Quale ruolo per la psicoanalisi nei contesti di psicologia dell’emergenza?
Report sull’incontro tenutosi a Trieste presso il Centro Servizi Volontariato CSV, venerdì 12 e sabato 13 aprile 2013 sul tema “Subire, agire e pensare un terremoto. Riflessioni di uno psicoanalista”
organizzato dal Centro Ricerche Psicoanalitiche di Gruppo (IIPG) in collaborazione con la Società Italiana Psicologi dell’Emergenza (SIPEM SoS FVG)
Desidero, con questo report, fornire degli spunti di riflessione per i colleghi sia sul bisogno a soccorrere che sul ruolo della psicoanalisi in contesti di emergenza.
Come i colleghi sanno, è dal giugno del 2012 che, grazie al coordinamento tra Marco Longo, responsabile del gruppo emergenza della SPI, e il Centro Psicoanalitico di Bologna – che ha organizzato, al suo interno un proprio gruppo emergenza in seguito al terremoto del maggio 2012 coordinato da Angelo Crisci – si sta attuando un lavoro di accompagnamento per alcuni operatori (non solo psichiatri e psicologi, ma anche medici, insegnanti, genitori, ecc.) delle zone terremotate, che ne hanno fatto richiesta, al quale ho avuto modo di collaborare assieme ad alcuni psicoanalisti con i quali condividiamo le competenze nell’ambito del lavoro con i gruppi.
Credo che la psicoanalisi abbia molte risorse non solo per intervenire in situazioni di emergenza, ma anche e soprattutto per dare degli strumenti di pensiero attorno a eventi traumatici particolarmente complessi.
Oltre a questo impegno nella SPI, da molti anni partecipo nella mia città alle attività della Società Italiana Psicologi dell’Emergenza SOS FVG di cui sono anche socia fondatrice. Con la SIPEM organizzo corsi, supervisiono gli operatori e, al bisogno, facendo parte della Protezione Civile, posso intervenire nei luoghi dove si verificano le emergenze.
Ad aprile 2013 come Sipem, e in collaborazione con il Centro Ricerche Psicoanalitiche di Gruppo di Trieste (appartenente all’IIPG), abbiamo invitato il nostro collega Giuseppe Gavioli e uno psichiatra dei servizi di salute mentale, Germano Ghelfi, entrambi di Mirandola, per riflettere insieme sulla coincidenza di essere professionisti della salute mentale e contemporaneamente terremotati. Una tematica assolutamente interessante per chi si occupa del disagio psicologico che segue ad un evento naturale catastrofico, quale un terremoto ad esempio.
In proposito mi viene in mente, anche se si tratta di malattia, il bel libro di Rita Corsa in cui fa delle riflessioni articolate e profonde su ” se la cura si ammala…” analizzando in maniera approfondita cosa succede quando l’analista ( la cura) si ammala e deve gestire contemporaneamente la cura di se stesso (per es. chemioterapia, radioterapia, fisioterapia, interventi chirurgici,ecc.) e la cura dei propri pazienti.
Insieme ai soci della Sipem, si era pensato che, per degli psicologi che si occupano di emergenza, fosse estremamente utile uno spazio dedicato alla riflessione sulla coincidenza temporanea tra queste due posizioni.
Ci siamo trovati a Trieste un venerdì pomeriggio di aprile 2013 con l’intento di lavorare assieme anche il sabato mattina. L ‘incontro era aperto anche a persone non appartenenti all’ambito della psicologia dell’emergenza, ma ugualmente interessate al tema per cui c’è stata la presenza ad esempio di alcuni capi scout che avevano fatto servizio nelle tendopoli, di un avvocato, dei pediatri e qualche operatore dei servizi di salute mentale di Trieste, oltre a ” comuni cittadini”.
Ci siamo riuniti presso una sala del Centro Servizi Volontariato, che abitualmente per queste iniziative ci ospita gratuitamente, nella quale abbiamo disposto le sedie in cerchio per favorire il dialogo tra i partecipanti. Molti soci SIPEM avevano conosciuto Marco Longo perché nel 2012 era venuto a tenerci un seminario e quindi avevano una certa conoscenza del lavoro psicoanalitico che si può svolgere in situazioni di emergenza, inoltre alcuni di loro sono abituati a lavorare con me, con questo modello, nonostante la maggioranza degli iscritti abbia una formazione cognitivo comportamentale, sistemica o gestaltica.
Gli operatori locali della psicologia dell’emergenza sono stati quindi molto attenti, e sensibili al fatto che, in situazioni di emergenza, non esistono, come dice Sironi (2007,37) dei ” kit psicoterapeutici bell’e pronti… adatti ad essere utilizzati in qualsiasi parte del pianeta” inoltre hanno compreso come oggi “il trauma” sia diventato una soluzione interessante e redditizia per molti psicologi a corto di clienti e stanno riflettendo su questa implicazione personale nella scelta di questa forma di volontariato.
Venendo al gruppo, come descrive bene Amati Sas in un suo lavoro (2011), è interessante osservare cosa sia accaduto. Il gruppo che si è presentato come multiculturale non essendo tutti infatti psicoanalisti o psicologi. Dice Amati Sas “nell’incontro iniziale con un gruppo diverso dal proprio ognuno può percepire un piccolo istante di perplessità, una lieve spersonalizzazione, un segnale d’allarme fugace, che possiamo definire come ‘estraniamento’, come se la presenza di un gruppo di diversi, significhi sempre una modificazione del ‘contesto di sicurezza’ al quale si è abituati (Bleger 1987, citato da Amati, 2011, 320). Anche quando in un nuovo gruppo gli altri partecipanti sono in parte conosciuti, un breve vissuto di anomia fa la sua comparsa, la fugace sensazione di una ‘no man’s land’ “.
Mi accorgo di questo particolare perché le persone tendono a mettersi distanti dai relatori, distanti tra loro, a volte in seconda o in terza fila nonostante siano liberi dei posti nel cerchio di sedie. L’ incontro inizia come una banale conferenza, ma subito da una conferenza si differenzia perché, dopo essersi presentati, i colleghi mirandolesi passano a raccontare la loro esperienza del terremoto, il loro trauma, per passare poi a mostrarci un video che non lascia spazio a dubbi sulla drammaticità dell’evento.
Come partecipanti ci sentiamo immediatamente precipitati in un territorio che, sebbene crediamo di dominare emotivamente – in fin dei conti siamo, o meglio ci riteniamo, dei ” soccorritori” … – ci intriga e inquieta al contempo. È come se fosse troppo vicino alla nostra intimità. Il parlare delle loro case che tremavano, delle crepe createsi sui loro muri, della loro paura è troppo prossimo a quelle che sono le nostre paure. A Trieste, in cui con molta violenza si è sentito e vissuto il terremoto del Friuli del 1976, i terremoti sembrano non poter venire perché la città è costruita su un terreno carsico pieno di grotte che, si dice, proteggono dagli effetti disastrosi delle scosse. Ma capiamo che anche l’Emilia si era considerata al riparo da questi eventi: un sentimento di contagio inizia ad insinuarsi e cominciamo a pensare che possa accadere anche a noi.
Ma questo pensiero credo rimanga ben nascosto al gruppo che mai lo verbalizza anche perché immediatamente scatta una difesa di tipo intellettuale e professionale. Il gruppo sente forte il bisogno di “accogliere e soccorrere” i colleghi emiliani, ma contemporaneamente si sente anche come privo di strumenti adeguati.
In quel momento sembra quasi che la teoria, che sottende la scelta di operare come psicologo dell’emergenza e che sostiene una certa pratica e alcuni specifici dispositivi terapeutici, non riesca più ad essere applicata alla realtà clinica che ci viene posta – come dice Sironi (2007,146) “ricoprendola, ritagliandola secondo il proprio modello”. La teoria sembra perdere la sua funzione di difesa.
Credo che nel nostro caso possano esserci di aiuto alcune osservazioni di Amati Sas sui vissuti che si possono sperimentare in gruppi multiculturali, e multiprofessionali quale il nostro. ” Curiosamente” dice Amati Sas ” (2011,322-323) ” all’inizio delle situazioni gruppali esperienziali e sperimentali ( per definizione non violente) cui partecipiamo per nostra scelta, appare ugualmente un breve estraniamento che suppongo relativo alla paura dell’indifferenziazione e, di conseguenza, un bisogno difensivo paranoide di controllo della nuova situazione” c’è come paura, continua Amati Sas, ” della propria ambiguità dalla quale ci difendiamo, paradossalmente attraverso l’ambiguità stessa, ossia assumendo una ‘posizione ambigua’ che è accomodante, che porta a prendere tempo e offusca le emozioni, e che può esprimersi difensivamente in una ricerca paranoide di differenziazione”.
Tutto questo sembra infatti accadere nel gruppo quando percepisco il timore di confondersi con i relatori, o meglio con i terremotati, restando così difensivamente e rigidamente in una posizione di soccorritori che devono “aiutare e salvare” e oscillando contemporaneamente, e in maniera inconscia ( nulla di questo viene infatti verbalizzato) tra il sentirsi solidi psicologi dell’emergenza e fragili, vulnerabili esseri umani, giocando entrambi i ruoli.
Nelle due mezze giornate di lavoro insieme spesso emergono domande sullo scopo dell’incontro, sul significato della presenza di questi due relatori, nonostante questo sia stato ben chiarito – e richiesto dai soci – precedentemente. I partecipanti, soprattutto quelli che si occupano di emergenza, pongono domande teoriche molto difensive, ma grazie ad altre persone presenti cominciano a comparire interventi personali che si situano più sul versante dell’identificazione che su quello della difesa e della negazione dell’ angoscia. C’è chi racconta del terremoto del Friuli e narra di come si sentiva impossibilitato ad attraversare la porta per mettersi in salvo perché la porta oscillava pericolosamente.
Sento questo racconto come una metafora di quanto ci sta accadendo; forse anche noi avremmo bisogno di metterci in salvo rispetto alle false sicurezze che ci stanno imprigionando e contemporaneamente stanno crollando, sotto le spinte di un incontro perturbante con dei terremotati veri (non quelli delle simulate a cui veniamo abituati nelle esercitazioni della protezione civile…), assieme all’illusione di invulnerabilità ( che di fatto nella vita ci soccorre aiutandoci a non essere sempre in allarme per la inevitabile precarietà del nostro essere umani). Dovremmo attraversare una porta ma non ce la facciamo, siamo noi, soccorritori per scelta e professione, ad avere bisogno di essere soccorsi!
Ma questo è un pensiero intollerabile.
Al mattino del sabato ci verranno in aiuto alcuni sogni di qualche partecipante che i relatori. – veri e propri nostri terapeuti – accoglieranno e faranno interagire con i loro personali sogni e incubi. Il materiale onirico riempirà l’incontro, quasi fossimo in una seduta di social dreaming. Preponderante sarà l’immagine di un fratello da salvare (portato da una giovane collega che ha purtroppo avuto l’esperienza di eventi catastrofici) che forse mette sulla scena l’ipotesi di Amati Sas sull’oggetto a salvare. Tale costrutto teorico si fonda sul fatto che la vittima di situazioni estreme (Amati Sas parla di vittime di violenze collettive politiche) appare intimamente preoccupata per il destino o la sorte di un altro soggetto. Nella nostra situazione di gruppo interculturale, assolutamente non estrema, ma con un rischio potenziale di un cambiamento di mentalità per gli psicologi che vi partecipano, credo sia interessante fare riferimento a questo concetto. Dice infatti Amati Sas (2011,318): ” propongo di pensare che nell’esperienza di gruppi transculturali sia la propria appartenenza e identità culturale l’equivalente per ogni partecipante, di un oggetto da salvare. La difesa attraverso la posizione ambigua non è specifica delle situazioni estreme, essa è una modalità universale di sospensione del conflitto interno ed una modalità di adattamento (temporanea o permanente) al cambiamento nei contesti e nelle situazioni. L’ambiguità ‘da’ tempo’ per creare oppure no le elaborazioni soggettive dei legami”.
Certo ci sta accadendo qualcosa di strano perché noi non ci stiamo trovando in una situazione di concreto pericolo, ma io credo piuttosto che il vissuto di pericolo sia inconscio e interno alla mentalità del gruppo. Il gruppo sembra trovarsi infatti in una situazione di terremoto emotivo per cui le nostre sicurezze, come soccorritori, stanno tremando e rischiando di crollare. Per questo motivo credo noi, gruppalmente, si debba mettere in salvo la vulnerabilità, rappresentata del fratello bisognoso, così da recuperare il controllo della situazione.
Al fondo emerge una grande impotenza del gruppo di operatori dell’emergenza, ad aiutare i colleghi. Crolla la credenza, illusione gruppale funzionale a dare identità e rendere coeso il gruppo, di essere “buoni” e volti a proteggere e rigenerare il mondo. Diviene inutile, improvvisamente, questa sorta di antidepressivo gruppalmente prodotto (Kaës,1999,62-63)
Quello che, a questo punto risulta interessante è il fatto che – a fronte del nostro sentimento di inutilità e di fallimento dell’ incontro “in cui non abbiamo saputo far niente per loro e allora perché li abbiamo invitati? ” – come ha modo di dirmi, dopo l’incontro un partecipante – corrisponde un resoconto entusiasta dei colleghi mirandolesi che, telefonicamente e via mail ci ringraziano per l’occasione che è stata loro offerta, per la capacità di ascolto del gruppo, per la disponibilità ad interagire con spontaneità e semplicità senza troppe difese intellettuali: “ci siamo sentiti veramente accolti e la cosa ci ha fatto un gran bene. Al rientro ci siamo sentiti meglio, siamo stati liberi di parlare e abbiamo percepito che le cose che dicevamo venivano capite e ascoltate”.
Ebbene io credo che il contesto gruppale, che è stato accogliente e disponibile, sia stato proprio quello che ha saputo, con una certa sofferenza, entrare in contatto e accettare la propria impotenza.
Diceva Valentini, una collega psicoterapeuta di Bologna che partecipa al gruppo sulle emergenze, che non tutto forse è elaborabile e che dobbiamo saperlo accettare, oppure, come sostiene Rulli, sempre del gruppo bolognese, che sia necessario saper ” ospitare il dolore” prima ancora di preoccuparsi di dare ad esso un senso o un significato.
Io credo che questo gruppo triestino, composto soprattutto da giovani psicologi, a volte neanche psicoterapeuti, persone tutte vitali, appassionate alla propria professione, abbia saputo, con la semplicità del sapersi mettere in discussione, fornire l’unico aiuto possibile: l’ascolto partecipato.
In tal senso dunque penso che la psicoanalisi abbia un ruolo importante e un ruolo da svolgere nei confronti dell’ apertura di nuove frontiere di ricerca in questi ambiti così detti dell’emergenza, finora da noi trascurati.
Credo infatti che come psicoanalisti, avendo una chiara esperienza di un setting interno solido e una capacità di analizzare gli inevitabili massicci movimenti controtransferali che avvengono in situazioni cariche e complesse come quelle di un’emergenza per un disastro naturale, si potrebbero dare fecondi contributi per ospitare un dolore non sempre, appunto, elaborabile, frutto dell’imprevisto, ma anche della de-umanizzazione nella quale siamo invischiati a causa della violenza purtroppo a noi così prossima.
Sono dell’idea che sia venuto il momento di pensarci e di prepararsi ad affrontare queste nuove sfide future. Abbiamo molti strumenti teorico clinici che nel tempo abbiamo fatto evolvere ( il lavoro con i gruppi – Bion, Kaës, ecc. quello sulle violenze collettive – Amati Sas, Puget, Bleger, e tantissimi altri) forse possiamo avere, e ulteriormente elaborare, gli strumenti per affrontare la violenza che si scatena, la pulsione di morte che si smuove, quando l’imprevedibile, l’imprevisto ci attacca e quando l’egoismo di certe scelte evita di rendere sicure e affidabili le nostre case e i luoghi in cui depositiamo necessariamente le nostre aspettative di sicurezza.
Citando Hanna Segal (1997,156 in Sabatini Scalmati 2011, 274) “è venuto il momento di guardare in faccia le nostre paure e mobilitare le nostre forze contro la distruzione. Dobbiamo – come psicoanalisti – essere ascoltati… Siamo a conoscenza dei meccanismi di diniego, della proiezione, del pensiero magico e così via… Noi che in quanto psicoanalisti crediamo nel potere delle parole e nell’effetto terapeutico dell’esplicitazione della verità, non dobbiamo rimanere in silenzio”.
Agosto 2013
Bibliografia:
S. Amati Sas (2011) Riflessioni sulla transculturalità, in Luoghi della negazione (a cura di ) A. Cusin, G. Leo, ed. Frenis Zero, Lecce;
R. Corsa (2011), Se la cura si ammala. La caducità dell’analista, ed. Kolbe, Bergamo;
R. Kaës (1999), Le teorie psicoanalitiche del gruppo, ed. Borla, Roma, 2006
A. Sabatini Scalmati (2011), Terrorismo come patologia psico-sociale, in Luoghi della negazione (a cura di ) A. Cusin, G. Leo, ed. Frenis Zero, Lecce;
H. Segal (1997), “Silence is the real crime” in Psychoanalysis, Literature and War. Papers 1972-1995, Routeledge, London and New York;
F. Sironi (2007), Violenze collettive, ed. Feltrinelli, Milano, 2010.