PIACERE E TEMPORALITÀ NELLA SOGGETTIVAZIONE PSICOANALITICA
ANDREA SCARDOVI
UN IMPORTANTE PASSAGGIO FREUDIANO
In “Al di là del principio del piacere” (1920) Freud avvia un complesso passaggio teorico che troverà il suo compimento soltanto tre anni più tardi, nel lavoro su “Il problema economico del masochismo” (1924). Nel primo di questi due saggi, messi in correlazione dal loro stesso autore, viene esplorata la possibilità di intendere il piacere non più come scarica di una quantità, bensì come qualità. Freud ipotizza che il piacere possa corrispondere a una sorta di qualità temporale, a un ritmo che potrebbe riflettere il modo in cui le sensazioni di segno positivo e negativo possono susseguirsi, o bilanciarsi nella loro alternanza; che cosa davvero corrisponda a questo ritmo rimane però soltanto un’ipotesi, e Freud stesso segnala che poterlo comprendere permetterebbe un significativo passo avanti per il pensiero psicoanalitico. Persiste inoltre in questo lavoro del 1920 una sovrapposizione fra principio di costanza e principio di piacere che appare sostanzialmente irrisolta. È un primo aspetto che voglio mettere in evidenza: se questa sovrapposizione non venisse riesaminata alla luce di un’articolazione specifica delle forze in gioco in questi principi – quelle legate alla scarica, alla distruttività e alla coazione a ripetere, rispetto a quelle in gioco nel piacere – darebbe luogo a una sostanziale confusione: identificare il piacere con la sola tensione verso una scarica definitiva rischierebbe di confondere la ricerca del piacere con la pulsione di morte. Il saggio del 1924 su “Il problema economico del masochismo” si apre con l’esplicita dichiarazione di Freud di voler superare le confusioni rimaste irrisolte in “Al di là del principio del piacere”. Presenta quindi un’articolazione dinamica del rapporto fra principio di costanza, principio di piacere e principio di realtà, che appare essenziale per la comprensione del piacere psicoanalitico. In questo lavoro il principio di piacere viene considerato come una modificazione del principio di costanza, come elemento di una trasformazione che interviene quando l’individuo, non potendo realizzare alcuna scarica esaustiva, incontra nel rapporto con l’ambiente una qualità che gli consente di accedere alla capacità di dilazionare nel tempo l’urgenza, altrimenti inderogabile, della scarica. Ciascun principio si propone ora uno scopo distinto, che contribuisce alla sua definizione: il principio di costanza persegue la diminuzione quantitativa della pressione dello stimolo; il principio di piacere la reperibilità di una caratteristica qualitativa dello stimolo; il principio di realtà la capacità di dilazione temporale della scarica dello stimolo, con la conseguente tollerabilità della tensione spiacevole. In ragione di questa nuova accezione “non si può più respingere – conclude Freud – la definizione del principio di piacere come custode della nostra vita”. Dopo un complesso itinerario speculativo il piacere viene a rappresentare una qualità dinamica che consente di accedere al principio di realtà, e sembra costituire un elemento essenziale di quella possibile trasformazione della quantità in qualità di cui consiste il funzionamento dell’apparato psichico. È un ottica in cui il piacere non è più sovrapponibile all’edonismo, e rivela piuttosto una portata centrale per i processi di soggettivazione dell’individuo, in particolare per la sua capacità di vivere la temporalità dell’esperienza.
PIACERE, TEMPORALITÀ, SOGGETTIVAZIONE
Nel suo libro “I destini del piacere” (1979) P. Aulagnier si pone una domanda centrale per la riflessione psicoanalitica su questo tema. Quale è, si chiede Aulagnier, il premio di piacere che permette all’Io di investire uno scorrere del tempo che lo conduce verso la morte? Che gli consente cioè di vivere, di “abitare” la temporalità dell’esperienza? Riprendendo le riflessioni freudiane considerate, Aulagnier indica che perché il tempo risulti abitabile, senza dover sottostare alla necessità di una scarica immediata della tensione, occorre che ci sia la “promessa” di un piacere possibile. Ma di quale piacere si tratta? Aulagnier lo individua in maniera precisa: si tratta del piacere fornito dalla sensazione della possibile corrispondenza fra rappresentazione di parola e rappresentazione di cosa. La sensazione di questa corrispondenza rappresenta per l’individuo una fonte di piacere soggettivante, un fondamentale piacere auto-riconoscitivo che svolge una funzione specifica nel processo di soggettivazione (cfr. Spipedia, 2013). Perché l’individuo sviluppi una continuità del senso di sé, e arrivi a poter esistere come soggetto, è necessario che senta di poter trovare una conferma al legame fra le parole e le cose a cui lo svolgersi della propria esperienza lo espone, in particolare nella relazione con il genitore, e in senso lato con il caregiver, che Aulagnier chiama appunto il ‘portaparola’. Similmente, laddove si sia creata una discontinuità, come accade nelle situazioni psicopatologiche, perché sia possibile ricominciare a vivere la propria temporalità occorre disporre della possibilità di ripartire da un legame confermativo fra le rappresentazioni di parola e le rappresentazioni di cosa che l’individuo incontra nella sua esperienza di relazione con il curante. Lacan (1966) ha messo in luce come fra la parola e la Cosa (“Das Ding”) non possa sussistere alcuna relazione di identità concreta, e come questa relazione debba essere necessariamente segnata da una perdita, pena la negazione dell’interdizione dell’incesto, di cui egli ravvisava la struttura nel linguaggio. Un risvolto di questo importante pensiero teorico – che a mio avviso Lacan mutua da una conferenza di Wittgenstein del 1929 – risiede nel fatto che non essendoci fra le parole e le cose una identità garantita, nell’uso delle parole occorre cura e responsabilità. Ma se ragioniamo in termini di soggettivazione, per poter accedere a quella responsabilità e a quella cura occorre riconoscere, con Aulagnier, l’importanza di poter sperimentare una corrispondenza fra parola e cosa, anche soltanto in termini illusivi. Abbiamo bisogno di una illusione perché ci sia un avvenire. Riconoscere l’importanza del piacere di questa corrispondenza può contribuire ad avvicinare il problema del rapporto fra le rappresentazioni di parola e di cosa al modo in cui questi elementi, che pertengono alla metapsicologia, trovano spazio nella relazione fra il bambino e l’adulto, cosi come in quella che si può sviluppare fra paziente e analista. Sia nell’itinerario del soggetto nascente, che in quello della persona in analisi, è in gioco un fondamentale piacere confermativo del sé e dell’oggetto che riguarda contemporaneamente il linguaggio e la relazione, e che ha a che fare con la possibilità di arrivare a sentire autenticamente di “esserci”. Che rimanda cioè a quella possibilità di “sentirsi reali” di cui Winnicott ha parlato in diversi passaggi della sua teorizzazione (1968; 1969).
MIO FIGLIO DI TRE ANNI CONOSCE L’AULAGNIER?
Siamo intorno ai tre anni di età di mio figlio. Io e mia moglie stiamo facendo due chiacchiere in soggiorno mentre Camillo gioca seduto vicino a noi. A un certo punto, nel nostro dialogo, citiamo una sigla, “SCS”, che corrisponde al nome dell’azienda in cui mia moglie lavora. Poco dopo aggiungiamo che dovremo prenderci nota di una cosa emersa nel discorso in quel momento, per cui diciamo qualcosa del tipo: “bisogna che ci facciamo un memo”. Passano alcuni istanti, Camillo ci guarda, e dice: “Ho palula”. Incuriositi, gli chiediamo di che cosa: “Ho palula di scs e memo”, la sua risposta. Istintivamente, e forse un po’ genericamente, diciamo sorridendo che non c’è da aver paura, ma Camillo insiste, qui con aria già un po’ giocosa, che “scs e memo fanno palula”. Rapidamente queste sigle diventeranno i nomi di possibili “mostri” con cui verranno ingaggiati inseguimenti e lotte avventurose, e che entreranno a far parte del nostro lessico famigliare.
Qualche tempo dopo raccontavo di questo scambio a un caro amico, anche lui psicoanalista, che ha una bimba di qualche mese più piccola di Camillo. Ascoltato questo episodio il nostro collega mi ha comunicato che un dialogo di questo tipo era avvenuto anche fra lui e sua figlia. Avendole detto che era “tempo di andare a nanna” la sua bimba aveva replicato dicendo: “palula”. Alla conseguente domanda dei genitori se per caso avesse paura di fare la nanna, la risposta della piccolina è stata: “No. Ho palula di.. tempo”. La situazione si è risolta con una buona invenzione dei genitori che hanno mostrato alla figlioletta l’oscillazione di una piccola luna-orologio appesa nella sua camera, per mostrarle qualcosa che avesse a che fare con ciò che chiamiamo “tempo”, e che potesse fornirle un riferimento.
La natura affettuosa di questi scambi non è priva di valore per la teoria. Come scrive Aulagnier: “Il desiderio del pensante è sottomettere la cosa all’immagine di parola mediante la quale la nomina. I supporti del progetto identificatorio, ovvero gli ideali dell’Io, sono investiti grazie all’illusione della supremazia dell’immagine di parola”. E’ importante sottolineare che questa “illusione di supremazia dell’immagine di parola” ha due facce. Da un lato riguarda il timore che, senza di essa, una corrispondenza fra l’immagine di parola e la cosa non possa esserci, lasciando il soggetto nell’incertezza di come orientarsi di fronte a una parola che non è ancora tale. Penso che per Camillo e la sua piccola “collega” si tratti della necessità di trovare un riferimento intorno a cui poter organizzare un proprio mondo, uno spazio praticabile e percorribile come quello degli adulti, che sembrano abitare il linguaggio con facilità. “Scs”, “memo” e “tempo” costituiscono suoni collocutivi che suscitano la sensazione di un riferimento possibile, di cui viene sperimentata la mancanza e conseguentemente anche il desiderio. La paura di non trovare questo riferimento, e il desiderio di potervi attingere, esprimono altresì la sopravvenuta capacità di sentire che fra rappresentazione di parola e rappresentazione di cosa non c’è una corrispondenza propriamente garantita, ma che proprio per questo essa risulta desiderabile. Questa assenza di corrispondenza fra parole e cose risulterà sufficientemente avvicinabile, e diverrà per il soggetto un esprimibile motivo di timore e di desiderio, in ragione della qualità del contatto con l’ambiente in cui viene sperimentata, della praticabilità degli scambi che avvengono con i genitori, della disponibilità e utilizzabilità degli oggetti che si vanno gradualmente internalizzando, sino alla loro possibile introiezione.
(PARTI CLINICHE OMESSE)
BIBLIOGRAFIA
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