Proponenti: Maria Adelaide Lupinacci, Daniele Biondo, Mirella Galeota, Adelia Lucattini, con la collaborazione di Laura Accetti
Report a cura di Mara Adelaide Lupinacci
La proposta di questo nostro seminario portava lo sguardo sul dolore dell’analista quando viene in contatto a livello profondo con il dolore del paziente, sulle difese dell’analista, sulle intense e talvolta non prevedibili risonanze sul proprio vissuto e sul proprio lavoro. Ci ha unito e abbiamo messo in comune lo sforzo di cercare di stare con il dolore nostro e dei nostri pazienti.
Dopo la definizione del tema e una introduzione di Maria Adelaide Lupinacci sono stati esposti e discussi tre casi clinici: un bambino, un adolescente e un adulto rispettivamente di Laura Accetti, Daniele Biondo, Mirella Galeota. I tre casi avvicinavano diverse declinazioni del dolore, in diverse fasi della vita e dell’analisi.
Nel bambino il dolore per la sensibilità alla perdita dell’oggetto, dopo che le barriere autistiche avevano ceduto, intercettava la paura del crollo e della perdita di sé. Nell’adolescente una situazione traumatica familiare e trans-generazionale, che rendeva impossibile una separazione-individuazione fisiologica, si sommava all’impatto della rinuncia edipica e ai fallimenti della ricerca identitaria propria dell’età, conducendo al marasma e al break psicotico.
Sepolto nella personalità funzionante di una donna adulta, il dolore primitivo per il fallimento della relazione primaria formava una lacuna, un buco nero quasi indecifrabile e muto, se non per gli effetti somatici che investivano potentemente l’analista, mentre paralizzavano la vita della paziente. Una osservazione comune nel materiale dei proponenti è stata che una sofferenza molto intensa del paziente o il rischio di sollecitarne o sfiorarne un’area delicata e molto dolente, possa inquietare e provocare un malessere così profondo nell’analista da paralizzarne le facoltà, creando macchie cieche, disturbi somatici, facendogli momentaneamente perdere la posizione analitica e quindi la capacità analitica di figurare il dolore e pensarlo, di comunicare col paziente in un modo significativo e trasformativo.
Anche per l’analista, infatti, si tratta di “soffrire il dolore” (Bion, 1970) cioè di avere una esperienza psichica sul dolore proprio e per il paziente, per poterlo efficacemente aiutare; abbiamo chiamato questo “stare col dolore”. Ma l’analista (come il paziente) può talvolta “sentire il dolore senza soffrirlo” (Bion, ibid.). E’ questo un cimento quotidiano nella stanza d’analisi, micro-fenomeni che proprio per questo possono passare inosservati nella loro essenza. Talvolta invece si verificano fenomeni più massivi, di più lenta risoluzione che possono anche esitare in una impasse.
Nel gruppo formato dai partecipanti e dai proponenti si è creato subito un clima di intensa risonanza sul tema e di libera circolazione del pensiero.
Riassumere tutta la ricchezza della discussione non è possibile, ma ne siamo grati ai partecipanti.
1 – La considerazione centrale è stata che per la gestione del dolore è fondamentale la presenza dell’altro, come nella relazione primaria quando la madre “sta” col bambino che piange, ne nomina la pena, dà un senso e ne sostiene così il senso dell’esistere.
Così per l’analista può talvolta, con pazienti gravi, essere necessario l’apporto di un altro collega o di un gruppo che, a fronte dello scoramento, reimmetta l’analista nel circuito vivo della relazione e gli permetta di assumere l’elemento del dolore.
2 – Viene colta l’importanza di fare una diagnosi accurata del livello del dolore, della sua origine patogenetica. Identifichiamo un dolore dovuto ad un “troppo” dell’oggetto che irrompe, intrude traumaticamente; all’opposto un dolore dovuto al “troppo poco”, alla mancanza, alla perdita. Al limite estremo di ciò si colloca il vuoto a seguito di esperienze di fallimento nella relazione primaria, buco nero difficilmente significabile, esprimibile .
3 – Il dolore, ascoltato e compreso nella sua specificità, deve essere nominato. Viene ricordato il pensiero di Corrao e il concetto di “coinidinia”, la comunanza, il sentire insieme, che si realizza nel nominare il dolore.
4 – Emerge spontaneamente la comune necessità di rivolgersi all’arte ed alla letteratura per trovare, come analisti, nelle forme poetiche o musicali ispirazione ed aiuto a rappresentare e significare nella nostra mente il dolore grezzo, non dicibile, infandum, del paziente. La musica ha avuto un posto particolare, anche perché presente nel materiale dell’adolescente. La musica che può esprimere senza parole (l’indicibile), coinvolge il corpo e le emozioni, avvolge ma tiene conto delle pause, introduce alla alternanza della continuità/discontinuità, alla caducità, alla separatezza.
Vengono ricordati Margherite Duras, Roland Barthes, Fabrizio De André, il Gaçia Lorca che nelle “ninne nanne” metteva tutte le lacrime delle mamme, anche come avvertimento che, nel guardarlo, non si venga catturati nella medusa del dolore. Il richiamo è alla vitalità dell’analista che deve far ricorso anche alle parti vitali di sé.
5 – Molto discusso il circuito dolore-odio-dolore, le differenti utilizzazioni dell’odio. Viene ricordato l’aspetto vivificante della rabbia sottesa al dolore (Zapparoli “Psicosi e segreto”). Viene anche fatto notare che l’elaborazione finale del dolore si realizza quando si cessa la rivendicazione e la pretesa di risarcimento, e ci si può ripagare con le proprie risorse.
6 – “Stare col dolore” è sembrato in fine essere un elemento radicato e costante del metodo psicoanalitico, che attraversa le tecniche specifiche delle diverse fasce di età.
Ci ha commosso ritrovare su una delle copie del lavoro clinico, ritirate alla fine dei lavoro, una terzina dantesca che avevamo noi stessi molte volte rievocata nei nostri incontri preparatori:
Levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’io sfoghi ‘l duol che ‘l cor m’impregna
un poco, pria che ‘l pianto si raggeli.
(Dante, Inferno, canto XXXIII )