MAX ERNST , 1941
Parole chiave: limite; confine; frontiera; stato-limite.
“Sul limite. Smarrimento dei confini e del senso”
Andrea Baldassarro
Abstract: Un contributo sul tema del limite e delle sue declinazioni di confine, frontiera, “zona” di deformazione/trasformazione. È proprio lungo i margini che si sviluppano le riflessioni dell’autore, muovendosi tra teoria e cura psicoanalitica, tra la dimensione della clinica e quella della contemporaneità socio-culturale (Floriana Sarracino)
Se la questione del limite è centrale in ogni esperienza umana, la psicoanalisi ha attenuato di molto, se non di fatto cancellato il limite, ovvero il confine che separava la normalità dalla patologia, ed ha introdotto la pulsione come concetto limite tra il somatico e lo psichico. Concetto-limite, si badi bene, in quanto non si tratta di trovare un punto di coniugazione tra due entità diverse, il corpo e la mente, ma di individuare il limite che l’inconscio oppone, attraverso la pulsione, ad una illusoria congruenza dello psichico con il somatico, o alla riduzione dell’uno all’altro. Da questo punto di vista il sessuale, così come concepito da Freud, non è ciò attraverso cui leggere tutto lo psichico – come erroneamente si è ritenuto – ma ciò che “resiste” ad ogni interpretazione, costituendo un punto cieco dell’umano, costitutivo dell’inconscio che, proprio in quanto tale, è sessuale. Il sessuale non sarebbe allora quello che designa il limite tra dato naturale, biologico, fisico, e dato culturale, psichico, perché il limite cui la psicoanalisi si riferisce non è quello di una separazione tra una sessualità “sana” da una malata, o perversa, in quanto la stessa sessualità adulta è intrisa della sessualità infantile perversa polimorfa. L’inconscio sessuale è piuttosto ciò che pone un limite ad ogni comprensione esaustiva, ad ogni teorizzazione, ad ogni concettualizzazione che voglia essere esauriente e per questo definitiva. Paradossalmente, senza limiti. Proprio i cosiddetti casi-limite – e non sarà questo un caso – mostrano infatti il limite di ogni possibile teorizzazione, situandosi su un punto non del tutto definito, al limite anche della trattabilità psicoanalitica.
Proviamo allora a procedere. Il limite per eccellenza, il limite geografico, ed anche politico, culturale, linguistico e psichico, è costituito dalla frontiera. Ma le frontiere hanno da sempre costituito anche una soglia, un passaggio, un luogo di transito. Luoghi di passaggio ma anche di ostacolo, in cui si viene sottoposti a un controllo, dove si esibiscono documenti, si mostra la propria identità, e si accede poi ad altri territori, altre lingue, altri costumi, altre usanze. La frontiera si preannuncia sempre come un territorio fragile, e come tale esposto a continue trasformazioni per il passaggio di uomini, merci, linguaggi. Indubbiamente, la definizione stessa di frontiera indica un luogo dal confine mutevole e instabile, continuamente modificabile a seguito di guerre, conflitti, trattati, accordi politici. Qualcosa sta però mutando, perché sempre più i limiti, come le frontiere, divengono mobili, fluttuanti, incerti, si confondono, si modificano, si allentano fino a scomparire del tutto: le frontiere diventano porose e incerte, e per questo si prestano a determinare una domanda di un loro rafforzamento, di una maggiore sicurezza, maggiore protezione, che altro non è se non la manifestazione di un’angoscia di tipo identitario. Si vorrebbe così preservare la propria identità messa a repentaglio dall’intrusione dell’altro. Se i confini slittano così progressivamente, si perdono punti di ancoraggio e di definizione, si smarriscono certezze, identità e stabilità nelle relazioni. La continua incitazione a superare i limiti, a cogliere tutto ciò che si desidera, dando l’illusione che tutto sia possibile, comporta il fatto paradossale che la soggettività umana sia sempre più incerta ed esposta ad uno smarrimento progressivo del senso.
Il concetto di frontiera sarebbe tanto mutato da non rappresentare più un muro che vieta il passaggio, ma una soglia che invita al transito, sostiene Marc Augé[1]. Le frontiere divengono così sempre più qualcosa che va oltrepassato, non qualcosa che indica un impedimento. Tutto viene così assimilato da un’uniformità che, superando i limiti culturali, linguistici, perfino estetici, finisce per abolire l’alterità come la soggettività irripetibile di ciascuno[2]: tutto diviene uguale a sé stesso, tutti fanno le stesse cose, guardano e consumano gli stessi prodotti, in qualsiasi angolo del mondo – appunto un mondo senza più confini, senza più frontiere. No-limits, chiosa la pubblicità: nessun limite, ognuno può fare ciò che vuole, illude il sistema di scambio perenne nel quale siamo immersi. Sempre connessi, non c’è più limite neppure all’intrusività insistente del messaggio, da qualsiasi parte provenga. Un rumore perenne ottunde il nostro apparato percettivo e sensoriale, e dunque anche la nostra psiche, “urtata” di continuo da informazioni che non vanno a costituire alcun sapere, che non si organizzano in conoscenza, ma che fanno al contrario smarrire il senso di quello che ci accade e ci circonda.
Ma, al tempo stesso, non è forse un imperativo della nostra epoca, e forse di tutti i tempi – basti pensare alla figura mitica e immortale di Ulisse – quello di superare i limiti, gli ostacoli, di andare oltre il noto, il conosciuto, di esplorare sempre nuovi mondi, fino a rendere tutto il mondo già noto, ancor prima di averlo percorso? Il mito americano non si è costruito forse sul “tutto è possibile” e sul superamento continuo della frontiera, sull’oltrepassamento e sull’impossessamento di territori sconosciuti? Ma oggi non è forse tutto il mondo ormai già noto, senza più terre inesplorate, e sempre più uguale, dovunque si vada? Non si viaggia forse ritrovando quello che già si sapeva, si conosceva, o quello che già si era stabilito di dover trovare? Si tratterebbe allora di incontrare il già noto, dunque di un ri-trovare? Forse stiamo vivendo nel paradosso di un eccesso del principio di realtà che corrisponde invece ad uno smarrimento di sé, e se pensiamo a quanto Freud diceva dell’esame di realtà, che avviene grazie al fatto di ritrovare nella realtà ciò che si è già psichicamente rappresentato, le cose si fanno forse sempre più complesse…
Nelle società liquide, post-industriali, post-secolarizzate, nelle società neoliberiste del cosiddetto capitalismo avanzato, così come i confini si allentano e fluttuano, così i riferimenti culturali tradizionali vacillano, l’ordine secolare su cui si è fondato l’ordinamento sociale non sembra più sostenersi da sé, il recinto del sacro si restringe sempre più, le mitologie collettive divengono troppo instabili e variabili anch’esse, nel tempo e negli spazi di vita. La vita stessa è sempre più incerta, e nonostante le promesse della medicina, sempre più esposta alla malattia e alla morte. Per questo si chiede alla politica di intervenire non più tanto per mediare le istanze e i conflitti sociali, ma per tutelare la vita[3]. Trionfo della biopolitica? Le stesse persone vivono con inquietudine la propria assenza di stabilità, soffrono della propria fragilità e della incertezza generalizzata, della mancanza di riferimenti sicuri, o almeno dotati di qualche consistenza. Ci si sente inadeguati, incapaci di fronteggiare la perenne sollecitazione al cambiamento. Paranoia e depressione ne sono allora le risposte più comuni.
La nostra epoca sembra così caratterizzata non solo da una progressiva alterazione della presenza dei confini, sempre più valicabili e oltrepassabili, ma anche dall’insofferenza per qualsiasi limite e regola – tanto che le regole si infittiscono sempre di più, proprio nel tentativo di dare un ordine e una disciplina all’invito paradossale a fare come si vuole. Fino a dare spazio alle pulsioni più distruttive, che vedono nell’altro solo un ostacolo alla realizzazione dei propri desideri. Ma allo stesso tempo si accentua un progressivo smarrimento del senso, che è indotto proprio dall’alterazione progressiva, dallo slittamento progressivo del confine e dalla perdita del limite come argine all’onnipotenza soggettiva. Il confine identitario viene messo sempre più a dura prova dalle incertezze soggettive e collettive: vengono sempre più a mancare quel patto e quei collanti sociali e culturali – in buona parte inconsci[4] – che garantiscono la permanenza di un ordine su cui si costituisce quella soglia psichica che dona sufficiente stabilità identitaria al soggetto. Lo smarrimento dei limiti, e dei confini, geografici e psichici, genera così insicurezza, disordine, angoscia. E soprattutto depressione, non a caso la malattia di quest’epoca, in cui si è chiamati a sostenere il peso di una performatività sempre crescente, e in mancanza della quale si è emarginati, tagliati fuori, con lo spettro dell’esclusione sempre in agguato[5].
Quelli che non riescono a sostenere il peso di questa condizione, che avvertono come insopportabile la difficoltà di essere inseriti in un sistema di comunicazione perenne, con l’angoscia dell’emarginazione, della perdita, sono quelli che risentono maggiormente dell’incertezza dei propri confini, dei propri limiti. A volte, infatti, le frontiere più incerte sono quelle interne: è il caso di quanti avvertono dentro di sé l’assenza di un limite, o la fatica di essere collocati su un confine, dunque su un punto di instabilità, senza struttura, senza definizione, senza consistenza. Assediati dal mondo esterno e dalle sue richieste, e da quello interno e dalle proprie domande senza risposta, sono quelli che conosciamo come stati-limite. La questione delle frontiere è infatti cruciale negli stati-limite – va da sé – in quanto nella loro stessa definizione pongono il problema dei confini. Diceva André Green, il cui contributo alla comprensione degli stati-limite è stato esemplare: “I casi-limite si collocano, più che su una linea di frontiera, su una terra di nessuno, cioè in un territorio le cui frontiere sono fluide”[6]. È questa la caratteristica, forse la principale, in ogni caso la più significativa, degli stati-limite, che mettono in gioco appunto la questione – soggettiva questa volta – dei propri limiti, interni ed esterni: potremmo dire che lo stato-limite costituisce la “cifra psichica” della nostra epoca.
La definizione di stato-limite ha dato luogo da molto tempo ad una lunga discussione sulla terminologia, la cui insolubilità denuncia l’incertezza di fondo: nuova nosografia o indecifrabilità diagnostica? La tradizionale collocazione dello stato-limite come situazione clinica al limite tra nevrosi e psicosi, infatti, non precisa affatto le sue caratteristiche di entità nosografica singolare, ma sembra designare piuttosto – come suggerisce A. Green – il limite dell’analizzabilità stessa. In effetti, proprio questo sembrano mettere in gioco i “pazienti-limite”: il limite della capacità di intervento, di interpretazione e di contenimento dell’analista; al limite, della sua stessa capacità di pensare, tanto da costringere a ritenere che sia messa in scacco, in queste situazioni, la funzione stessa del pensiero e la possibilità di simbolizzare o di rappresentare, di creare cioè un limite tra presenza ed assenza. È grazie all’assenza dell’oggetto, infatti, che si istituisce la possibilità del pensiero. Certo, “avere” questo limite non è la stessa cosa che “essere” questo limite – è ancora Green a ricordarlo -, in quanto “essere uno stato-limite” consisterebbe nel situarsi perennemente in una situazione di frontiera, il cui confine non è mai definito, ma incerto, fluttuante, perennemente sul punto di disorganizzarsi del tutto. Si è, comunque, imposta alla fine una nuova categoria diagnostica, sconosciuta in precedenza, la cui peculiarità sembra risiedere nella sua perifericità: stato-limite, sindrome borderline, o patologia marginale, tutte le definizioni sembrano evocare una condizione di bordo, di margine, di confine, “un di fuori” delle definizioni, delle certezze, fossero anche quelle della follia. Ma a dispetto della sua perifericità la diagnosi di stato-limite si impone sempre più, ed è sempre più “al centro” della riflessione psicoanalitica.
Ma il limite, così come lo intendiamo qui, rappresenta un confine, o non è piuttosto uno spazio, un‘area in cui possono avvenire passaggi di stato, trasformazioni, deformazioni, transiti? Una “zona”, più che una linea di demarcazione? Una zona in cui il semplice passaggio all’interno, o attraverso di essa, deforma, trasforma, non consente all’organismo psichico di organizzarsi, e di mantenere, questo sì, i propri confini, i propri limiti? Se non a prezzo di uno spostamento continuo tra posizioni diverse, mai acquisite del tutto, perché l’acquisizione di una collocazione significherebbe l’insediamento in un territorio preciso, consisterebbe in un’uscita oltre il confine, in una condizione strutturalmente meglio definita, che è proprio quanto l’“essere-al-limite” non può esperire. Sembra difatti che lo sforzo maggiore, in queste situazioni, non sia quello di trasformarsi, o di adattarsi alle condizioni mutevoli della realtà, ma di cercare di mantenere una parvenza di unitarietà, di identità. Di mantenere i propri confini. “Il limite non è al di fuori del linguaggio, ne è il di fuori: è fatto di visioni e audizioni non linguistiche, ma che solo il linguaggio rende possibili”, dice Deleuze[7]. Se le cose stanno così, il limite ci appare allora non come confine, come cesura, separazione, ma come “il di fuori”: fuori dalle categorie, dalle nosografie, dalle condotte di disciplinazione. Fuori anche dal linguaggio: quando si delira, qualcosa si è già organizzato, si è appunto disciplinato, strutturato, nella percezione, nel linguaggio stesso. Il linguaggio è già un confine, un limite che viene posto alla traduzione linguistica dell’esperienza umana. Ma per conservare il suo fondo di verità, l’esperienza, anche se tradotta in linguaggio, deve riferirsi sempre alle radici affettive e pulsionali della vita psichica. È un limite infatti anche quello della teoria, che deve far uso del linguaggio per parlare dei propri oggetti, ma rimandare il proprio potere di convincimento al sostrato affettivo che le dà forma. E la difficoltà maggiore ed il limite della teoria psicoanalitica sta forse proprio nell’impossibilità di tradurre del tutto l’esperienza inconscia, che è l’oggetto della sua indagine, nel linguaggio dell’esperienza corrente, conscia.
Se nella psicosi qualcosa comunque si struttura, si organizza in un delirio, in un’allucinazione, nelle condizioni “al limite” non si realizza che un vuoto affettivo e rappresentazionale. È per questo che i pazienti-limite sembrano essere fuori della possibilità di trattamento, o almeno lo mettono a dura prova. Sono “il di fuori”. Sospesi tra angoscia di abbandono e angoscia di intrusione, possono aderire perfettamente, a lungo, alle regole del setting o a quelle dell’istituzione, ma non ne tollerano i confini, appunto i limiti. Confini da debordare, per appropriarsi dell’altro ed evitare così di essere abbandonati. Confini da proteggere, per impedire che l’altro intruda nella propria organizzazione psichica. Confini irrigiditi nonostante la propria fragilità. Ma l’angoscia di intrusione rivela anche il suo vero progetto, che è quello di annettere definitivamente l’altro, di valicare ogni limite, così da non potersene mai più separare, e di non essere mai più nella condizione di essere abbandonati. In fondo per i pazienti-limite è proprio la questione dei confini a fare problema: ovvero come poter tollerare la definizione dei limiti propri e altrui. E se la psicoanalisi ci ha insegnato che i confini, i limiti tra condizioni psicopatologiche e una supposta “normalità” sono artificiose, dettate dalla cultura e dal sapere che ci appartiene, evidentemente queste condizioni rappresentano forse solo un modo ulteriore di indicare l’impossibilità della pulsione di raggiungere definitivamente e stabilmente il proprio oggetto. Si tratterebbe allora di un incontro sempre mancato. Ma questa è già un’altra storia, che continua comunque a scriversi.
[1] M. Augé, Non luoghi, elèuthera, Milano, 2009.
[2] B-C. Han, L’espulsione dell’Altro, nottetempo, Milano, 2017.
[3] R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita. Einaudi, Torino, 2020.
[4] R. Käes, Le alleanze inconsce. Borla, Roma, 2010.
[5] Z. Bauman, I disagi delle civiltà. La modernità liquida. Intervista a cura di Andrea Baldassarro, Psiche, 1-2006, Il Saggiatore, Milano, pp. 137-164.
[6] A. Green, Psicoanalisi degli stati limite. Cortina, Milano, 1991, p. 108.
[7] G. Deleuze, Critica e clinica. Cortina, Milano, 1996, p. 11.