Gianna Polacco Williams.
GIANNA POLACCO WILLIAMS*
Intervista di G. Gentile
Buongiorno dottoressa, grazie mille per il regalo che ci fa con questo incontro. Mi piacerebbe iniziare con la sua storia analitica come testimone e pioniera della psicoanalisi infantile.
Parlerei prima di come sono arrivata alla psicanalisi in quanto i miei studi a Roma erano stati di filosofia. Avrei voluto frequentare psicologia ma non c’era ancora, non esisteva in nessuna Università Italiana nel ’54.
Studiando filosofia ho incontrato dei grandi maestri come Guido Calogero che mi ha aperto alla filosofia del dialogo: tracce di questa influenza sono rimaste nel lavoro che faccio ma anche nei miei rapporti umani. Desideravo fare una tesi che unisse il mio interesse per la mente a un livello filosofico con quello che si era aperto in me mentre ero ancora studente in filosofia: il mio interesse per la psicanalisi.
Durante gli anni di Università ho letto molto Freud, ma leggendo prima la teoria poi i casi clinici. Secondo me Freud va letto prima nei casi clinici e poi nella metapsicologia e così lo insegno dal 1975. Lo sanno tutti quelli cha hanno fatto i corsi Tavistock, inclusa lei. Comunque mi accettarono a filosofia teoretica, una tesi che doveva essere sulla fondazione metafisica del concetto di inconscio.
Ho letto molto anche Jung che era più interessato alla metafisica di Freud. Freud era un filosofo, diceva di non esserlo, se vuole trovo la citazione esatta, ma era chiaramente un positivista.
Ho così iniziato quello che era, io credevo, una ricerca più a livello intellettuale.
Mi sono presto resa conto che mi sarebbe particolarmente interessato, se volevo approfondire dopo la mia laurea, un lavoro di tipo clinico, un lavoro con i bambini.
Sono nata durante la guerra e la guerra ha lasciato in tutti quelli che sono nati in quel periodo della vita, tracce che avrebbero potuto fare molto buon uso della psicanalisi infantile.
Inizialmente non avevo le idee molto chiare su dove andare, perché avevo anche passato un periodo a Zurigo cercando di capire qualcosa sulla scisma tra Freud e Jung. Questo faceva parte del periodo intellettuale ma mi sono accorta che nel campo della psicologia analitica junghiana non c’era ancora un discorso sull’ infantile. Mi avevano consigliato di andare a Londra perché Fordhman , che aveva un grande interesse per la psicoanalisi infantile, aveva iniziato un training. Ma quando sono arrivata a Londra questo training non esisteva e ho cominciato molto presto a capire di avere una posizione più vicino alla Klein, che mi avrebbe aiutato di più per fare il lavoro con i bambini. Il training di Fordham iniziò tanti anni dopo ed io vi ho insegnato.
Nel corso alla Tavistock ho partecipato ai Seminari di baby observation di Marta Harris.
Martha Harris è stata una grande maestra nella mia formazione, una persona a cui devo molto Non per niente ho fondato tanti centri Studi Martha Harris cinque in Italia ed anche uno in Francia.
Martha Harris sapeva che ero stata in contatto con il mondo Junghiano. Pensò che sarei stata la persona giusta per aiutare Fordhman ad insegnare agli junghiani l’osservazione di neonato che mi interessava molto.
In realtà l’ho insegnata esattamente nello stesso modo con tutti.
Anche nell’Istituto di psicanalisi di Londra sto insegnando ed ho insegnato per molti anni l’osservazione del neonato ai candidati dei tre diversi gruppi nello stesso seminario.
Quando mi trovo di fronte a delle manifestazioni di quelle che a me sembrano suggerire fantasie inconsce, io delle fantasie inconsce ne parlo poi naturalmente, all’interno del seminario ,c’è chi è d’accordo con me chi meno. I candidati devono scrivere un lavoro finale sulle osservazioni che è centrale per decidere se si può prendere il primo paziente, e spesso li influenza molto più la loro analisi che quello che dico io nei seminari.
Charcot disse a Freud “dobbiamo osservare fino a che i fatti comincino a parlare da soli”. In questo senso cerco di non parlare né freudiano né kleinese, cerco di guardare a quello che mi sembra, sia nel lavoro clinico e nell’osservazione, osservabile e provo a formulare delle ipotesi.
Credo sia molto importante essere capaci di osservare non correndo immediatamente all’inferenza del possibile significato, ma cercando di tenere un atteggiamento sospeso finché i fatti sembrino confermare che alcune ipotesi sono più utili che altre per capire quello che si osserva. A volte si fanno ipotesi in un seminario che sono contraddtte dalle osservazioni nel seminario seguente su quel bambino.
Nel lavoro clinico uso spesso ipotesi formulate da Melanie Klein e di recente molto anche delle idee di Bion. Tante idee cinquant’anni fa non c’erano e tra cinquant’anni ce ne saranno di diverse e forse di migliori.
Non c’è nessuna verità rivelata per cui è importante cercare di non diventare partigiani e seguire una linea di partito ,almeno ci si prova, non sempre ci si riesce.
Credo poi che, a seconda di quello che siamo e di quello che è la nostra storia, può interessarci di arrivare nel nostro lavoro alle ansie più profonde e allora la Klein può essere di aiuto.
In alcuni casi sembra non rispettare abbastanza le difese ed in questo è stata molto criticata.
Nel lavoro clinico io trovo che tutti i discorsi sulle difese non sono stati abbastanza affrontati dalla Klein e sono estremamente importanti.
È diventato centrale nel mio lavoro e nella supervisione di tenere presente che se c’è una difesa molto forte (per esempio anche tutte le difese di tipo narcisistico e le alleanze con le parti distruttive del se’)non si adopera un rullo spianatore se ci si deve occupare di formiche. Le difese sono proporzionali alle ansie cioè noi ci troviamo confrontati sia con i bambini che con adulti con delle difese, non sappiamo quali sono le ansie sottostanti, ma ne possiamo arguire l’intensità dalla forza delle difese. Quindi io credo che in un lavoro di interpretazione sia importante cercare di parlare allo stesso tempo della difesa e da cosa difende, se possibile nella stessa frase, piuttosto che togliere difese e rischiare di togliere stampelle a qualcuno che non può camminare senza. Sto facendo supervisioni a tre analisti per adulti che sono in training alla società britannica per diventare analisti infantili. Uno di questi segue David un bambino di quattro anni che si pensava potesse avere degli elementi di autismo. Questo bambino ha tante fantasie sul suo ombelico, fantasie legate a qualcosa che lo unisce con l’oggetto. Parlare di questo con David diminuisce le sue ansie e si è dimostrato molto utile per questo bambino.
Con gli altri due, entrambi in latenza, si lavora a ben altri livelli.
Tra le tante cose da lei scritte e le tante riflessioni teoriche sono stata molto colpita da quella che chiama “Sindrome Vietato l’Accesso” e l’inversione della funzione alfa, ce ne vuole un po’ parlare?
Il rovesciamento da cui parto è quello tra contenitore e contenuto.
Si suppone che nelle situazioni ideali un bambino possa usufruire delle funzioni parentali, (quindi non solo materne) che lo aiutino poco per volta, ad essere accolto in uno spazio che è presente nella mente dell’altro e non ancora nella sua.
Si nasce con uno stomaco fisico ma sono d’accordo con Bion che non si nasce con uno stomaco mentale ed emotivo. Questo lo si internalizza avendo l’esperienza di qualcuno che apra dentro di sè questo spazio e cerchi di trovare il significato emotivo dell’esperienza del bambino.
Il bambino, come sappiamo, con il suo pianto, comunica un grumo di sentimenti, sensazioni, a cui non può dare un nome. La situazione ideale è quella in cui , per tentativi ed errori ,perché è sempre così ,ad un certo punto viene dato un nome a questo vissuto ed il bambino poco per volta acquisisce la capacità di dare lui un significato emotivo alle sue esperienze.
Quella di cui ha parlato Bion come situazioni di fallimento del rapporto contenitore-contenuto è a mio avviso un PRIMO grado del fallimento cioè quando il bambino cerca di essere capito e incontra un muro. E’ quello che Bion descrive come l’origine del” terrore senza nome”.
Ciò di cui mi sono interessata, è un SECONDO fallimento molto più grave. L’oggetto non è solamente duro e non riceve le proiezioni, ma in realtà è come una teiera, è impervio ma ha anche un becco da cui escono proiezioni, per cui il bambino non solo non è contenuto ma in realtà riceve delle proiezioni anziché veder accolte le proprie.
Questo mi ha portata a parlare di ciò che ho osservato nella clinica ,di quali difese si sviluppano quando è presente questa esperienza e dei vari gradi di esse.
Parlo del processo che è basato sulla esperienza traumatica di essere un ricettacolo di proiezioni (non solo non avere nessuno che li accolga ma di doverne accogliere).
Non solo c’è nel bambino l’incapacità di capire quali sono i significati emotivi delle proprie esperienze ma gli si chiede di contenere le esperienze che sono proiettate dentro di lui non avendo l’ equipaggiamento per farne qualcosa , rimangono come corpi estranei.
Seguendo queste ipotesi, che inizialmente ho chiamato capovolgimento della relazione contenitore-contenuto (mi rendo conto che è una semplificazione), ho suggerito di parlare di ricettacolo invece che di contenitore e di corpi estranei invece che di contenuto cioè cambiare i termini .
Ho anche descritto l’internalizzazione di qualcosa di disorganizzante anziché organizzante La funzione alfa tiene le parti della personalità del bambino insieme, fa ordine, da un significato.
Quando si ha esperienza di essere ricettacolo di proiezioni a mio avviso si internalizza una funzione e questa funzione anziché essere organizzante è una funzione disorganizzante.Tale funzione l’ho chiamata omega.(Non meno alfa)
Voglio chiarire, perché a volte ho sentito dire che le proiezioni ricevute sono la funzione omega e questo non è ciò che penso.
Le proiezioni che si ricevono fanno sì che anziché internalizzare un oggetto capace di funzione alfa, si internalizza un oggetto disorganizzante. Tutto ciò è confermato tra l’altro anche nello studio del Child Development, in particolare delle situazioni sperimentali definite strange situation, di Marie Main e altri che hanno scritto un articolo in cui si parla di genitori che sono spaventati o spaventanti. Viene evidenziato un modello relativo a un pattern di attaccamento disorganizzato/disorientato, considerato “ il piu’ insicuro in assoluto”.
Mi ricordo che quando parlai di questa idea ad un convegno nella società psicoanalitica di Buenos Aires, ci fu qualcuno che protestava rispetto al mio uso della parola funzione perché pensava che la parola funzione dovesse richiamare qualcosa che funzionava ,di positivo. Per fortuna un’altra analista mi aiutò citando l’esempio del terrorismo dicendo che allora non possiamo dire che il terrorismo ha una funzione, la funzione è positiva per chi vuole mettere dentro terrore. Il terrore però è un evento a cui si può attribuire la parola “ funzione” disorganizzante.
A seconda che si internalizzi una funzione che organizza o disorganizzi è chiaro che si strutturino delle difese diverse a seconda dell’esperienza che si è avuta.
A questo tipo di esperienze diverse le persone reagiscono in modo diverso.
Mi è sembrato inizialmente chiaro un possibile tipo di reazione a questo tipo di interiorizzazione: il paziente si chiude, percepisce che le proiezioni sono qualcosa di tossico, preferisce non far entrare quello che è tossico e questo in un certo senso è una difesa buona, dalla parte della vita. A volte però questo tipo di chiusura si allarga per cui non entra più nulla, né interpretazioni né aiuto. Questi pazienti possono essere impervi nel lavoro interpretativo soprattutto i più gravi perchè la Sindrome Vietato l’accesso ha vari gradi che vanno dai lievi disturbi alimentari all’autismo. Per un certo periodo ho fatto la diagnosi iniziale a pazienti segnalati per disturbi della alimentazione dai servizi al Dipartimento Adolescenti della Tavistock dove ho lavorato per molti anni.
Ho avuto molte esperienze a cui pensare rispetto ad una difesa vietato l’accesso che si puo’, in alcuni casi sviluppare se si interiorizza una funzione disturbante e disorganizzante .
La percezione del bambino o adolescente è “mi è stato messo dentro qualcosa di tossico ,sai che c’è ,adesso io chiudo la bocca o le orecchie o tutte le vie di accesso perché non si sa mai”.
Non sa che alcune cose che entrano come il cibo possono essere molto salutari.E allora si possono trovare disturbi anche gravi dell’alimentazione in bambini molto piccoli, bambini che hanno la percezione di ricevere delle proiezioni dagli occhi materni, casi di depressione ma anche di lutto.
Il bambino sente che insieme al latte entra dentro qualcosa di tossico dagli occhi della mamma.
Il caso più chiaro è stato quello di un bimbo che ho chiamato Faruk. Era un bambino somalo, i cui genitori avevano entrambi dei parenti di cui non sapevano più nulla. Era un periodo di carestia e questi parenti si spostavano da un posto all’altro. Avevano anche saputo di aver perso un genitore e Faruk quando la mamma voleva dargli il biberon, non lo prendeva .Allora la madre provò a dare il latte mentre dormiva e ,con gli occhi chiusi, Faruk si è nutrito benissimo.
In questo caso la chiusura difensiva non era molto estesa. Nella valutazione diagnostica (che preferisco chiamare di esplorazione condivisa) molti casi di anoressia avevano nella storia qualcosa che faceva capire come forse era avvenuta la chiusura.
Ricordo il caso di Sally, una bambina la cui mamma era stata molto danneggiata perché il padre aveva cercato di affogarla quando era piccola ,ed aveva molta paura di farsi il bagno. Voleva che la bambina, che aveva solo tre anni, le tenesse la mano mentre lei faceva il bagno. Avrebbe quindi dovuto aiutare la mamma a contenere delle ansie che in questo caso tra l’altro avevano un elemento psicotico. Sally non poteva prestarsi come contenitore, ma solo come ricettacolo.
Questa esperienza aveva scatenato una reazione a catena di aspetti no entry .Sally era venuta alla Tavistock con una grave anoressia, aveva paura dei suoni forti, non poteva tollerare i suoni della sveglia o del telefono, aveva paura non solo della penetrazione ma anche di essere toccata sulla pelle, non poteva andare dal dentista.
La sindrome vietato l’accesso è una difesa da un’esperienza di proiezioni intense.
Mi trovo allora a parlare con un tono di voce pacato, cerco di evitare le parole incisive e preferisco usare un tipo di linguaggio caratterizzato da colori pastello piuttosto che da colori primari.
Io penso che l’anoressia si possa trattare non solo con la cognitivo-comportamentale come molti sostengono, ma che sia accessibile ad un lavoro psicoanalitico, tenendo presente che bisogna prima capire quali sono le ansie che sottostanno alle difese. Si deve lavorare tanto ma per capire ansie così profonde come quella di Sally ci vuole tempo.
Anche se questi pazienti difficilmente accettano più di una seduta, si può cominciare con un cucchiaino da caffè per poi portarli a tre portate.
Alcuni pazienti invece hanno più difficoltà a chiudersi totalmente. Io li chiamo pazienti porosi. Mi sembra interessante che questi pazienti, che sembrano meno difesi e quindi si fanno un po’ più invadere dalle proiezioni, sviluppano molto più spesso la bulimia. Sembrano meno difesi ma sviluppano patologie meno gravi dell’anoressia come la bulimia, meno letale.
Tecnicamente è importante capire se un paziente può avere internalizzato una funzione disorganizzante. Nel controtransfert arriva al terapeuta la richiesta di mettere ordine .Ricordo un paziente bulimico che mi raccontò di quando erano state messe le cose sue e di suo fratello in lavatrice. La madre poi le aveva messe sul pavimento e loro dovevano smistarle. Ma non ne era capace. L’ho proprio vista la montagna di calzini e maglioni . Questo discorso è uscito perché nella seduta aveva dei calzini di colori diversi.
Anche se non ho come migliore qualità quella di donna di casa che mette ordine, ho avuto il desiderio di andare ad aiutarlo e questo è qualcosa di molto chiaro nel lavoro di transfert e controtransfert: il desiderio che tu ti occupi della confusione.
Invece nei pazienti che attaccano il legame tu diventi il loro nemico quando riesci a fare chiarezza: Un mio paziente mi disse “beh se tu capisci qualcosa di me tienitelo per te per piacere”.
Mi ha sempre molto colpito nel suo lavoro, il desiderio di far capire quanto le idee psicoanalitiche potessero aiutare le persone anche se questo non portava necessariamente ad un trattamento ma ad interventi di tipo sociale. Le idee psicoanalitiche possono curare anche gli ambienti, le società. Nella Tavistock ho lavorato per diversi anni in un corso in cui venivano solo insegnanti e parlavano del loro lavoro , non avevano conoscenza di parole come identificazione proiettiva, interiorizzazione, bisognava il più possibile evitare il gergo. Però abbiamo lavorato bene senza gergo.
Abbiamo scritto un libro sull’esperienza emotiva nell’apprendimento nel 1983,ma il lavoro con le insegnati era stato cominciato molto prima da Martha Harris e dal suo primo marito Roland Harris.
La filosofia di Marta Harris è una filosofia che posso descrivere meglio con una sua frase: “le idee psicoanalitiche debbono viaggiare e trovare dei terreni fertili in cui fiorire”.
Forse aveva un’idea che l’Italia sarebbe stato un terreno fertile quando mi incoraggio’ e mi appoggiò enormemente nello sviluppare in Italia corsi di psicoterapia infantile.
Teneva moltissimo al primo biennio ed alla Work discussion, la discussione di lavoro, una sua creazione ora data per scontata.
Portare le idee psicoanalitiche su diversi terreni, rivolgersi a diverse professioni ci portò a condurre seminari di discussioni di lavoro a cui partecipavano persone che mai sarebbero diventati psicoterapeuti. Ho fatto a Londra gruppi con cinque persone che svolgevano lavori tutti diversi nessuno di loro nel clinico.
Mi sono formata a parlare di psicanalisi in contesti diversi e mi sono resa conto che si può comunicare se il concetto è chiaro nella nostra mente.
Se all’insegnante il bambino dice: “sei brava miss non sei come la mia mamma “dirle che esiste una cosa che si chiama idealizzazione o denigrazione non è difficile. Si possono definire in un modo diverso. Uno dei capitoli del libro sul rapporto emotivo nell’ insegnare e nell’apprendere lo ho scritto sui rischi della reciproca idealizzaione.
Si parla di fenomeni che esistono anche nel lavoro clinico. Lo schema di riferimento teorico e lo stesso.
E’ vitale che si chiarisca che la tecnica nel contesto non clinico è molto diversa.
Esiste un servizio in Brasile che si chiama S.O.S. Brasile. In questo servizio di interventi brevi si sono messi insieme 60 psicoanalisti IPA della Società di San Paolo, disposti a dare del loro tempo per interventi brevi che possono andare da tre a otto incontri, con persone in questo momento particolarmente traumatizzate.
Questa offerta di aiuto è anche legata alla pandemia e a come è stata gestita l’emergenza. Molti sono stati malati o sono vittime di COVID protratto molti hanno perso qualcuno in famiglia. Talvolta seguono casi disperati come quello di una ragazza molto deprivata , incinta senza nessuna capacità di identificazione materna e il dubbio era cosa potevano fare con 3-8 sedute.
Il motivo per cui sono entrati in contatto con me è che conoscevano il mio lavoro con interventi brevi, un lavoro che si è molto sviluppato anche in Italia.
Simonetta Adamo ha curato un libro su questo argomento “Un breve viaggio nella propria mente”. Vi sono raccolti esempi di interventi brevi con adolescenti, il lavoro alla facolta’ di medicina con interventi brevi con gli studenti e ci sono esempi di diverse parti del mondo. Proprio questo materiale è quello che ho scannerizzato per SOS Brasil perché è difficile per gli analisti credere che stanno facendo un lavoro utile con poche sedute.
Questa collaborazione sarà presto molto probabilmente sotto l’ombrello di un comitato dell’IPA di cui faccio parte come consulente ed è il comitato per le emergenze, i traumi e i conflitti la cui responsabile è Monica Cardinal.
E’ una tecnica diversa, particolare quella dell’intervento breve. Una tecnica in cui si adoperano interpretazioni tangenziali ,centrifughe, mai centrate sul transfert. Si tiene conto di quello che sta accadendo nell’ hic et nunc, anche se non lo si può interpretare. Però se ne deve essere molto coscienti e ancora di piu di quello che avviene nel proprio contro transfert E’ un lavoro sofisticato.
Come è cambiata la psicoanalisi infantile dagli anni 70 ad oggi e quale sarà il suo futuro?
Io sento che è molto bello preservare la psicanalisi come quella che si serve delle quattro sedute(cinque in Inghilterra) e del lettino, quella classica, però la mia esperienza è che forse si è sopravvalutata la possibilità di lavorare esclusivamente in modo intenso con delle tecniche basate totalmente sull’interpretazione del transfert. Per esempio oggi vi è in Inghilterra un tipo di offerta in molte cliniche di 28 sedute con una tecnica particolare lavorando dall’inizio sulla fine.
Mi sembra che in alcuni casi visto che ci sono risorse nell’ambito pubblico molto carenti rispetto alla richiesta, è bene essere aperti alla possibilità di introdurre degli approcci, che pur basati su idee psicoanalitiche modifichino però la tecnica.
Va preservato però il cardine del lavoro psicoanalitico cioè che veramente crediamo che c’è una cosa che si chiama inconscio.
Mi sembra una degna conclusione del nostro incontro, la ringrazio molto e so che ci vedremo.