La Cura

Identità del lavoratore e valore nel lavoro nella società di oggi. La questione dell’identità di S.Thanopulos, Bari 18/10/2024

22/10/24
Identità del lavoratore e valore nel lavoro nella società di oggi. La questione dell’identità di S.Thanopulos

Fernand Léger, 1920

Parole Chiave: Psicoanalisi, Identità, Soggetto, Lavoro, Democrazia

Relazione letta al Convegno “Lavoro Valore Identità” del Movimento per la Giustizia svoltosi a Bari il 18 ottobre 2024

Identità del lavoratore e valore nel lavoro nella società di oggi. La questione dell’identità

S. Thanopulos

Francesco Remotti, uno dei massimi teorici italiani dell’identità, ne ha dato questa definizione: “L’identità di una cosa è ciò che di essa permane nel tempo e ciò che le è proprio e non è condivisibile con altre cose”. La definizione è impeccabile sul piano descrittivo se consideriamo la cosa in sé, ma diventa insufficiente se la consideriamo all’interno delle sue relazioni. Perché l’identità di una cosa è sempre il prodotto del suo rapporto con le altre cose del mondo. Questo rapporto tra le cose esiste solo all’interno di una reciproca determinazione così che ogni cosa è sempre autodeterminata e eterodeterminata e la sua permanenza identitaria nel tempo è una proprietà che vive sempre all’interno di un sistema di condivisioni.  

L’importanza della co-determinazione dell’identità è molto più evidente nelle relazioni umane (incluse le relazioni con gli oggetti culturali, che le estendono oltre i loro confini spazio-temporali e i rapporti interpersonali).[1] Più la nostra rete di relazioni e estesa e ricca di scambi più la nostra identità è complessa e significativa per noi e per gli altri. Ci sono identità ricche e profonde ed identità povere e piatte.

L’identità non corrisponde a ciò che è immutabile in noi ma alla persistenza, piuttosto che alla permanenza, del nostro originale modo di essere (la declinazione personale dell’umano in noi). L’immutabile produce assuefazione nel campo del desiderio e appiattimento dell’espressività e della creatività soggettiva che sono il fondamento vero dell’identità. Nulla permane immutabile e non condivisibile con ciò che gli è “altro” nel tempo. Ogni cosa è significativa se ci trasforma e si trasforma e l’identità (la sua come la nostra) sta nel principio della continuità nella discontinuità: ciò che nella trasformazione e attraverso la trasformazione persiste, al tempo stesso uguale e diverso da ciò che era prima. Siamo ciò che al tempo stesso siamo e non siamo, cioè costantemente eccentrici al nostro centro gravità, perennemente spostati, inclinati verso l’altro.   

Fin dal principio[2], e per tutta la vita, il nostro senso di identità si co-costituisce con l’altro. Nell’incontro con un vino, con il corpo dell’amante, con un brano musicale, la nostra identità come “amatori”, è co-costituta insieme all’identità dell’oggetto desiderato/amato. Ciò è in sintonia con il fatto che il nostro senso di identità è inseparabile dal processo delle identificazioni che fa sì che nel nostro modo di essere abitino altri modi di essere. L’identificazione con l’altro è la condizione necessaria perché possiamo relazionarsi con la sua differenza. Senza la differenza tra noi è l’altro si spegnerebbe la vita, ma senza l’identificazione con lui/lei non sarebbe possibile alcuna relazione. Identità, differenza, identificazione, intesa tra le differenze sono indissociabili tra di loro.

L’identità nel suo significato più autentico è presenza in sé nell’essere presenti nella relazione con l’altro, vicina, nel suo nucleo centrale, al tratto creativo, al “gusto”, al gesto in movimento di un artista che ne costituisce la “firma”. Nel tempo essa non permane com’era. Simile in questo a Notre Dame, al Colosseo, a Partenone non resta immobile, inerte nel tempo ma persiste nel suo perpetuo divenire.

L’identità come “senso di appartenenza” definisce il privilegio accordato a un’area di relazioni perché la limitazione consente una loro maggiore profondità e significazione. Tuttavia, l’appartenenza perde il suo significato se non si associa alla libertà di essere altro (che amplia lo spazio dell’esplorazione della vita). Non si può essere “italiani” senza essere “cittadini del mondo” (parte della comunità umana) e viceversa non si può essere “cittadini del mondo” senza essere “italiani” (parte di uno spazio conviviale, storico-geografico, che rende più definite le relazioni). Diversamente si perde il senso della co-appartenenza: l’adesione a un sistema di relazioni paritarie che include ciò che, al tempo stesso, esclude. Essere solo “italiani” o essere solo “cittadini del mondo” impoverisce ugualmente la qualità degli scambi umani e crea un sistema di relazioni omologanti che annulla le identità e le differenze.

Le liberazioni nazionali del passato hanno promosso uno spirito di aggregazione che ha costituito nuove comunità tra loro dialoganti, anche attraverso dei conflitti, collocate in uno spazio di pluralismo culturale, sociale e politico capace di aumentare il volume e la qualità degli scambi umani. Hanno emancipato i popoli dal potere conglobante delle grandi entità imperiali. I sovranismi di oggi hanno una funzione disgregante, spingono verso il ritiro dalle relazioni con gli altri. Si oppongono all’aggregazione delle nazioni in entità sovranazionali plurali che allargano lo spazio della convivialità tra i cittadini, collocandolo nello spazio plurale di una convivialità tra i popoli. Il sovranismo di oggi crea identità fittizie non relazionate tra loro, riassorbite in una massa di dis-identità globalizzate che si riproducono in tutte le parti del mondo uguali l’una all’altra nei loro riduttivi schemi mentali-comportamentali.[3]

L’identità e valore nel lavoro

L’identità del lavoratore sta in primo luogo nel desiderio, coinvolgimento personale che mette nella produzione di un oggetto e nell’appagamento che ricava dal costruire qualcosa di funzionale e utile alla vita. Qualcosa di bello per il suo stare tra le cose del mondo in modo significativo e per la qualità che esprime: l’attenzione e la cura con cui è stato fatto e l’attenzione e la cura che il suo uso consente e richiede.

L’identità del lavoratore sta, in secondo luogo, nella condivisione del lavoro comune che produce con gli altri, anche quando il lavoro è meccanico e ripetitivo, se la produzione è il frutto di una collaborazione pensante e di un’assunzione comune di responsabilità: cosa produciamo, perché la produciamo, come possiamo migliorarla, quale è il suo valore d’uso per la comunità. Dell’identità fa parte il conflitto con i proprietari dei mezzi di produzione che rivendica non solo migliori condizioni lavorative e retribuzioni, ma anche la prospettiva della giustizia sociale, l’interesse collettivo che interroga e deve condizionare l’interesse privato. Indispensabile per la costituzione identitaria del lavoratore è lo spazio della convivialità nei luoghi di lavoro che è sede di svago, di incontro degli sguardi, delle emozioni, degli affetti, pensieri ma anche di fermenti culturali di allargamento del significato del lavoro come strumento di espressione individuale e collettiva ben al di là delle mere esigenze produttive.

La convivialità, il luogo dove si sposano l’identità del lavoratore e il valore del lavoro e del suo prodotto, rimanda necessariamente al tempo libero. Il tempo libero si intreccia in modo invisibile, ma decisivo, con il tempo lineare (kairòs) dell’attività lavorativa: è il tempo non lineare della sospensione del giudizio (epochè), dell’azione inoperosa, sospesa nella sua effettività, che mentre si compie non si chiude nel suo risultato, ma resta incompiuta aperta ad altre evoluzioni, ad altri significati, ad altre connessioni.  L’azione inoperosa si espande oltre i suoi confini spazio-temporali, si incontra con desideri, emozioni, pensieri e azioni che vengono da altri luoghi, dal passato e dal futuro, e crea lo spazio in cui davvero ci sentiamo vivi e significativi. È presente, sotto forma di “gioco” (l’intesa, libera da calcoli, tra le differenze) in tutte le dimensioni della vita ed è indissociabile dal lavoro nella concreta realizzazione che rende creativo.

Il tempo libero ha la sua dimora privilegiata nel tempo di vacanza dagli impegni, separato dal tempo “socialmente utile”. Quando ci si prende cura dei propri affetti, delle proprie amicizie e dei propri cari, si fa l’amore, si legge un libro, si sente la musica, si va al teatro, al museo o al cinema, si fa sport o quando si gode semplicemente del “dolce far nulla”: oziare chiacchierando con gli amici, godendo di un panorama, del mare, dei propri pensieri fluttuanti, di una brezza.

La dimensione del tempo libero, dentro e fuori l’attività lavorativa, la espande al di là dei suoi confini spazio-temporali, significandola in modo più profondo e ampio. Qui il lavoro può uscire dalla condizione del poiein, il fare che ha come suo scopo la produzione di manufatti, e diventare prattein, il fare che ha come suo scopo la vita come opera dell’uomo.

Il valore del lavoro sta nella sua capacità di coniugare il bisogno, primariamente psichico, di abitare il mondo in modo sufficientemente stabile e sicuro e il desiderio di trasformare e espandere la sua materia (in tutte le sue forme animate e inanimate, materiali e culturali) in modo che consente di appropriarsene come strumento di piacere e di soddisfazione profonda e di amarla. Il lavoro usa l’invenzione e la scoperta per legare in modo tra di loro in modo piacevole la necessità e il caso, il previsto e l’inatteso.[4]

Il piacere del vivere che anima il lavoro non alienato, piacere che dialoga con il travaglio creativo e con il lutto delle certezze[5], si trasmette dalla realizzazione di un prodotto (materiale, culturale, artistico) all’uso che se ne fa. Il valore del lavoro, che in parte si riflette nel suo prodotto, in parte viene dal viaggio che la meta produttiva (Itaca) ha reso possibile, è profondamente legato al valore che produce il suo uso. Un oggetto prodotto da un lavoro che aliena il lavoratore, non è mai usato, indipendentemente dalla qualità della sua costruzione, in modo soggettivamente significativo, diventa un oggetto di consumo. A questa deriva che incombe sul nostro futuro non possiamo dirci estranei. Un inquinamento in gran parte invisibile incombe su di noi: un enorme quantità di beni consumati distrattamente ma poco usati veramente.  

La società attuale

Comunque la consideriamo la società attuale ci appare come il prodotto di una globalizzazione che non è andata verso un’apertura dei confini e verso l’espansione della libertà e della democrazia, ma è si è spinta, invece, nella direzione dell’autoritarismo e del totalitarismo e della conformazione degli scambi a un’ineguaglianza diventata strutturale. Siamo testimoni di una concentrazione della ricchezza enorme e di un’“angoscia” espansiva della produzione e del consumo dei beni, entrambe dissociate dai grandi problemi che ci attanagliano e incompatibili con ogni tentativo di farsene carico.  È temibile il rapporto parassitario che il potere economico ha stabilito con questi problemi: il degrado ambientale, le pandemie, la dissoluzione contemporanea dell’occupazione stabile e del tempo libero, la desolazione delle relazioni a partire da quelle erotiche. Li sfrutta per proporre soluzioni sempre nuove, destinate a non risolvere nulla, ma capaci di creare la mentalità di un continuo adattamento al peggio diventato silenziosamente il motore dello sviluppo produttivo. Così di emergenza in emergenza conviviamo con la distruzione progressiva del nostro ecosistema materiale, socioculturale e psichico.  

Viviamo in un’eccezione perenne non solo al diritto, ma anche, più significativamente, alla qualità della vita[6]. Ciò implica anche un’eccezione alla politica (tagliata di fatto fuori dal processo di globalizzazione). La classe politica ha perso la sua tradizionale funzione di mediazione tra la necessità materiale e il desiderio, la forza che crea un mondo di persone emotivamente integre in grado di vivere intensamente i loro sentimenti, di investire eroticamente, affettivamente e mentalmente le loro relazioni personali, lavorative, culturali e politiche, di gioire di questo investimento e di godere delle sue realizzazioni.

Siamo una società del bisogno che persegue l’eliminazione delle tensioni e del dolore, in cui si vive (autoinganno catastrofico) per non soffrire. Necessariamente la performance e la sottomissione alle procedure tecniche eclissano il lavoro creativo e il pensiero critico. Prende forma una società i cui valori principali sono la prestazione e l’obbedienza e in cui la sicurezza (il funzionamento degli esseri umani e del loro sistema di vita secondo schemi prevedibili e riproducibili) sostituiscono la sorpresa, la meraviglia e la scoperta.

Scrivevo anni fa con la speranza di essere smentito:

“Cos’è il lavoro oggi? Fondamento della democrazia, diritto inalienabile, realizzazione della creatività umana? (…) Lavorare oggi è, nella grande maggioranza dei casi, un privilegio mal retribuito e precario a cui aggrapparsi con tutte le proprie forze. Espropria gran parte della vita privata e dello spazio degli affetti e ha come suo ideale l’automazione umana. Lasciato nella corsa folle verso la crescente spersonalizzazione dei suoi processi, il lavoro arriverebbe, prima o poi, ad avere come unica sua ragione la produzione di lavoratori/automi e dell’occorrente per tenerli funzionanti, in piedi. (…) L’alienazione del lavoro oggi è differente e ben più temibile di quella in cui il lavoratore era parte della catena di montaggio, un ingranaggio della macchina produttiva, ma pur sempre fatto di materia umana. Al posto dell’incatenamento dell’uomo alla macchina, ci troviamo l’assimilazione, interiorizzazione della macchina da parte dell’uomo.”

La società performante ha il suo alleato più fidato in un dispositivo tecnologico impressionante e eticamente neutrale[7]. Costituito come paradigma del vivere, e perciò dotato di “forza di legge”, è un meccanismo impersonale capace di modalità molto sofisticate di calcolo ma schematico e ripetitivo nella sua impostazione. Trasforma gli esseri umani in monadi indifferenziate e assoggetta tutti dominatori e dominati alla sua logica autoreferenziale, alienando di più i primi dei secondi.

Se il lavoro diventa prestazione pura, finalizzata alla produzione di strumenti eccitanti o calmanti, perde anche il suo valore marxiano all’interno degli scambi quantitativi e il suo “prezzo” si eclissa dalle dinamiche del plusvalore e del mercato e diventa oggetto dell’arbitrio del più forte. Più precisamente dell’arbitrio dell’algoritmo che non agisce, né potrebbe agire, secondo giustizia, perché è puro calcolo. Emancipato dal suo unico padrone legittimo, il pensiero affettivo, il pensiero critico fondato sul coinvolgimento profondo con gli altri e i sentimenti, si è autonomizzato anche da quello illegittimo, il potere oligarchico, e si è messo al servizio di sé stesso.  Così il lavoro sta diventando il campo privilegiato della massificazione e dissoluzione delle identità e l’aggressività, la paranoia, l’’impulsività e la violenza cieca diventano fattori coesivi delle folle. Compattano l’assetto psichico e arginano l’effetto depressivo di una vita grama, creando un’impressione di solidità ingannevole, ma, ahimè, rassicurante. Producono un’esistenza opaca nella percezione di sé e opaca nel suo sguardo verso ciò che la circonda.      


[1] La nostra materia psicocorporea è fatta di elementi potenziali che condividiamo con gli altri. La differenza che ci costituisce come individualità la fa la loro combinazione in noi che favorisce di più l’espressione di alcuni elementi piuttosto che di altri e crea nell’insieme la nostra “cifra” personale (nessuno è uguale a un altro). Questa combinazione è profondamente relazionale, prende forma nell’intesa delle differenze nostre e degli altri che ci consente di essere vivi emotivamente e mentalmente e desideranti.

[2] All’inizio della nostra vita è la trasformazione reciproca sensuale delle materie psicocorporee di noi e di nostra madre che crea il senso che noi esistiamo e ciò che ci circonda esiste.

[3] Il sovranismo produce sudditi del potere sovranazionale del più forte

[4] Pilastro della sublimazione (l’estensione del piacere dei sensi al di là della contiguità sensoriale e della congiunzione dei corpi), il lavoro ha un vero significato solo se mantiene vivo dentro di sé il suo nucleo sensuale.

[5] L’esito mai scontato della sperimentazione produttiva.

[6] L’espressione libera e significativa dei nostri desideri, sentimenti e pensieri e la creazione di spazi in cui possono respirare, vivere ed essere appagati.

[7] Da nostro servitore sta diventando il padrone della nostra vita e della sua organizzazione

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