Centro di psicoanalisi romano e Centro psicoanalitico di Roma
In data 23 e 24 giugno 2017 si sono tenuti due incontri, organizzati dal gruppo di ricerca “Geografie della Psicoanalisi”, insieme ai due Centri Romani.
L’incontro del 23 giugno, sul tema “Psicoanalisi e processi culturali”, ha visto come protagonista l’analista indiano Sudhir Kakar, Presidente della Psychoanalytic Dehli Society, di cui è stato recentemente tradotto in italiano l’ultimo libro “Cultura e Psiche. Saggi scelti”. Hanno introdotto e commentato la relazione di Kakar Alfredo Lombardozzi e Lucia Monterosa.
L’opera prolifica di Kakar, autore di molti saggi e romanzi, scaturisce dalla sua vita e dalla sua formazione, svoltasi tra India e Occidente (principalmente in Germania, dove si è indirizzato verso la psicoanalisi intraprendendo il training).
La riflessione di Kakar è centrata sui modi in cui la vita mentale di un individuo si costituisce, in un’interazione complessa tra “cultura, ambiente familiare, bisogni e fantasie basate sui desideri”.
A livello inconscio, cultura e psiche si co-creano, modellandosi reciprocamente.
La sua lezione metodologica ci invita a riflettere sulle premesse ideologiche e culturali, sui sistemi valoriali e di significato da cui originano i nostri modi di agire e di pensare, dimensioni tanto abituali e condivise da poter sfuggire alla nostra considerazione.
I modi di concepire i rapporti umani, l’identità individuale, quella maschile e femminile, la famiglia, il matrimonio, l’educazione dei bambini, non possono non risentire di assunti culturali che penetrano, dandogli forma, nel nostro inconscio.
Ogni terapia è un’inculturazione, afferma Kakar, e l’analisi non è diversa dalle altre. In tanti modi l’analista può comunicare al paziente le sue visioni del mondo, i suoi concetti rispetto a ciò che è normale e normativo. Così il paziente, spinto da dinamiche transferali, può cercare di conformarsi alle aspettative dell’analista. Questo rischia di espungere importanti parti del sé del paziente dal campo della comprensione analitica.
Nella sua relazione, Kakar ha passato in rassegna alcuni concetti nodali esaminandone la differente declinazione in Occidente e in India.
Il più importante è il concetto di “connessione” che sottende la visione indiana del corpo e della mente.
In primo luogo la connessione del corpo alla natura e al cosmo, tale per cui il corpo ha un incessante interscambio con l’ambiente naturale mentre nella cultura occidentale il corpo è un’entità a se stante con un preciso confine (“una fortezza”). Allo stesso modo nella visione indiana non c’è una cesura corpo-mente visto che sono fatte della stessa materia: il corpo è una forma grezza di materia e la mente una forma più tenue.
Sempre la connessione è alla base della coscienza personale, non intesa come epifenomeno di un cervello isolato, ma come espressione di una coscienza universale che tutto pervade: la coscienza individuale scaturisce dal filtro che il cervello individuale opera sul flusso di coscienza universale. Artisti e mistici riescono a volte a scavalcare il filtro per connettersi alla coscienza pura originaria.
L’identità individuale indiana è sociale, il sé è costituito da rapporti sociali, il senso di identità ha un carattere più fluido, perché costantemente modificato dall’interazione con l’ambiente.
Kakar precisa comunque di non voler istituire una semplicistica dicotomia tra un sé occidentale, individuale e autonomo, e un sé indiano relazionale e transpersonale. Queste due dimensioni costituiscono una polarità presente in tutte le principali culture e ogni cultura, in differenti fasi storiche, può dar rilievo a un aspetto piuttosto che all’altro.
Anche la sfera emozionale risente della dimensione culturale: in India le emozioni primarie, le più facilmente esprimibili, sono quelle che rimandano a una dimensione interpersonale (la simpatia- empatia, il senso di comunione con gli altri, la vergogna, per citarne alcune), mentre quelle più legate alla sfera individuale (rabbia, senso di colpa) sono secondarie e meno evidenti. Così, ad esempio, l’orgoglio per il raggiungimento di un obiettivo individuale si fonda sulla soddisfazione che questo arrecherà alla propria famiglia.
Tali considerazioni hanno profonde ripercussioni sugli obiettivi che un’analisi persegue. Per una mentalità indiana lo sviluppo di risorse e di attitudini individuali confluenti in una maggior libertà di lavorare, amare, giocare, potrebbe essere insufficiente se a esso non si abbina un’integrazione armoniosa del singolo con la famiglia e il gruppo: un valore dominante dell’identità indiana secondo Kakar perso nell’ Occidente post-illuminista. Così una cura analitica che persegua uno sviluppo della dimensione individuale attraverso un’emancipazione dai rapporti familiari potrebbe apparire sconcertante ai familiari del paziente.
Nel lavoro coi pazienti, indiani o occidentali, Kakar si riferisce a una psiche in cui sono rappresentati l’inconscio dinamico individuale e quello culturale, legati e interagenti. Il lavoro analitico consiste nel favorire lo scambio e l’evoluzione congiunta delle due dimensioni fondanti della mente.
Nel suo commento, Lucia Monterosa ha sottolineato l’importanza del contributo di Kakar alla psicoanalisi contemporanea: una ricerca capace di ampliarne la visione teorica e di “metterne in tensione i concetti” rintracciandone le radici nell’esperienza culturale occidentale e comparandoli con altri sviluppatisi nella tradizione indiana.
Monterosa ha ricordato come Kakar riprenda la tematica dell’organizzatore edipico contrapponendolo all’organizzatore materno-femminile, riscontrabile nella tradizione politeista indiana (ricca di divinità femminili) e nella narrativa indiana, dove il padre non è descritto come un rivale ma piuttosto come una figura periferica, distante; nelle tematiche religiose e mitiche, il parricidio è assente, al pari dell’alleanza edipica.
Nel materiale clinico fornito da Kakar, emerge come il paziente indiano si debba confrontare con l’intensa seduzione materna, sperimentando una gamma di sentimenti: un desiderio incestuoso, il terrore della separazione, la spinta a distruggere la madre intrusiva.
La resistenza di Freud (cresciuto all’interno della tradizione giudaico-cristiana) alla mistica indiana e alla cultura indiana in generale, si potrebbe ricondurre alla sua opposizione a un mondo caratterizzato dalla predominanza di figure materne che rimandano all’Indistinto e al Primordiale, mondo sotteso da quello che R. Rolland definiva il “sentimento oceanico”.
Alfredo Lombardozzi ha parlato a braccio senza leggere il suo lavoro “Il contributo di S. Kakar agli studi su Cultura e Psiche”, pubblicato tra i saggi del succitato libro “Cultura e Psiche”.
Ha ricordato la sua scoperta dei libri di Kakar e l’interesse che hanno suscitato in lui rispetto al rapporto tra antropologia e psicoanalisi. Centrale il rapporto di co-creazione e di reciproco modellamento tra inconscio e cultura: l’inconscio è già, di per sé, culturale e nessuna persona può esser pensata al di fuori di coordinate culturali.
Nella pratica clinica con un paziente straniero bisognerebbe creare una risonanza rispetto agli elementi culturali presenti nel suo discorso, in modo “da farli esistere a pieno diritto come fattori del campo analitico”. Ciò permette di evitare di proporre al paziente in maniera acritica il modello egemonico dell’uomo occidentale.
Lombardozzi ha notato come Kakar abbia trovato nei modelli della psicoanalisi relazionale e delle relazioni oggettuali una maggior corrispondenza, rispetto a quelli della teoria delle pulsioni, ai modi di essere e di pensare tipici della cultura indiana. Kakar si inserisce nel filone di studi su Psicoanalisi e Cultura, in cui sono presenti esponenti come G. Roheim, G. Devereux, A. Kardiner, E. Erickson e altri.
Nel corso del successivo e vivace dibattito, Kakar ha sostenuto che il pensiero indiano è caratterizzato da una maggior capacità inclusiva, tollerante delle differenze (una sorta di “e…e” oppure anche di “no, ma…”), rispetto a quello occidentale, fondato su opposizioni nette e irriducibili (ha citato l’esempio dei Dieci Comandamenti).