverso quella che è stata definita “the most completely characterization of the patient’s role in analysis” (Sedler 1983, 75) e la complementare elevazione del ruolo della pazienza – einer Geduldprobe -, della capacità di attesa dell’analista, ad attitudine terapeutica essenziale, la proposta del termine Durcharbeiten alla comunità analitica vale come messa in evidenza del significato di un lavoro caratteristico, necessario allo sviluppo di un processo propriamente analitico[8]. Un lavoro di cui, côté pazienza, Freud riconosceva probabilmente a posteriori un’insufficienza che lo rendeva debitore nei confronti di un ispiratore indiretto di questo scritto: l’Uomo dei lupi, la cui analisi si era conclusa in un tempo non distante da quello della stesura di questo articolo (e delle prime note sul caso). Il durcharbeiten e l’invito alla pazienza come effetto secondario, risposta di natura autocritica e reattiva, all’epilogo del trattamento forse più rielaborato della storia della psicoanalisi.

3.

Nelle poche righe esplicitamente dedicate ad esso, in chiusura dello scritto, Freud fa cogliere la peculiarità di questo arbeiten attraverso l’accentuazione di una logica del passo dopo passo, in cui la durata della cura è incoercibile e si compie secondo un ritmo proprio, che non cessa di essere seguito anche nell’intervallo tra le sedute (Bouchard 2000, 1081) e che, soprattutto, trova il suo fondamento nella teoria della Nachträglichkeit. Quello che risulta è uno “strumento” di scarso appeal per il mercato della rapida efficacia terapeutica; un “dis-appeal” che Freud però non mancherà di accentuare alla fine della sua vita, quando tornando sul Durcharbeiten nel “Compendio” lo descrive lo descrive -senza nominarlo – come un lavoro che richiede un incessante sforzo dall’esito pur sempre incerto (cf. Freud 1938, conclusione cp. IV), descrizione sempre più distante da un’esperienza puntuale o puntiforme come l’abreazione, cui pure, facendo soprattutto riferimento alle fasi iniziali della ricerca freudiana, il “rielaborare” viene ricondotto (cfr. l’indice analitico delle OSF).

Si può dire, come fa Sedat, che introducendo il rielaborare, il testo del 1914 spinge verso la fine della direzione della cura: “per essere all’altezza della situazione e per sottrarsi ad ogni effetto di influenzamento teorico, l’analista deve situarsi allo stesso livello del paziente” (Sedat 2011, 64). Ponendosi al livello del paziente – senza per questo sottovalutare la necessità dell’istituzione di una dissimmetria (Fédida 1973)-, l’analista sperimenta diverse modalità dell’operare del rielaborare e il loro dipendere dal “kind of psychoanalytic work required by different transference situations and different modes of mental functioning” (Roussillon 2010, 1405-1406). Modi diversi che implicano gradi diversi di “forza dell’Io” e tempi diversiper stare intensamente in relazione con la propria resistenza e con gli effetti patogeni delle proprie difese (Sedler 1983, 81).

Avendo a nostra volta pazienza, vale la pena seguire un po’ più da vicino Freud: “Si deve lasciare all’ammalato il tempo di immergersi nella resistenza a lui ignota, di rielaborarla, di superarla persistendo, a dispetto di essa, nel suo lavoro che si attiene alla regola psicoanalitica fondamentale. Solo quando la resistenza è giunta a tale livello è possibile scoprire, in collaborazione con l’analizzato, i moti pulsionali rimossi che la alimentano; il paziente può infatti rendersi conto dell’esistenza e della potenza di questi moti in base a quanto è venuto sperimentando” (p. 361; GW, X, pp. 135-136).

Per immergersi nelle resistenze e difese, per essere “conversant” con esse (come recita la traduzione inglese – anche la “revised”), occorre poter immaginare un interlocutore adatto, disposto al dialogo ma non a lasciarsi influenzare troppo; un io mediamente forte, insomma. Considerazione che oggi potrebbe far propendere per l’accantonamento del Durcharbeiten, dal momento che buona parte dei “pazienti contemporanei” entra nella stanza d’analisi senza poter fare una domanda d’analisi, vale a dire che vi entra proprio per creare le condizioni per costruire una forza che non sentono di avere.

Per quanto dei “segni” consentano di riconoscere l’azione del rielaborare anche in analizzanti “ai limiti dell’analizzabile” (cf. Montagnier 2000), è però la stessa insistenza implicata dalla ripetizione dei moti pulsionali a chiamare costantemente in causa una forma di rielaborare, come un processo già presente o da agevolare[9]. Il rielaborare è necessario perché la pulsione insiste

Durcharbeiten indicherebbe allora al tempo stessola denominazione di un processo psichico e l’indicazione di un percorso di lavoro cui continuare a riconoscere un ruolo centrale, fosse solo per misurarsi a dovere con un’altra caratteristica della pratica clinica psicoanalitica divenuta sempre più dominante, ossia la durata dei trattamenti.

Brenner (1987, 92) non era lontano dal vero quando affermava che l’introduzione del “rielaborare” nel novero dei “Ratschläge zur Technik” (consigli sulla tecnica) e i tentativi di Freud, negli anni successivi, di definirlo in modo più preciso, erano già un “tentativo di rispondere alla domanda: ‘Perché l’analisi richiede così tanto tempo? Perché un paziente non guarisce non appena l’analista ha compreso correttamente la natura e le origini dei desideri inconsci del paziente e li ha interpretati correttamente?’”. Anche per questo motivo Brenner (p. 103) concludeva: “Working-through is not a regrettable delay in the process of analytic cure. It is analysis”.

Con la sua andatura, il Durcharbeiten qualifica la psicoanalisi perché è il solo lavoro sulla resistenza che, avvenendo in quella singolare forma di ripetizione che è il transfert, ha la possibilità di produrre un cambiamento psichico nel paziente. È forse anche per questo che in un passaggio di “La direction de la cure et les principes de son pouvoir” (1958, tr. it. p. 591), Lacan traduce Durcharbeitung “semplicemente” con “travail de transfert”: lavoro del transfert e di transfert. È nel transfert che “ripetere diviene motivo del ricordarsi” (Assoun 1994, 350). Ricordarsi e vivere il ricordo, ma differentementeda una pretesa ricostruzione del passato: “Tutto / è ancora rimasto quale / mai l’avevo lasciato”.

Come ci si può rappresentare l’attitudine dell’analista che sostiene questa attività del paziente? Necessariamente come un’altra forma di attività? Non necessariamente.

Si potrebbe ad esempio pensare anche ad un’esperienza di tipo complementare, che si compie quando l’analista non interpreta e non parla; diremmo allora, con Guarnieri (2013, 31), che “la libera attenzione fluttuante dell’analista nella seduta rappresenta al meglio la condizione in cui avviene il rielaborare”. Oppure, seguendo Rolland (2006), potremmo spingerci sino al formulare un “ascolto rielaborante”, cogliendo così l’opportunità di farci aiutare dal rielaborare a identificare alcune condizioni di un ascolto propriamente analitico, vale a dire di un ascolto che “crea l’indirizzo transferale” (Scarfone 2020, 377).

4.

Al punto in cui sono della mia esperienza, mi sento di concordare con quanti hanno sostenuto e sostengono che un ascolto diviene analitico quando, col tempo, con il continuo lavorare e rilavorare i residui della propria analisi e di tutte le altre cui ha preso parte, l‘analista “de-semantizza”, “de-significa” sempre più, sempre più costantemente e sempre meno intenzionalmente ciò che intende. Questa attitudine “anasemica” cui mi riferisco rifacendomi innanzitutto a N. Abraham (1968), a Fédida (1983) e a Russo (2009), non è una “skill” cui l‘analista ricorre, ma una modalità di funzionamento, o meglio ancora un’esperienza, cui nell’ascolto si lascia progressivamente prendere il sopravvento creando così una sorta di contrappeso agli effetti dell’Entstellung, la deformazione, forse un buon “brand” per la psicoanalisi e tutto ciò che ne deriva, in quanto “marchio universale dell’inconscio” (Hock 2020, 425).

Allo stesso modo del pensiero, un ascolto può cioè essere detto psicoanalitico quando contiene “lo scarto aperto dalle parole o se esso è l’esistenza delle parole nello scarto temporale dal loro essere pronunciate” (Fédida 1984, 178). Se c’è un’attività in questo, è quella esercitata dalle parole, con il loro sopraggiungere, con il loro sapere di cose oltre le cose dette: Les mots qui vont surgir savent de nous des choses que nous ignorons d’eux”[10].

Rispetto a questa attività delle parole, per rappresentarci la condizione dell’analista dobbiamo avvicinarci ad una disposizione di attesa, simile a quella capacità di cui Winnicott (1960, 37) auspicava l’analista fosse dotato rispetto all’interpretazione adeguata: “the analyst is prepared to wait a long time to be in a position to do exactly this kind of work”. L’essere preparati to wait a long time to be in position non si discosta troppo, per me, da una disponibilità ad essere lavorato da ciò che, in quanto incompreso, può agire dall’interno delle parole che si intendono, tanto del discorso del paziente, quanto del proprio discorso interiore. Si tratta insomma di un’esperienza che potrebbe essere utile provare a rappresentarsi nell’ordine della “passività”.

Leggo in quest’ottica anche quanto Laurence Kahn suggerisce di pensare dell’azione che si compie sulle “superfici psichiche” che si incontrano in una seduta tramite la nozione di palpation. Scrive Kahn (2012, 158-159): “L’azione dell’analista si esercita … nella configurazione stessa della relazione: non sotto l’aspetto della ‘gestione‘ del transfert, ma proprio per il suo carattere ‘palpabile‘. O, più precisamente, per l’influenza della palpazione sulla formazione psichica stessa. Di quale palpazione stiamo parlando? Di quella della ‘superficie psichica’ del paziente, certo, che è importante conoscere in ogni momento, per determinare quali complessi e resistenze si stanno mobilitando. Ma come si può concepire questa palpazione a prescindere dall’uso che l’analista fa del proprio inconscio come strumento di percezione, dal momento che l’azione del paziente – non quello che dice, ma quello che fa mentre dice – opera attraverso l’ ‘influenza la sensibilità inconscia’ dell’analista?”

Ma “l’uso che l’analista fa del proprio inconscio” non può distaccarsi troppo, credo, da una disposizione a farsi “usare”, influenzare, modificare da ciò che deriva a nostra insaputa dall’azione di questo strumento percettivo. In quanto al tempo stesso “etero” ed “auto”, questa “palpazione” consente di pensare allora il “farsi agire” da una forma che gli investimenti libidici delineano all’interno della situazione analitica agendo sull’inconscio dell’analista attraverso ciò che delle parole che sono state dette è ascoltato e “inteso”, ossia attraverso i segnali d’affetto offerti dalla voce, dai suoi toni, dalle sue intonazioni, dalle sue pause, dalla sua scomparsa in un silenzio (cf. Kahn 2016; 2012, 107-109).

È su questa disponibilità a farsi agire da una forma che a mio avviso fonda quella che Scarfone (2004, 116) ha definito régle negative de la perlaboration, ossia “il dovere etico dell’analista … di non sapere tutto questo dove condurrà”. Condividendo l’invito a mettere a lavoro un’analogia che la traduzione inglese di Durcharbeiten – working-through- sollecita (cf. Mahon, 2004), si potrebbe dire che più che attendersi dal paziente la disposizione (“the willing”) di occuparsi “attivamente” del proprio cambiamento anche al di fuori della seduta (: “il paziente deve essere disposto a svolgere parte del lavoro analitico al di fuori dell’ora”; Greenson, in Schmale 1966, 177), l’osservanza di questa regola negativa del rielaborare mira a creare le condizioni per vivere il workingthrough– come un playing.

Al di qua di ciò che l’accostamento al playing può suggerire, questa attitudine, questa disposizione dell’analista a lasciarsi modificare che lo stesso Scarfone (cf. 1994, 2019) ha ripetutamente definito mutuando da Lyotard (1988) il termine di passibilité, crea i presupposti per una analoga condizione del paziente, che potrà così a sua volta tollerare l’azione di processi che lo modificano, a partire da quelli che sperimenta per effetto della situazione analitica, come lo stesso rielaborare.

5.

Questo legame tra rielaborare e superamento della predominanza dell’attività dell’analista sembra essere non solo piuttosto stretto, ma anche di lunga durata; un’impressione che il confronto con i diversi articoli che Lawrence Friedman ha nel tempo dedicato all’insieme degli “scritti tecnici” freudiani e agli scritti tecnici come “insieme” può confermare[11]. A centodieci anni di distanza, si può ancora dire che è in questo legame che risiedono le ragioni per cui il “Freud’s concept of working-through was ‘unwelcome’ from the analysts” (Friedman 2014, 23). Sono ragioni che esprimono l’atteggiamento difensivo attivato dai fantasmi risvegliati dalla messa in secondo piano di un’azione interpretativa e “sapiente” in grado di nutrire il desiderio di parametri “positivi” di rendimento. Questa relativizzazione “copernicana” (cf. Laplanche 1992) porta con sé la conferma della necessità di un tempo secondo, terzo, quarto, comunque di un tempo sempre doverosamente “dopo” rispetto a quello del corpo a corpo tra l’Io del paziente e le propaggini dell’inconscio zeitlos: Si deve lasciare all’ammalato il tempo di immergersi nella resistenza a lui ignota…” (Freud 1914; mio il corsivo).

L’attualità del rielaborare sta innanzitutto in questa enfasi sul tempo: “un modo specifico di trattare il tempo” (Hock, Scarfone, 2024, 10),a partire dal tempo necessario al paziente per immergersi nelle resistenze che saranno sempre più, come visto, le resistenze dell’inconscio. L’attualità dello scritto che ne segnala il ruolo alla comunità psicoanalitica sta nel suo contribuire in maniera decisiva alla progettazione di uno spazio analitico fatto di poca presenza agita – che è necessariamente presenza della persona dell’analista – e di molta disposizione ad un ascolto aperto a ciò che essendo anacronistico rende potenzialmente reminiscente il presente (Fédida 1985). In altre parole (parole che nella loro alterità ci aiutano a capire), un ascolto aperto a quella dimensione dell’esperienza che Nietzsche (1874) ha definito unzeitgemässe -intempestiva, inattuale- e che Deleuze (in Deleuze e Guattari, 1991) ha saputo delineare così: “…blocchi d’infanzia che sono dei divenire-bambino del presente…”[12]. Questi blocchi, che il rielaborare fa entrare dentro il cantiere della dinamica transferale, la psicoanalisi, disciplina dell’inattuale perché disciplina inattuale, contribuisce a ricollocarli in un proprio specifico modo.

Se il rielaborare rientra nella “eredità di Freud per la psicoanalisi del futuro” (Riolo, 2008) è proprio perché esso mette in primo piano lo “specifico senso operativo del metodo analitico”. Insieme a Riolo (2008, 9), possiamo pensare questa specificità come “un sistema di trasformazione, in cui i processi somato-psichici inconsci (rimossi o non rimossi) diventano rappresentabili” (ibidem). Un sistema che non altera però le caratteristiche proprie alla consistenza della realtà psichica e che fa i conti con la latenza e l’après coup; è per questo che, pur restando “sistema”, può essere altrettanto appropriatamente pensato come una “traversata opaca”.

Per Donnet (ispiratore della formula precedente: 2000, p. 115) c’è infatti un legame ancora più singolare tra rielaborare e futuro: non solo esso connota il fare i conti con la latenza implicata dall’après-coup, ma rimanda ad un “vagabondaggio psichico, ad una erranza necessaria … all’apertura verso l’ignoto, insomma all’indeterminazione. Legando e sciogliendo il passato e il presente, il rielaborare rende possibile la proiezione nell’avvenire” (113). Un rielaborare che però, continua Donnet, mostrava la sua insufficienza di pari passo con l’apparire della “dark side” di quell’agieren ripetitivo che nel 1914 dava all’esperienza vissuta del/nel transfert il suo valore insostituibile. È il rielaborare inteso nel suo senso originario di lavorare e rilavorare le resistenze –“durch und durch” che può far compiere quel movimento che svolge funzione terapeutica: dal presente al passato, dall’atemporale dell’inconscio che agisce alla costruzione cronologica che attribuisce un senso, dal fare al disfare e di nuovo al fare, come nell’attesa di Penelope (cfr. Contardi 2025).

L’annotazione di Donnet sembra fare contrasto con un preciso richiamo di Friedman (2014, 17): “il termine Durcharbeiten è espressamente coniato per riferirsi a un’azione su una resistenza, perché il ‘durch’ raffigura un viaggio accidentato sotto l’assalto di una controffensiva. Si può lavorare su molte cose, ma, nell’uso fatto qui del termine, non c’è null’altro attraverso cui si possa lavorare se non una resistenza”.

Questa attività analizzante del paziente (ivi, p. 20) va però preparata attraverso reciproci rimandi elaborativi, in cui ciò che arriva al paziente (analizzante) dall’analista non è tanto la capacità di quest’ultimo di capire e/o interpretare, quanto il legame che c’è tra questa capacità e il suo (dell’analista) essersi lasciato modificare dal proprio inconscio, che ha “recepito” le propaggini di quello del paziente, il che a mio avviso equivale al risultato della rielaborazione delle proprie resistenze (Lacan 1978, p. 267). È solo nella misura in cui sorge da questo comune terreno di passibilità che il rielaborare del paziente sulle resistenze può poi a sua volta far sedimentare la disposizione a far tollerare anche se stesso ed integrare così, progressivamente, “l’esperienza radicalmente singolare della propria realtà psichica” (Donnet).

È leggendole da questa prospettiva che le osservazioni di Ekstein (1965, 58) su “the philosophy of ending” o ancora di più di Sedat (2019, 39) sul rapporto tra Durcharbeiten e progressione del trattamento analitico appaiono pertinenti: nel suo far risaltare la relativizzazione dell’attività dell’analista indagatore/interprete, il rielaborare permette di uscire dalla problematica analisi finita/infinita”. Se l’analisi ha una fine, se questa è la fine della dipendenza dall’altro, dagli altri, del paziente dall’analista e dell’analista dal paziente (ibidem), è anche grazie alla rielaborazione, il cui essere stato esperienza doppia e differente, ma condivisa, determina forse quella “dimensione liminale”, “modalità di funzionamento psichico” potenzialmente conclusiva di cui hanno saputo scrivere Ferraro e Garella (2001, 136-137).

Lungi dall’essere un reperto della cura classica, Erinnern, Wiederholen und Durcharbeiten introdurrebbe così a quelle che oggi, seguendo Scarfone, si possono considerare come le risorse della “passività” della situazione analitica, tanto dal lato del paziente, quanto da quello dell’analista. Essere in analisi, essere rielaborati.

L “’attualità” del Durcharbeiten resta dunque tutta nella sua inattualità: una condizione di elaborazione ripetutamente “vissuta”, “subita” dall’analista e dall’analizzante, una condizione che li fa, per così dire, entrambi pazienti rispetto alla scansione del tempo-per-comprendere (Lacan 1975, 352), o meglio alla scansionedi un ritmo necessariamente sempre in ritardo rispetto alle rappresentazioni della coscienza (ritrovo qui quanto segnalato come proprio progetto di ricerca da Francesco Napolitano). Peraltro, è lavorando attraverso e dentro questa temporalità che, come si diceva una volta con qualche ragione, il transfert “libidinizza” la ripetizione (Lagache 1951).

Libidinizzare la ripetizione; una pretesa che solo la pratica analitica può avanzare, fondata come essa è su di un metodo che tenta incessantemente di restare in sintonia con la scansione “nach”, posteriore, in due tempi, che qualifica la vita psichica umana, attraversata, dall’origine, dal sessuale infantile. Il tempo dell’analisi non può allora che coincidere con quello del rielaborare: un “riverberation time” (Briksted Breen 2009, 2012), tempo riflesso, tempo in ritardo, tempo ripetuto, tempo subìto capace di preparare costruzioni che diventeranno a loro volta pienamente riconoscibili come tali solo dopo. L’inattualità -anche “passibile”- del rielaborare è l’inattualità della stessa psicoanalisi.

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[1] Questo testo riprende -e rielabora– un lavoro scritto nel 2020 e pubblicato nel 2024 in On Freud’s “Remembering, Repeating and working-through” (Routledge), volume curato da U. Hock e D. Scarfone. Una sua prima versione è stata presentata al Centro Napoletano di Psicoanalisi (serata scientifica del 28 febbraio 2025, discussant S. Lombardi).

[2] A fianco della teoria del sogno (1914, Per la storia del movimento psicoanalitico), del complesso edipico (cfr. nota ai Tre Saggi aggiunta nel 1920) e dell’inconscio (“il primo scibbolet della psicoanalisi”: L’Io e l’Es, 1922).

[3] Una considerazione sulla scelta lessicale operata conservando la tradizione “rielaborare, rielaborazione”. Diversi commentatori-traduttori insistono su due connotazioni del tipo di lavoro cui l’espressione durcharbeiten rimanda: costanza e approfondimento. “Rielaborare”, scelta consolidata nella traduzione italiana, porta con sé una difficoltà legata alla propria ampia area semantica, in cui rientra anche il poter alludere a un ritorno a qualcosa di già elaborato, potenzialmente anche vissuto come concluso. Di contro, la forma verbale sostantivata tedesca allude con nettezza a un lavoro non concluso e in cerca di approfondimento. A sfavore della traduzione con “rielaborare” giocherebbe poi anche l’osservazione che in altri scritti (come quello sui “Ricordi di copertura” -GW I p. 552- o le “Minute”) compare il termine Überarbeitung, reso con rielaborazione. Nel lavoro ho tuttavia scelto di conservare la traduzione corrente – non adottando ad es. il neologismo perlaborazione, mutuato dalla traduzione francese dell’équipe Laplanche- per non appesantire ulteriormente la lettura con la necessità di operare un ulteriore spostamento di attenzione (“Perlaborazione? Ah, sì, rielaborazione”).

[4] Nell’analisi lessicologica condotta sui risultati di una ricerca sulla letteratura dedicata al transfert (in Galiani, Napolitano, 2016), il rapporto tra la presenza del termine “Wiederholen” e quello dell’espressione “Durcharbeiten” (e delle sue differenti traduzioni equivalenti) è circa di 10 a 1.

[5] Un approfondimento del tema dovrebbe passare anche per il confronto con le idee di Enzo Paci, in particolare con quanto da lui scritto in merito in un saggio del 1954, “Ripetizione ripresa e rinascita in Kierkegaard”, in Giornale Critico Della Filosofia Italiana, 8, 313.

[6] Ritorno, 1971: “Sono tornato là / dove non ero mai stato. / Nulla, da come non fu, è mutato. / Sul tavolo (sull’incerato / a quadretti) ammezzato / ho ritrovato il bicchiere / mai riempito. Tutto / è ancora rimasto quale / mai l’avevo lasciato”.

[7] Può essere utile ricordare i principali significati della preposizione durch: 1. attraverso, per; 2. Durante; 3. per mezzo di,grazie a; 4. in seguito a. Seguendo il suggerimento di un traduttore, segnalo una locuzione di probabile interesse: ich arbeite durch und durch…, “lavoro molto, a fondo su-con qualcosa”.

[8] Prima del 1914 Freud impiega il sostantivo Durcharbeitung negli Studien über Hysterie a proposito del ricordare (cf. p.e. Bouchard 2000; Amigorena – Rosenberg 2008).

[9] Per Montagnier (pp. 1108-1109) i segni che consentono di parlare di Durcharbeiten a proposito del suo lavoro con un analizzante “al limite” sono: l’apparizione di ricordi-schermo; la presenza di un sogno; l’apparizione di fantasmi; il passaggio dalla frammentazione delle rappresentazioni, degli affetti e del pensiero, alla possibilità di trasformazioni in cui il presente ha un avvenire che parla anche del passato; il raggiungimento di un punto di integrazione da parte dei moti pulsionali narcisistici.

[10] René Char, Ma feuille vineuse, in Chants de la Balandrane, 1975-1977.

[11] Devo l’apprezzamento del valore dell’opera di Friedman (1991, 2014) sugli scritti tecnici a Francesco Napolitano che, per parte sua, porta avanti una ricerca delle radici del Durcharbeiten nel “Progetto”. Questa ricerca passa per un approfondimento delle due rappresentazioni (una cosciente, l’altra rimossa) effetto dell’interpretazione e oggetto di tentativi di connessione mediante elaborazione il cui risultato, sempre in ritardo, consiste nell’apertura di nuove vie del pensiero (Napolitano 2020 e 2024; Napolitano 2017).

[12]“…blocs d’enfance qui sont des devenirs enfant du présent”. Non sta a me dire quanto sia complessa la questione della traduzione, nelle differenti lingue, dell’aggettivo “unzeitgemässe” e del termine Unzeitgemässheit da esso derivato. Giorgio Colli e Mazzino Montinari, i curatori dell’edizione tedesca delle opere di Nietzsche, nella traduzione italiana optano per inattuale e inattualità.

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