Proponenti: Riccardo Romano, Sebastiano Anastasi, Cinzia Carroccio, Giuseppe Grassi, Nicola Nociforo, Andrea Rapisarda
Report a cura di Gabriela Gabbriellini e Gregorio Hautmann
Crisi degli psicoanalisti o per meglio dire della loro identità psicoanalitica (espressione certo non del tutto univoca) più che crisi della psicoanalisi in sé (la quale fra l’altro crisi lo è per definizione): questo il vertice da cui i proponenti il seminario “Etica e psicoanalisi” hanno suggerito di guardare, proficuamente a nostro parere, all’attuale stato della nostra disciplina.
La psicoanalisi , come esperienza di costruzione , all’interno del setting, della realtà psichica, come esperienza di espansione della pensabilità , come esperienza di formazione di un apparato per pensare, ha un rapporto complesso ed ambiguo con la realtà materiale.
La pressione di questa realtà può diventare tale da indurre un blocco della capacità di pensare e di trasformazione ed in sua vece produrre tendenza ad agire (la funzione psicoanalitica è sempre a rischio di deperibilità, Romano, 1992). Superfluo ricordare come all’interno del processo di cura anche gli elementi più clamorosamente concreti del reale, per esempio guerre e morti, erano per Freud da considerarsi alla stregua di resistenze e come tali da affrontarsi con lo strumento psicoanalitico dell’interpretazione (Interpretazione dei Sogni, 1900; Consigli sulla tecnica, 1912). Non possiamo d’altra parte dimenticare il freudiano riconoscimento della necessità di adattare la tecnica, sia pure con i costi non indifferenti che sappiamo, alle ragioni economiche della realtà (Nuove vie della psicoanalisi, 1925).
Ma ciò a cui assistiamo oggi potrebbe essere pensato – ecco l’ipotesi, assai suggestiva, del gruppo di studio che ha proposto il seminario – come l’essere gli psicoanalisti alle prese con la minaccia, da parte della realtà, alla sopravvivenza- la loro e quella della psicoanalisi-minaccia che si costituisce come vero e proprio (falso) mito della fine del mondo. Sarebbe di fronte a questo senso di minaccia, il cui corrispettivo è una forma particolare di angoscia, denominabile angoscia di estinzione e differenziabile da – ed in oscillazione – con l’angoscia di morte, che gli psicoanalisti reagirebbero con la fantasia di salvare se stessi e la psicoanalisi, sacrificando quella parte di sè delegata a contenere la fonte del male. Sacrificando così il metodo psicoanalitico, in nome di un malinteso realismo e utilitarismo (adattamento a pratiche psicoterapeutiche, enfatizzazione delle finalità terapeutiche abbandonando il cardine delle Junktim quale elemento essenziale della psicoanalisi, competizione con altre tecniche d’intervento), gli psicoanalisti s’illudono di salvare se stessi e la psicoanalisi, mentre al contrario, si indeboliscono e la indeboliscono. (Tale modellizzazione è mutuata per analogia da modelli messi a fuoco da gruppi di studio di colleghi argentini che hanno come tema il rapporto tra terrorismo e società civile in Argentina).
Il rimedio proposto, che conseguentemente ne discende, è di muoversi in senso inverso, cioè di rinforzare l’identità psicoanalitica di ciascuno di noi: ruolo cruciale in questo senso giocano il gruppo di colleghi e l’istituzione psicoanalitica ( ricordiamo la funzione dell’establishment quale protezione del mistico dalla distruzione e del gruppo dalla forza dell’inconscio, Bion, Cambiamento catastrofico, 1974).
Su questa proposta, affascinante nella sua apparente intransigenza, il gruppo di seminario, non numeroso, ma psicoanaliticamente appassionato – e la passione è indubbiamente ingrediente necessario dell’identità analitica, così come lo è della relazione analitica – si è trovato a discutere con armonia e disponibilità, per le buone capacità di ascolto di tutti, proseguita durante la pausa conviviale.
Tra i molti contributi sorti dalla discussione ne segnaliamo due che ci paiono meritevoli di ulteriore approfondimento:
1)la psicoanalisi è primariamente metodo di indagine. Essa non è del tutto nostra, l’abbiamo ereditato. E ogni eredità può essere recepita in modo ambivalente. Quanto questa ambivalenza è stata elaborata, e quanto di non elaborato di essa è andato a confluire in una quota distruttiva?
2)Se non possiamo solo considerare la realtà materiale come diabolica seduzione del nulla, con cui non si deve dialogare- come non dialoga l’asceta difronte al demonio-, badando solo a curare l’unità del sé, ma dobbiamo anche tener conto e trattenere rapporti con almeno alcuni aspetti del reale, quanto la relativa difficoltà di fare analisi ad alta frequenza gioca in negativo sulla deperibilità della funzione psicoanalitica? Ed é possibile asserire che tale difficoltà a fare analisi ad alta frequenza è solo il frutto dell’angoscia di estinzione degli psicoanalisti?