La Cura

Gli sviluppi del pensiero winnicottiano. P. Ferri

25/01/22
Gli sviluppi del pensiero winnicottiano. Paola Ferri

SABINE MORITZ 2013

Gli sviluppi del pensiero winnicottiano

Paola Ferri

parole chiave: transfert psicosomatico, transizionalità, creazione dell’oggetto

Donald W. Winnicott (1954) fu come sappiamo, un analista che diede molta importanza all’ambiente esterno, ( rappresentato in primo luogo dalla madre) come causa delle sofferenze dei pazienti; e fu un analista-ambiente che impara ad ascoltare il suo controtransfert psicosomatico.

Il bambino come il paziente deve poter sperimentare l’illusione di aver creato l’oggetto, di aver creato il seno. Questa è la base di qualsiasi esperienza creativa, ed è la base del concetto di transizionalità.

Tutto ciò ha a che fare con il senso di avere un’Identità, ossia con il senso di Esistere. L’analista deve avere la capacità di farsi usare dal paziente, deve diventare una madre-ambiente sufficientemente buona, come quella si presume il paziente non abbia avuto. Se l’ambiente è stato invadente traumatizzante o deprivante, il bambino non potrà che sviluppare un Falso Sé, nato dalla rottura del Senso di continuità dell’esistenza.

Ne deriva che nell’esperienza analitica il meccanismo primario non è quello della proiezione, ma della creazione. L’oggetto analista deve essere ricreato là dove è sempre stato, proprio come il seno.

In una prima fase l’analista deve essere accogliente, a disposizione del paziente, favorente la linea di sviluppo dell’Essere.

L’oggetto ( e quindi l’analista) rimane vitale proprio perché continuamente distrutto, e ciò nonostante capace di resistere. Solo così può essere finalmente usato.

E’ importante sottolineare che negli sviluppi del pensiero di Winnicott, grazie anche alla ricerca infantile, siamo portati a vedere l’autorità dell’analista formarsi dall’influenza reciproca dei due soggetti nella coppia. Nel modello relazionale la cooperazione e il riconoscimento dell’altro divengono le principali radici dello sviluppo morale.

Gli sviluppi del pensiero Winnicottiano sono avvenuti in Italia attraverso Eugenio e Renata Gaddini, Adriano Giannotti, Andrea Giannakoulas, Mario Bertolini e Francesca Neri. Questi due ultimi autori sono stati primari del reparto Npi di Monza, che ha una matrice psicodinamica importante.

La declinazione attraverso la clinica di un pensiero che parta dai bambini e dagli adolescenti,  risulta strumento utile nell’analisi degli adulti a contatto con gli stati mentali più arcaici: nelle opere dei maggiori autori italiani di riferimento winnicottiano, è evidente la influenza di autori anglosassoni come i coniugi Laufer e Marion Milner.

Thomas H. Ogden (1993) proseguendo su questa stessa strada scrive che la psicoanalisi può essere descritta come un processo psicologico-interpersonale  inteso ad ampliare le capacità dell’analizzando e dell’analista  di essere vivi.

Nel veder giocare il bambino e il genitore si può comprendere che le cure adeguate emergono spontaneamente dalla totale immersione nel fluire della comune esperienza corporea: tale schema può essere riproposto nell’esperienza di cura.

Per Marion Milner la concentrazione  nel proprio  corpo fa parte delle possibilità terapeutiche di un analista .

In un lavoro del 1960 scrive:“La  concentrazione nel corpo  si riferisce a uno stato in cui la diretta consapevolezza propriocettiva del corpo-sé passa dallo sfondo preconscio al primo piano della coscienza. Questa concentrazione , nonostante possa apparire una distrazione, sembra facilitare il paziente a far emergere il suo materiale.”

La possibilità che l’analista entri nei pensieri e nelle circostanze della vita dei pazienti sentendoli paragonabili a sé, è dunque uno snodo centrale della sua teoria della cura e degli scopi della psicoanalisi.

Ella formula questi concetti e la loro concatenazione precisa con spontaneità semplice, risultato di un lavoro creativo del tutto speciale che ha fatto su di sé, sui suoi pazienti  e insieme con loro. (Bertolini-Neri, 2010).

Prima del contributo di Winnicott, la reciprocità fra analista e paziente non faceva parte degli scopi della psicoanalisi, né di una teoria della cura. Il lavoro “sul paziente” prevaleva rispetto a quello “insieme al paziente “ e  il controtransfert era effettivamente soprattutto temuto come un inconveniente, anche in riferimento al primo approccio che Freud ebbe con questo assetto psichico dell’analista al lavoro.

Nel 1960 Sylvia Payne presentò un articolo sul tema “Che cosa ci aspettiamo da un trattamento psicoanalitico” e M. Milner nel commentarlo scrive.” Ciò che ci aspettiamo è un ampliamento della coscienza : il consolidamento delle capacità di introspezione determina un cambiamento qualitativo sia in chi osserva sia in chi è osservato …fino a riconoscere nella conoscenza di se stesso l’esistenza di una lacuna … un pezzetto di nulla …un vuoto interiore…che viene poi riempito da un’altra coscienza , da un’altra persona.” (Milner, 1960).

Winnicott (1971) ritiene che l’obbiettivo centrale del processo analitico sia di espandere la capacità dell’analista e dell’analizzando e di creare un luogo in cui vivere, in un’area dell’esperienza che sta tra la fantasia e la realtà.

T. Ogden (1993) scrive che la psicoanalisi può essere descritta come un processo psicologico-interpersonale  inteso ad ampliare le capacità dell’analizzando e dell’analista  ad essere vivo come essere umano. Lo snodo fondamentale di questo processo sta nell’osservazione interiore, nell’esperienza interiore sia dell’analizzando che dell’analista, ognuno nella propria privatezza: l’uso di questo materiale da parte dell’uno e dell’altro favorisce l’emergenza di una esperienza comune che è il luogo in cui si può sviluppare il processo di cura.

Quello che è in gioco sta fra unione e separazione e in questo senso va nella direzione che Freud ci ha dato con il gioco del rocchetto. Scrive Freud (1920) : “ Il piacere che il gioco comporta…..potrebbe essere ricondotto a una pulsione di appropriazione ……all’inizio il bambino era stato passivo , aveva subito l’esperienza; ora invece ripetendo l’esperienza che pure era stata spiacevole,  il bambino assume una parte attiva. Il bambino si appropria cioè del genitore.”

Quando il gioco funziona il bambino è portato a concludere che ciò che esiste nella sua realtà interna è ritrovabile all’esterno nella forma di una illusione condivisa col genitore o con il/la terapeuta.

Secondo Mario Bertolini il bambino di M.Milner e di Winnicott può dire “ Non posso sentire che siamo separati senza immaginare che siamo uniti, ma anche non posso immaginare che siamo uniti senza immaginare che siamo separati”. (2010)

Se viene a mancare lo sviluppo potenziale verso l’area transizionale dell’esperienza, la realtà esterna e quella interna tendono a essere reciprocamente sostituibili e ne derivano quadri sindromici vari che vanno dalla psicosi, allo sviluppo borderline  alla perversione , alla alienazione asintomatica.

Nel gioco la coerenza interna è fra lo psichesoma dell’uno e dell’altro: il soma porta un contributo altrettanto fondamentale di quello che porta la psiche.

Qualcosa di molto simile tende ad avvenire in un rapporto abbastanza buono tra due persone in analisi. Il  gesto psicofisico che può dar luogo allo sviluppo del transfert sta disperso negli innumerevoli episodi di cui si costituisce l’ora analitica e negli innumerevoli oggetti dello stanza analitica a cui il paziente si dedica, primo fra tutti l’analista .

L’analista li accoglie  come episodi che possono diventare significativi ed evocativi di qualche aspetto di sé. A questo punto diventano esperienze significative sia per l’analista che per il paziente.

Si costruisce il campo di lavoro reciprocamente, e il concetto di identificazione proiettiva lascia il posto alla comunicazione reciproca del gesto psico-somatico.

L’analista non deve compiere un evitamento in termini fobici, non deve riproiettare nel paziente il suo bisogno di controllo, ma deve saper tenere dentro di sé gli avvertimenti psicofisici e quanto elaborato attraverso il gioco.

André Green nel lavoro intitolato “La posizione fobica centrale”  (2000) descrive la difesa di pazienti borderline che, appunto per una posizione fobica, evitano un vero rapporto con l’analista.

Per l’analista la fuga nell’intelletto o nell’ideale professionale rappresenta un controinvestimento rischioso rispetto all’ansietà collegata alla consapevolezza. L’effetto consolatorio riaspetto all’ansia provocata dal paziente, può consistere nel liberarsi e nell’imporre all’altro ciò che ci occupa eccessivamente ( Green 2000).

Un buon assetto analitico,  pare ovviamente più favorevole alle sorprese e alle trasformazioni nel senso che ci indica Wilfred Bion.

L’estetica, ci ricordano Bertolini e Neri, ha origine dalla parola greca αἴσθησις, che significa “sensazione”, e dal verbo αἰσθάνομαι, che significa “percepire attraverso la mediazione del senso”;  essa trasforma le cose fisiche e le deformazioni somatiche nel desiderio di poterle vivere e pensare in un registro differente.

All’inizio della vita, il corpo del bambino dialoga con il corpo della madre:  attraverso, dice De Ajuriaguerra ( 1964) il tono di entrambi, la tensione muscolare del bambino incontra le braccia, la pelle, le mani (holding-handling) della madre.

Tuttavia deformazioni, traumi, lutti possono interferire nello scambio affettivo, diventando la struttura di un nucleo del sé inconscio iscritto nell’attività percettiva, muscolare, cinestesica, nella pelle, nelle mucose, negli organi interni, nella vista e nell’udito, poiché il corpo è un precipitato di relazioni.

L’esperienza mentale traumatica della madre – la rete di congiunzione con l’infantile (F.Guignard 1996), l’incontro traumatico con un ambiente che non la facilita nel suo compito di allevamento, spesso è scissa o rimossa per consentire alla stessa madre, una forma di sopravvivenza psichica contro la depressione e il crollo.

Ciò che è impensabile viene  depositato nella memoria comune e nella memoria somatica  della madre e del  bambino.

In  tale area possiamo parlare non tanto di rimosso quanto di inconscio originario  (Borgogno  2004), riferendoci a qualcosa che ha a che fare con zone della mente che sono state “disattivate” e in cui risultano “cancellati” i ricordi.  Secondo P. Ferri e A. Zanelli (2013) restano inscritti nel corpo senza che sia necessariamente rintracciabile un clamoroso trauma originario, ma probabilmente  una rete traumatica transgenerazionale.

A.Green (1993) parla di un “buco” nella trama della relazione d’oggetto con la madre.

Questo tipo di paziente in analisi, se l’analista gliene dà la possibilità, arriva “a essere gradualmente messo in grado di sentirsi reale” (Winnicott 1989 ), e può sperimentare un effettivo new beginning (Borgogno 2004)

In un caso clinico descritto da Alessandra Zanelli ( Ferri-Zanelli, 2013), la terapeuta cerca di dare una continuità nella mente all’esperienza frammentata presente nel corpo e nelle parole del piccolo Lorenzo, attraverso la fantasticheria del gioco e della filastrocca infantile che  fa parte della storia di molti di noi:”giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra. Lorenzo sembra accettare la mano dell’analista e al “casca giù per terra” si abbatte con violenza sul pavimento tanto che lei si spaventa e si precipita a sorreggerlo. “ E’ un’ interazione di corpi dove mi sento deputata a far sì che Lorenzo non si faccia male, non sbatta la testa; spesso mi “maledico” per aver portato quel mio gioco nella stanza che, adesso, Lorenzo non vuole più abbandonare e che mi tiene attiva e preoccupata per impedirgli, nel cadere, di farsi male. Alla fine delle sedute sono fisicamente stanca, affaticata e preoccupata che quel continuo girare, cadere, sostenere il piccolo, mi lasci poco spazio per sentire di lui. Quasi avverto nelle ossa una dolenzia che immagino abbia origine dall’essere fisicamente attiva, ma ancor più la uso come un portale per poter pensare, attraverso il dolore somatico, al dolore traumatico registrato nella carne del  bambino.

Cerco di adattarmi al paziente nello slanciarmi e nel faticare a sorreggerlo ma anche di trovare vitalità attraverso l’attivo girotondo che scaturisce dai miei legami associativi: questi sono depositati  nel mio corpo e nella mia mente,  e  cerco di adattarli  a Lorenzo, alle sue verbalizazioni del “per terra” e del “tutti giù”.

Nel corso del tempo possiamo, nel cadere e nel rialzarci, sentirci vivi. Ci sono sguardi intensi di Lorenzo durante queste interazioni come in un rispecchiamento tra me e lui, specchi simmetrici di uno stato emozionale interno di riconoscimenti e di prime differenziazioni.

Emozioni inconsce nel corpo (movimento, eccitazione, voce, scontro sul duro del pavimento) sembrano avere acquisito rappresentabilità nel gioco, nella filastrocca, nello sguardo del piccolo quando aspetta di essere sostenuto: questo anche grazie al coinvolgimento del corpo dell’analista e alle percezioni che questo le sollecita.

Ed ecco Simone, mio paziente, descritto nel lavoro succitato ( Ferri-Zanelli 2013): dietro l’eccitamento di un bambino di 8 anni mai domo, sembra esserci il vuoto, il buco di Green, e quando il tentativo di mantenere viva una mamma molto depressa sembra cedere, compare lo spettro della deprivazione.

Il corpo dirompente che si aggira nella stanza senza arrestarsi è la sua prima e più eclatante forma di presentazione. Occorre partire da questo e dalla “mente nel corpo”, come direbbe Gaddini (1981), per cercare una chiave che arrivi al simbolico e a una possibile forma di comunicazione. L’analista deve essere in grado di trasformare questo movimento afinalistico, questa agitazione senza scopo in uno spazio dove possa divenire possibile la relazione tra le due menti, e la creazione di un oggetto interno sufficientemente stabile.

“Il corpo viene abbandonato per terra da Simone, dopo le corse, quando, sfinito e intristito, si lascia andare al suolo, guardando nel vuoto, e ciò si protrae per tutte le sedute: accade allora che io lo sollevi letteralmente da terra per strapparlo a un’apatia totale, e a uno sguardo completamente assente e significante di un improvviso congelamento di qualsiasi emozione esplosiva, perturbante fino a poco prima. Lo faccio avvicinare alla scrivania e lo invito a seguire e modificare a piacimento il mio scarabocchio, come abbozzo di una prima relazione possibile. Gli scarabocchi diventeranno in seguito figure, macchinine, persone.

Si rischia di rimanere avviluppati in una relazione senza tempo, o congelata negli affetti;

per cui à necessario muoversi e fare venire venire il bambino al tavolo per farlo disegnare,

dacché la capacità di giocare si costruisce anch’essa e va di pari passo con la capacità di rappresentare: “Disegno io per prima, oppure propongo un gioco, semplicemente disponendo i pupazzi davanti a lui, mettendoli magari per prima nella casetta giocattolo, denominando i personaggi e mostrandogli una possibile interazione, guardandolo negli occhi “.(2013)

La possibilità di formazione di uno spazio interno, in bambini così compromessi, ma anche in aree primitive dello sviluppo adulto, passa dalla possibilità di ricreare un legame con la vita, di ristabilire una possibilità della mente, filtrata dalla disponibilità dell’analista. La quale deve “sentire” ciò che sta succedendo in seduta, registrare la non vitalità del bambino, il suo spegnimento e la sua morte interna, nel prolungamento di un legame fusionale con una madre annichilita e fortemente deprivata per traumi inesplorati. Dovrebbe riuscire a essere per il bambino quell’oggetto sufficientemente vivo che non è stato per lui mai possibile introiettare.

Quello che non si può trattenere viene portato fuori dalla stanza (corse a fare la pipì). Ma se l’analista sopravvive al caos e al senso di vuoto, entrambi si può cominciare a esistere, creativamente, insieme.

L’analista accetta di essere “distrutto” dal paziente, come già abbiamo detto, e accetta di prendere dentro di sé e nel suo corpo il vuoto mortifero, il nocciolo incistato autisticamente nella non mente del bambino, confermandogli la sua sopravvivenza, attraverso la propria integrazione mente-corpo.

Nella stanza d’analisi dovremo quindi continuamente transitare tra corpo e mente, tra interno ed esterno, tra sonno e veglia. E’ questo transito che crea l’area dell’illusione di Winnicott e la riga C di Bion (quella dei pensieri onirici dei miti e dei sogni).

La prima immagine mentale di un Sé separato compare dapprima come rispecchiamento nella mente dell’altro, il quale deve essere in grado di accoglierla e di farla divenire da una fantasia nel corpo, una fantasia sul corpo (Gaddini 1981), favorendo l’inizio della separatezza e della coscienza di sé come oggetto.

L’analista può entrare in contatto col paziente solo attraverso il proprio sogno, e la propria coscienza mente-corpo. A quel punto anche quella del paziente può diventare una coscienza incarnata in un corpo simbolico e significante.

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