Daniela Scotto di Fasano ( discussant nel panel “Identificazione e formazione delle struttu-re psichiche”. Relazioni di Paola Marion, Luca Nicoli, Fabrizio Rocchetto, Elena Molinari)
Vedere senza guardare…
A partire dalla distinzione di Winnicott (1957) tra “precoce” (l’ambiente supportivo, osser-vabile) e “profondo” (inerente la vita fantasmatica, può emergere in analisi), M. si chiede a quale livello – precoce o profondo? – e in quale tempo collocare la sessualità infantile.
Ma: esiste una sessualità ‘infantile’? O c’è solo ‘la’ sessualità, nelle sue multiformi declina-zioni espressive, delle quali una è l’infantile? Stando a quel movimento che si chiama de-siderio, privo del tempo come lo sperimentiamo nella veglia, penso al film di Fincher (2008) Il curioso caso di Benjamin Button, tratto dal racconto di Francis Scott Fitzgerald (1922). Nel film, la coincidenza dell’incontro io-tu avviene solo a prezzo di una perdita irre-vocabile, forse in funzione dei due tempi (incompatibili) della realtà psichica. Infatti, la pul-sione di morte tende a far prevalere il ‘non-figurabile’, il lavoro del negativo essendo radi-calmente ‘altro’ rispetto alle forze pulsionali di vita, centrifughe, per certi versi, rispetto alle fonti inconsce pur di mantenere rimossa la ‘negatività’ della differenza e dell’antinomia. In-fatti, non c’è per Benjamin Button sviluppo: egli non cresce, ringiovanisce. Con il lutto, nel film, si ‘bara’, e infatti non c’è spazio per la dueità; infatti, è la forza della pulsione di morte ad assicurare la presenza-assenza dell’Altro, senza il quale non c’è nessun ‘io’ che parli e desideri. L’origine infatti – (Preta 1991, XV)- è eccentrica rispetto al soggetto. Proprio della dueità perturbante parla a mio parere il lavoro di Marion: la dueità del soggetto, la dueità vita/morte, la dueità dell’io-tu. E, di conseguenza, parla del lutto non solo ineludibile ma: necessario. Lei stessa lo allude quando dice della continua ‘riscrittura’ che operiamo – vi-vendo – delle nostre vicende esistenziali. In tal senso si apre lo scenario del mistero della soggettività: inesauribile perché esposta eternamente (l’analisi è potenzialmente intermi-nabile) alla propria riscrittura, data la sua essenza da sempre-per sempre mancante: è questo, mi chiedo, ciò che ci costringe a rivedercela con l’Edipo mai una volta per tutte?
Una riscrittura consustanziale all’analisi. Dove, all’inizio, dominano l’assenza maligna della dueità, l’opacità della ripetizione tirannica del “caos prima che prenda forma” (Fe’d’Ostiani, 1987, 146) imposto da quei pazienti che hanno una difficoltà enorme a fare legame oggettuale, con i quali si sperimenta un black hole, un torpore, che sconforta l’analista: la ‘sconsolata’ Molinari, il ‘disperato’ Rocchetto. Un torpore “indice del crollo delle difese delegate ad affrontare il trauma dell’oggetto assente. E, anche, della mancanza e totale assenza, da parte dell’ambiente, di rispecchiamento di questa ferita e di questo problema” (idem, 147). A tale proposito, mi chiedo se l’abuso del virtuale e del digitale che a parere di Rocchetto ha protetto Emanuele dal crescere non sia stato, anche, viceversa, il modo che Emanuele aveva trovato per restare in vita in attesa di trovare un ambiente che gli permettesse di poterne fare a meno, in analogia con i minuscoli pezzetti di carta appa-rentemente privi di colore e di forma descritti da Heimann (1992): “Messi in acqua, essi si aprono assumendo forme definite, affascinanti e vivacemente colorate: si chiamano Fiori Cinesi”. Metafora oltremodo pertinente a illustrare, con Racalbuto (1997), il ruolo dell’apparato psichico, o contenitore, che fa assumere significato psicologico alle ‘memorie somatiche’ depositate nella psiche. Contenitore che, a sua volta, necessita di un’altra mente per accedere al mondo dei significati condivisi. Come fossero tracce, scrivevo (2003), che necessitano di un lavoro di costruzione (Freud 1937; Chianese 1997) e di co-narrazione (Ferro 1999; 2002) per arrivare a un significato mentale condivisibile; il senso dei disegni di Giulio nel tempo ma, a monte, nella mente di paziente e analista.
Se si sopravvive, come per fortuna è accaduto a D., a Zito, a Emanuele e a Giulio, lenta-mente, in abbozzi, timidamente subentra il dia-logo di cui parla Rocchetto, o, come prefe-risce Martin Buber, lo Zwiesprache. Che, pur corrispondendo letteralmente al dialogo – di-scorso tra – suona più intimo e personale, cioè più di stimolo a trasformazioni. Possiamo richiamare a questo proposito l’importanza degli Zwischengedanken (pensieri intermedi), che Francesconi (1997, 148) sottolinea come “centrali nella Psicoanalisi, costantemente rivolta all’intendere-fra, in quell’area con-divisa da paziente e analista, assieme dediti a di-sidentificazioni possibilmente felici al fine di istituire e ampliare quello spazio che Freud, in una lettera a Fliess, ha chiamato lo Zwischenreich, lo spazio tra” dueità. Occorre ‘Un’azione che attraversi il vuoto’ (Molinari). La vicenda del funambolo Nik Wallenda da lei narrata a me ha evocato Neve, la bellissima funambola protagonista dell’omonimo roman-zo di Max Fermine, divenuta funambola “per amore dell’equilibrio. […] Era il suo destino. Avanzare passo dopo passo. Da un capo all’altro della vita” (1999, 65). Nel racconto di Fi-tzgerald, a differenza che nel film, Benjamin Button, tornato neonato, viene affidato a una badante, con la quale potrà finalmente iniziare a crescere. “Intendere la voce d’un altro, è ascoltare nel silenzio di sé una parola che viene da altrove. […] Lasciar risuonare la parola d’un altro implica necessariamente che si sospenda ogni ragionamento” (Vasse, 1974, 193). In tal senso, leggo il bellissimo titolo di Nicoli “Mi pongo”. In tal senso, leggo lo splash splash commovente (e vitale) di Molinari con il suo piccolo tiranno, e chiedo a Roc-chetto se il telefonino che in tante sedute è stato l’elemento centrale dell’analisi di Ema-nuele più che essere ciò che gli permetteva di ritirarsi dalla relazione non fosse, al contra-rio, quella parte di sé che doveva-voleva con-dividere con l’analista, esplorandone la va-lenza di oggettoZwischenge oltre la sua valenza – tirannica – di oggetto autistico. In tal senso, penso al lavoro di una giovane collega, Claudia Beschi, da me supervisionato, in cui lo strumento tecnologico – il computer – è stato nel corso di una lunga analisi con un bambino autistico proprio lo strumento mediante il quale si è potuta stabilire un’intensa e proficua alleanza terapeutica nei termini in cui ne parla Etchegoyen (1986) riferendosi alla cooperazione originaria bocca–seno, dove intimità, fiducia, dipendenza reciproca e piacere di lavorare insieme (con un reale coinvolgimento di affetti) sono ingredienti di un’esperienza che può diventare un fatto interno. Con Cattelan scrivevamo (2011) che “Per orientarci, come dice Klein, disponiamo solo del controtransfert che possiamo tradur-re in gesti, atteggiamenti, sfumature, toni di voce, in un assetto mentale e una disposizione interiore che diano un messaggio di ricevuto (Cattelan 1995)”. Come è accaduto al paziente di Beschi, che con lei, per mezzo della digitalizzazione, ha potuto scoprire (come scrive Rocchetto) di essere in grado di fare esperienza delle emozioni. Come Zito con Nicoli, che con il pongo si pone inerme in dueità, abitando finalmente lo Zwischenreich, lo spazio tra, dove depositare gli incubi della sua terribile infanzia, della sua ‘ferita all’origine’ (Biondo, 2012), delle ‘memorie somatiche’ depositate nella psiche. Che infatti, ora che l’analista conosce la sua storia, può dimenticare ‘di nuovo’: nei due tempi dell’accadere psichico. Ma un ‘dimenticare’ che sa di archiviazione e non più di diniego. Come Emanuele con Rocchetto (che ri-significa la propria zoppia infantile e la può finalmente con-dividere), come Giulio con Molinari, quando, forse per la prima volta ‘giocando’ con l’acqua, analista e paziente segnano il territorio con le loro impronte intrecciate: in dueità. Questo ‘durante’, in seduta. Con un linguaggio freudiano, nel ‘primo’ tempo. A posteriori, nel ‘secondo tempo’, l’analista potrà accorgersi che avevano fatto con i piedi scarabocchi d’acqua. “Questo bambino che non aveva mai osato metter fuori di sé un’emozione viva aveva provato a rovesciare l’acqua in uno spazio sentito prima come vuoto, come se fosse nata in lui la fiducia che qualcuno potesse farne qualcosa”.
Non ‘come fosse nata’ in lui: la fiducia ‘era nata’ in lui, perché aveva visto qualcuno che nello Zwischenreich, lo spazio tra dueità, ne aveva ‘fatto qualcosa’ nella dimensione della Nachträglichkeit, la stessa che forse un giorno permetterà alla paziente di Marion di anda-re, in sogno, al funerale del proprio padre. Per tutti (ma non è così sempre, in analisi?) l’analista deve sperimentare il limite posto al ‘sapere su’ quel soggetto, già ‘soggetto’ nel momento in cui si rende – ed è – ‘segreto’ all’altro, al quale pone un ostacolo al possesso della propria verità. “Un bambino si nasconde… Ma allora è già un si?” (Deligny, 1980, 21). Solo se affrancato dal bisogno del possesso il ‘segreto’ potrà svelarsi nella dueità. All’analista spetta ‘mantenere gli interstizi’ (Deligny, 1980, 12) per decifrare i giri tortuosi della linea errante del paziente che segnalano che ci cerca; badare a quanto può risulta-re dal caso: “Si deve badare alla dimensione del bianco: la linea errante ci sfugge ma alla fine l’emozione c’è” (Deligny, 1980, 18): “Nient’altro che del bianco cui badare” (Rimbaud).
Bibliografia
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