Diventare soggetto ed erosione dello spazio potenziale
Fabrizio Rocchetto
Diventare soggetti, evolvere ed esistere. La sofferenza psichica di non essere, altro rispetto al senso di vuoto: “è una gioia rimanere nascosti e un disastro non venire trovati(1)” . Quando si è presenti in internet non ci si può nascondere e si è sempre trovati. Ipertrofia del virtuale: sembra che ormai tutto dipenda e venga fortemente influenzato dalla tecnologia e dai suoi tempi.
Nel terzo seminario dei Seminari Tavistock, Bion nel rispondere ad una domanda relativa all’esperienza di O, cita un verso dell’Ecclesiastico: “La sapienza dello studioso nasce da molto tempo libero; se un uomo vuole essere saggio deve essere alleggerito da altri compiti” (Bion, 2005, 65). Bion prosegue: “L’individuo deve essere sottoposto alla disciplina necessaria per acquisire sapere; dopo(2) di che ha la possibilità di conseguire la sapienza. Ma anche questo dipende dall’opportunità di tempo libero. Quindi sono molte le ragioni che sostengono l’accumulare tempo libero nel quale idee selvagge, stupide, idiote hanno la possibilità di germinare, per quanto siate persuasi che il risultato sarà la nascita di un mostro” (ibid.).
Il riferimento a Bion riguarda il tema relativo all’esperienza di “essere” della cui scoperta gli stessi pazienti possono sentirsi sorpresi. Ma perché questa esperienza possa germogliare sappiamo che è indispensabile la disponibilità del tempo necessario, una quantità incalzata dai ritmi imposti dalla vita quotidiana e che pone la stessa psicoanalisi sotto assedio rispetto alla necessità di essere terapeuticamente tempestiva, valida, competitiva.
Winnicott definisce l’ “esperienza culturale” come un’estensione dei fenomeni transizionali e del gioco ponendo l’accento sul ruolo dell’esperienza e dell’ereditarietà della tradizione: “Penso a qualcosa che è parte del patrimonio comune dell’umanità, a cui i singoli e i gruppi di individui possono contribuire, e da cui tutti noi possiamo attingere se abbiamo un posto dove mettere ciò che troviamo(3)”. (Winnicott, 1967, 171). Il paziente “digitalizzato” porta il bisogno di uno spazio dove collocare le proprie esperienze, uno spazio psichico che non sia un hard disk. Civitarese (2013) segnala come in psicoanalisi il paradigma della “intermedietà” sia sempre stato presente e come lo stesso Freud avesse definito quest’area das Zwischenreich, il regno di mezzo. “Questa ossessiva attenzione della psicoanalisi allo spazio intermedio si spiega con il fatto che è lo spazio dell’inconscio […]” (Civitarese, 2013, 144). Winnicott la definì(4) come l’area che viene “[…] concessa” al bambino “tra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sulla prova di realtà”. (Winnicott, 1951, 287).
Il tema della realtà virtuale(5)influenza sempre più la questione dell’essere proponendo scenari nei quali le specifiche, recenti e innovative caratteristiche dell’ambiente virtuale pongono interrogativi circa la costruzione dell’identità (Marzi, 2013).
Se lo spazio potenziale definisce “[…] un campo in cui avvengono i processi emergenti sia del sé che dell’oggetto e in cui hanno luogo le transizioni tra intrapsichico e intersoggettivo” (Hernandez, Giannakoulas, 2003, 118) quale influenza ha il virtuale nel processo di soggettivazione? Marzi (2013) evidenzia come il cyberspace possa rappresentare un luogo/non-luogo in cui si manifesta la perdita di “spazio di gioco” ovvero, paradossalmente una “[…] sorta di matrice ‘pre-potenziale’, a una dimensione di pre-lavoro mentale” (Marzi, 2013, 179). Si può pertanto considerare il virtuale come un’opportunità, indubbiamente una nuova modalità rispetto al passato, per accedere ai luoghi della propria mente. Stiamo però forse assistendo anche ad un’eccessiva attenzione posta sul ruolo del digitale e del virtuale nel caratterizzare il funzionamento psichico? Se nel virtuale si esprime comunque il Sé, il rischio per il paziente è di disporre di un’area potenziale erosa nella sua funzione evolutiva perché l’abuso del virtuale non contribuisce alla percezione oggettiva basata sulla prova di realtà con conseguenze nella costruzione dell’identità. Per Winnicott perché esista uno spazio potenziale è necessaria la presenza di “fiducia” (trust) e “attendibilità” (Winnicott utilizza reliability a cui preferisco la traduzione di affidabilità) (Winnicott, 1971, 186). Nel trattamento di bambini e adolescenti – ma anche di adulti – è frequente che i pazienti vengano alle sedute con il telefonino – non penso svolga una funzione transizionale quanto protesica – “incollato” alla mano, sicuramente rassicurante nell’incontro con l’analista. Il telefonino è strumento di comunicazione, memoria, musica, video, gioco. Facilmente nel corso delle sedute i pazienti, bambini e adolescenti, abbandonano la tecnologia se viene offerta loro la possibilità di un gioco “elementare” (pupazzi, macchinette ecc.), il disegno o anche il semplice parlare. La tecnologia digitale espone indubbiamente ad una nuova sensorialità come segnalato da Preta (Preta, 2012) che implica modalità di simbolizzazione differenti e particolari rispetto al periodo pre-digitale.
Ma qual è l’economia dell’erosione dello spazio potenziale? Probabilmente il vantaggio primario risiede in un deficit nella negoziazione tra soggettivo e oggettivo con una prevalenza del soggettivo che comporta tra le varie conseguenze la possibilità di eludere la conflittualità edipica. Il maschile e il femminile in ambiente digitale perdono definizione così come il materno e il paterno. Il tramonto dell’Edipo, che come sappiamo ha percorsi diversi nel maschio e nella femmina, coincide con il distanziamento dalla “confusività” (De Simone, 2002) a condizione però che i figli abbiano la possibilità di confrontarsi con oggetti interni sufficientemente definiti e genitori reali e sinceri, una condizione che il virtuale non sostiene. Si può così assistere ad uno “smarrimento edipico” che si caratterizza per la perdita della sua funzione evolutiva, per figure genitoriali sbiadite che riverberano una indefinizione nella costruzione e nell’organizzazione delle istanze psichiche.
Emanuele
Emanuele ha diciotto anni. Per un anno mi ha fatto disperare. È forse la stessa disperazione vissuta dai genitori che lo hanno portato (un anno prima) in terapia a causa di comportamenti aggressivi e tossicodipendenza da marijuana. Emanuele è sveglio e intuitivo ma vive un livello di pensiero con qualità maniacali. È iper in qualsiasi cosa faccia e l’efficienza tecnologica è un modello: nello studio quando studia, nell’arrabbiarsi, nel vivere quelle che per lui sono passioni, nell’ascoltare la musica, nel fare sesso, nel drogarsi, nello spacciare. È molto socievole e seduttivo: riesce a farsi detestare dai professori che conquista successivamente con buone prestazioni scolastiche anche se la frequenza è minima. L’Io è debole, il Super-Io rigido, gli aspetti pulsionali sembrano incontenibili. Nel corso del primo anno di terapia sono stato sommerso dalla sua logorrea, dalle sue lamentele sulla vita, dalla sua insaziabilità. Nulla sembra placarlo tranne farsi le canne. Ma arriva un punto nel quale anche drogarsi non lo placa perché non gli dà adrenalina. E allora inizia a spacciare, non tanto, acquista meno di un etto che si vanta di vendere in un lampo, quanto basta per farmi sentire preoccupato per un suo possibile arresto. Con le ragazze – così racconta – ha rapporti sessuali compulsivi, è ricercato per le sue prestazioni e ha sviluppato un sentimento di superiorità: sente di non avere rivali in nessun luogo, (analista incluso). Proprio il riferimento al suo sentirsi progressivamente indifferente a tutto “Ha ragione dottore, è proprio così!”, apre un varco verso un dia-logo caratterizzato principalmente da un suo interesse per le mie opinioni su quello che gli accade. La madre (nel letto della quale ha dormito, per via della separazione tra i genitori, fino al compimento dei sedici anni, poco prima dell’inizio dell’analisi) è vissuta come una “rompicoglioni” e quindi viene zittita da bestemmie e insulti oltre che dal danneggiamento della casa quando si sente minimamente contraddetto. Un ammonimento anche per me. Emblematico, nel rapporto con il padre, è l’averlo “steso”con un pugno (confermato dai genitori) perché lo aveva ripreso verbalmente in modo troppo duro. Aprono tenue possibilità di pensare miei interventi insaturi, nella direzione di sostenere la sua possibilità di sentire e pensare. Commentiamo brani dei testi delle canzoni di Noyz che inizia a cantare in seduta come “Ho la visiera sopra gli occhi pe’ n’ vedè sta merda, la faccio giorno e notte oltre ogni limite e confine, cuciti la bocca quando sputo rime!” (Noyz Narcoz da “Guilty”) oppure “vorrei pisciare sulla bara di tua madre, merda, il giorno che hai deciso di fare la guardia” (“Butterfly knife”) che recita a memoria con foga. Ho l’impressione che Emanuele sia stato costretto ad adottare difese contro l’urto materno – la madre ambivalentemente amata e odiata – per la latitanza paterna – un padre “virile” con le donne ma fuggitivo con la madre (di Emanuele). Emanuele non può accedere ad uno scenario edipico, cullato in una “identità mistica indifferenziata” che lo angoscia, impedito ad accedere proprio dalla conflittualità paterna irrisolta ad una “identità edipica e logica differenziata “ (Russo, 2009, 24). Nel corso delle sedute un elemento centrale è il telefonino che lo incalza – chiama, risponde alle telefonate, lo usa per sentire musica, per giocare – e di fatto gli permette di ritirarsi dalla relazione. Mi interrogo su quale senso dare a questo oggetto e alla fine lo considero come lo strumento che gli permette di associare, rispecchia la qualità della sua relazione con l’oggetto ma anche la sua impossibilità di poter “godere” della sua creatività. Silenziosamente, Emanuele mostra di appropriarsi del setting: arriva puntuale e fatica ma accetta di andarsene quando il tempo finisce. Non salta mai una seduta. Emanuele inizia a farmi ascoltare e cantare sempre più canzoni di Noyz che accolgo come poesie di cui accogliere la forza espressiva, nelle quali sente di rispecchiarsi, significati che gli restituisco e che sembrano sorprenderlo “davvero pensa questo?”.
Riesco a intervenire con commenti brevi quando ho l’impressione che il suo “corpo” possa tollerarli e non vengano respinti attraverso l’iperattività. Quando dico qualcosa che gli pare sensato si ferma, sorride, mi fissa, annuisce puntandomi il dito “Dottore, m’è piaciuto”.
Poiché gli piacciono molto i testi delle canzoni, gli chiedo se forse non gli piacerebbe anche scrivere. Mi aggancio ad un sms che mi aveva inviato il giorno precedente(6): “Certo! Ottima idea! Ma non ce la faccio a scrivere!” Gli dico che potrei essere il suo scrivano e potrebbe, lentamente, dettarmi un suo racconto visto che ha pensato di smettere di spacciare. Accetta. Per la prima volta perde la logorrea, diventa riflessivo sulle cose che mi deve dire, la scelta dei vocaboli, rispetta i miei tempi di battitura (uso il portatile…) anche se cammina per la stanza. Ecco l’inizio del racconto:
“19 novembre. Sono Emanuele (suo nome di fantasia). Ho diciotto anni, vivo a Roma e voglio raccontarvi la mia storia. Perché? Perché spero che qualche altro ragazzo che la leggerà potrà sentirsi compreso soprattutto in questa età così piena di dolori e contraddizioni.
Tutto inizia nel lontano 3 marzo del 1995, all’ospedale Fate Bene Fratelli. Sin da piccolo ho presentato problemi. Il dottore dopo che ero nato, chiamò in separata sede mio padre per riferirgli che avevo un piede torto. Nonostante ciò mio zio che oltre ad essere un grande ingegnere era anche una magnifica persona (che non ha niente a che vedere con la sorella, cioè mia madre), pagò di tasca sua una costosa operazione per correggere il difetto perché ci teneva molto a me. I primi anni vivo un’infanzia serena ma a 4 anni i miei genitori si sono separati. Nel 1999 ho subito questo lutto: la separazione dei miei genitori. Fine della prima parte”. Siamo entrambi sorpresi perché è come se un pensiero sospeso avesse preso forma. Non faccio alcun commento ma resto colpito dal riferimento alla sua nascita, alla malformazione, all’infanzia, all’uso del termine lutto per descrivere la separazione dei genitori. Emanuele si veste con lentezza alla fine della seduta ricordandomi i suoi racconti sulla rilassatezza indotta dalle canne. Solo che in seduta la canna non se l’è fatta.
Conclusioni
Attraverso una diversa esperienza dello spazio e del tempo e la paradossale sovversione dell’autorità sostenuta dalle libere associazioni (Bollas, 2013) il paziente “digitalizzato” può recuperare nel corso dell’analisi la propria soggettività.
Non ritengo si stia assistendo ad una scomparsa dello psichico come afferma la Kristeva (1993) quanto ad una erosione di aree di funzionamento (sostenuta da un abuso del digitale/virtuale) all’interno di processi di adattamento che influenzano lo sviluppo delle strutture psichiche. La mole di informazioni per cui probabilmente non si dispone ancora di adeguati modelli di gestione e metabolizzazione si scontra con la dimensione del tempo. C’è un limite di tempo oltre il quale non si può accelerare un processo ed è il tempo necessario per la maturazione, un processo che può rimanere sospeso e che non ha surrogati. A fronte di un panorama di inquietudine – come segnala Pontalis – caratterizzato anche da un “trionfo arrogante e generalizzato delle tecno-scienze” una “crisi di fiducia che vince gli psicoanalisti stessi”(7) “[…] ecco che un pensiero che ignoravamo prima che si formulasse viene da non si sa dove, e allora l’analisi è la giovinezza stessa!” (Pontalis, 1997, 33-35) . L’uso della droga come la dipendenza dalle tecnologie ripropone l’addiction(8), termine usato da Winnicott (1951b) per indicare una regressione ad uno stadio primitivo nel quale i fenomeni transizionali erano indiscussi. Resto sorpreso dal racconto di Emanuele ed in particolare dalla scoperta della sua “zoppia” – ricordare per Emanuele è riportare al cuore, tollerare e fare esperienza delle emozioni – e di come sia stato in grado con poche parole, di descrivere le fonti di una profonda sofferenza che ha disturbato il suo sviluppo, minaccia il senso d’identità e la sua costituzione come soggetto. L’abuso del virtuale e del digitale gli hanno permesso di sottrarsi al crescere differendo il confronto con il reale e con se stesso. Penso che Emanuele attraverso l’analisi abbia scoperto un modo diverso di rapportarsi con il tempo e lo spazio per iniziare una nuova (lunga) strada nella costruzione della propria identità attenuando le sue “dipendenze tossiche”: ha smesso di spacciare, ha diminuito il consumo di droga ed è meno aggressivo. Ma lo spazio, come segnala Winnicott, per essere utilizzato prima deve essere offerto (e tutelato).
Note
(1)Winnicott citato da Innes-Smith, 2003, 13.
(2)in corsivo nel testo.
(3)in corsivo nel testo.
(4)”[…] come posto-di-riposo, (resting place) per l’individuo impegnato nel perpetuo compito umano di mantenere separate, e tuttavia correlate, la realtà interna e la realtà esterna” (Winnicott, 1953, pp. 25-26).
(5)a cui preferisco il termine di realtà simulata.
(6)”Non credevo possibile che un corpo contenesse tanto odio…che non posso odiare così…un sentimento così irreparabilmente sentito”
(7)caratterizzata, sempre per Pontalis, dalla “svalutazione e mediatizzazione dei loro concetti (Edipo, castrazione, pulsione, fantasma e persino pulsione di morte) […], tutto ciò sembra indurre una certa tristezza” (Pontalis,1997, 34).
(8)“[…] parliamo di addiction quando ci riferiamo a una forte dipendenza da qualcosa”(Rosenfeld, 2013, 185).
Bibliografia
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Bollas C. (2013): La mente orientale. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013;
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De Simone G. (2002): Le famiglie di Edipo. Borla, Roma;
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Kristeva J. (1993): Le nuove malattie dell’anima. Borla, Roma, 1998;
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Pontalis J.B. (1997): Questo tempo che non passa. Borla, Roma, 1999;
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Winnicott D.W. (1953): Oggetti transizionali e fenomeni transizionali. In: Winnicott D.W. (1971): Gioco e realtà, Armando Editore, Roma, 1974;
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Winnicott D.W. (1971): Il luogo in cui viviamo. In: Winnicott D.W. (1971): Gioco e realtà, Armando Editore, Roma, 1974.