GIANFRANCO BARUCHELLO
BAMBINI E ADOLESCENTI CATTIVI?
Ugo Sabatello
Parole chiave: Psicoanalisi, Devianza, Aggressività, Mondo Psichico,
Violenza, devianza, condotte aggressive sono concetti tipicamente fenomenologici che alludono a una tendenza del soggetto ad agire. Limitarsi a questo livello di assessment configura una diagnosi tautologica che nulla aggiunge all’effettiva conoscenza del paziente. Restringere lo sguardo ai comportamenti, senza andare oltre il manifesto o il manifestato sembra, inoltre, una sorta di collusione con il nucleo delle psicopatologie della condotta, che consiste in una tendenza alla traduzione in azione (acting-out) e al trasferimento a un altro da sé (oggetto o persona cui l’azione viene diretta) di aspetti appartenenti al proprio mondo psichico, non più rintracciabili coscientemente nella persona.
Quando si passa dalla “diagnosi ufficiale” alla clinica, rimanere sulla descrizione delle condotte appare quindi riduttivo, oltre che poco utile, ancor più perché il nucleo del lavoro terapeutico con queste condizioni psicopatologiche deve necessariamente passare per il percorso, inverso all’esternalizzazione, di un recupero, della relazione del soggetto con il mondo interno e con i significati, che vada oltre l’agito e ne riprenda gli aspetti umani, comunicativi e soggettivi.
Anche in età evolutiva, dunque, l’antisocialità si configura come distribuita lungo due assi, a seconda del tipo di aggressività manifestata: un asse impulsivo, l’antisocialità più comune, responsabile dei reati più frequenti in cui l’aggressività è soprattutto reattiva e l’azione antisociale può sottendere impulsività e incapacità di regolare la risposta esplosiva (discontrollo emozionale e, quindi, comportamentale); ed un asse più freddo e insensibile, in cui l’aggressività è di tipo sadico-predatorio (la psicopatia, responsabile dei reati più gravi), in cui le condotte sono maggiormente riferibile a compromissioni nei processi di socializzazione e emozionali, con deficit nell’empatia e nelle emozioni prosociali.
Il costrutto della regolazione degli affetti ed emozionale (Bion, 1962; Winnicott, 1971; Fonagy & Target, 2001; Trevarthen, 2001), sebbene maggiormente utilizzato nelle ipotesi esplicative della polarità impulsiva dei disturbi della condotta, con la continua ricerca di etero-regolazione attraverso l’agito e l’esternalizzazione ci appare rilevante e non prescindibile anche per il pattern psicopatico in cui appare un eccesso di auto-regolazione fino alla calcificazione o congelamento delle emozioni (ed anche dei loro correlati fisiologici), vanificando l’apporto intersoggettivo dell’altro da sé. Quando esitano in quadri antisociali , questi bambini e adolescenti mostrano un pattern di comportamento patologico più stabile e aggressivo, associato a un aumentato rischio di delinquenza a esordio precoce, azioni antisociali di più elevata gravità, mantenimento del disturbo della condotta lungo la traiettoria di sviluppo verso l’età adulta e scarsa risposta al trattamento, suggerendo l’esistenza di una specifica eziologia per questo gruppo di soggetti (Frick et al., 2003, 2005, 2013). Essi sembrano appartenere a un mondo emozionale pre-socializzato (Meloy, 2001), in cui la dimensione intersoggettiva delle relazioni umane scompare e, se presente, viene ridotta a mezzo per finalità personali ed in tal senso deumanizzata. Emerge una connessione con la dimensione narcisistica che, come da molti condiviso, sembra configurarsi come il nucleo funzionale e affettivo della psicopatia (Kernberg, 1998; Meloy, 2001 op.cit.; Hare, 2003). Freud, nel suo scritto Introduzione al narcisismo (1914), già indica un legame tra narcisismo e criminalità attraverso il concetto di meccanismi di proiezione, con i quali il criminale, al pari del narcisista, attuerebbe un tentativo di salvaguardare la propria identità.
Il maggiore contributo in questo senso rimane tuttavia quello di Otto F. Kernberg (1992, 1998), che inserisce il comportamento antisociale e psicopatico tra le patologie del narcisismo, di cui costituirebbero una variante primitiva. Kernberg delinea un continuum di comportamenti antisociali e psicopatici che, a partire dalle condotte antisociali come parte di una nevrosi sintomatica (ad es. ribellione adolescenziale), giunge, ai sui estremi di gravità, a quadri di narcisismo maligno fino al disturbo antisociale e psicopatico di personalità. Le persone antisociali e psicopatiche sono incapaci di stabilire relazioni oggettuali e appaiono privi di qualità etiche, configurando la forma più grave e meno trattabile dell’organizzazione di personalità borderline “bassa”, caratterizzata da fragilità dell’identità del sé, relazioni oggettuali interiorizzate patologiche e meccanismi di difesa primitivi.
Nonostante la riluttanza a parlare di aggressività e violenza in età evolutiva e le relative criticità etiche e pratiche implicate, l’esordio di un disturbo di personalità non può essere pensato come improvviso, all’ingresso nella maturità; sia l’esperienza clinica sia la ricerca empirica, indicano chiaramente che segnali “in nuce” di esso si possono individuare già a partire dalla prima infanzia, precursori di quello che in età adulta si delineerà come un profilo di cluster B o di tipo psicopatico (Robins, 1966; Farrington, 2005; Frick & Viding, 2009).
I callous-unemotional traits (CU) sono visti come il nucleo centrale della psicopatia (Cleckley, 1941; Hare, 2003) e si sono rivelati in grado di intercettare, tra i bambini e gli adolescenti che presentano psicopatologie della condotta e antisociali precoci, un sottogruppo di soggetti con caratteristiche temperamentali, affettive, cognitive, interpersonali e familiari distinte. Questi tratti sono costituiti da un pattern persistente di comportamento che riflette un’indifferenza nei confronti degli altri, un’affettività superficiale, la carenza di capacità empatiche, la mancanza di sentimenti di colpa o di rimorso, una tendenza a sfruttare gli altri per il proprio tornaconto, una mancata assunzione di responsabilità per le conseguenze delle proprie azioni, capacità relazionali deficitarie, un utilizzo strumentale dell’aggressività.
Se quanto delineato sin’ora descrive la psicopatia primaria, a forte determinazione genetica, la pratica clinica e la ricerca ci permettono di distinguere forme di psicopatia secondaria a traumi precoci o esperienze ambientali negative (Marshall & Cooke, 1999; Caspi et al., 2002; Krischer & Sevecke, 2008), nella quale – a seguito di eventi stressanti acuti o cronici -attraverso processi autotomici della mente (Imbasciati, 1998) ci si libera degli aspetti affettivi dolenti, non indispensabili alla sopravvivenza, in una prospettiva di adattamento. Tratti di questo genere possono essere frequentemente riscontrati in bambini o adolescenti adottati, migranti, provenienti da zone di guerra, soprattutto se gravemente e precocemente maltrattati. Il pensiero, la vita affettiva non sono necessari alla sopravvivenza anzi, la sensibilità e vulnerabilità generano sofferenza che una corazza C-U e l’aggressività riescono a contenere seppure a costo di uno stato ansioso e persistente che non ritroviamo nella psicopatia “primaria”. Sentire di meno, risuonare di meno al dolore dell’altro è una strategia primitiva, “rettiliana,” di sopravvivenza .
È stato quindi ipotizzato, alla base delle psicopatologie psicopatiche, un deficit emotivo di base o reattivo, il cui nucleo sarebbe costituito da durezza, insensibilità e assenza di empatia (Baron-Cohen, 2011). Il risultato è una sorta di deumanizzazione, con un annullamento degli aspetti vitali sia propri (ben rappresentati dalla “freddezza” fisiologica ed emozionale) che dell’altro. E questo – almeno per quanto riguarda la psicopatia “secondaria”- al fine di non percepire un “rumore,” un caos affettivo e doloroso, un surplus di stimolazioni che rischia di sommergere le capacità di “coping” dell’individuo. Questo può accadere anche in situazioni apparentemente normali quando stimolazioni eccessive, di qualsiasi natura, trovano un soggetto poco resiliente, per età, per fase evolutiva, per contesto relazionale. E’ quindi dimostrato che una difesa psicopatica, “callous and unemotional” possa essere una possibile risposta a stressor di varia natura, ed anche a percezioni “disturbanti o perturbanti” che, attraverso i media raggiungono, sempre più precocemente, bambini e adolescenti . Ci chiediamo come le emergenze psichiatriche degli ultimo anni e l’aumento del malessere percepibile sia legato anche a questo.
In termini “classici” lo psicopatico sembrerebbe quindi essere la descrizione del “mostro”, del serial killer, dei personaggi descritti da Hare nei suoi libri o da Bollas in “Cracking up”. Ma, nel 2008, Hare riprende un concetto già espresso da Cleckley (1941): lo psicopatico non è necessariamente un delinquente, vi sono gli psicopatici di successo, grandi uomini e donne, importanti statisti, che sono stati “spietati” per un “bene” maggiore (Edmonds, D. 2012): da Livia Drusilla moglie di Cesare Ottaviano a Cesare Borgia a Winston Churchill. Letta in tal modo la psicopatia è una possibilità della mente, non solo una diagnosi nosografica ma piuttosto una dimensione continua che riguarda, in diversa misura, ogni essere umano.
Abbiamo forse così trovato, nel termine psicopatia, una parola del vocabolario capace di descrivere la “cattiveria”, in termini non etici, non religiosi, ma scientifici.
Ci resta una domanda: i bambini e gli adolescenti oggi percepiscono un rumore di fondo, un continuo piovere di stimoli e informazioni che li sommerge e dal quale devono difendersi a volte sacrificando parti di sé e della propria affettività
“Per non sentire mi metto le dita nelle orecchie, chi non sente è uno psicopatico, chi non sente è cattivo ergo, chi si mette le dita nelle orecchie è cattivo?”
BIBLIOGRAFIA
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