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25 novembre 2016, Roma. L’esperienza del Servizio di Consultazione clinica nell’Istituzione Universitaria. Report di A. Bincoletto

25/08/17

L’esperienza del Servizio di Consultazione clinica nell’Istituzione Universitaria

Prevenzione e disagio giovanile: un punto di vista psicoanalitico

Il presente intervento è una sintesi scritta per Spiweb di una relazione presentata nel corso della giornata, organizzata dall’Università degli Studi di Roma Tre per celebrare “La Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”.

Il Dipartimento di Studi Aziendali ha istituito un premio studio per la studentessa più meritevole dell’anno accademico, in memoria di Sara Di Pietrantonio, studentessa del Dipartimento barbaramente assassinata dall’ex fidanzato.

Mentre mi accingevo alla scrittura della relazione per la presentazione alla giornata odierna, si affollavano nella mia mente le molte raffigurazioni femminili presenti nei miti: Pandora, Persefone, il mito del Paradiso, Aracne ed altre ancora. Il denominatore comune di queste narrazioni è la celebrazione di un femminile depauperato, svilito, silenzioso, poiché deprivato culturalmente della parola dall’imposizione di un codice patriarcale, che non le ha dato voce ed ha costruito rappresentazioni maschili dell’esperienza femminile.

Vivere la sofferenza in silenzio è stato, per lungo tempo, un modo per le donne di essere al mondo; d’altra parte esse nascono e si sviluppano in un ordine simbolico maschile che ha reso arduo e per secoli impossibile, l’accesso al mondo della conoscenza, deprivata del contributo creativo femminile.

Le propaggini culturali di queste rappresentazioni si allungano fino al presente, traducendosi in condotte aggressive, distruttive e violente perpetrate sulle donne. Basti pensare al fenomeno delle ‘spose bambine’ ancora diffuso nell’Asia meridionale e nell’Africa subsahariana, una tradizione che le costringe ad interrompere anzitempo il ciclo di studi e le espone al rischio di gravidanze precoci. Ricordo, inoltre, l’infanticidio femminile, attuato attraverso i brefotrofi lager molto diffusi in Cina (è relativamente recente la modifica della politica del figlio unico).

In ognuna queste realtà, l’esercizio del potere maschile si consuma sul corpo femminile, anche con il controllo della maternità; l’uomo infierisce su questo corpo collocandovi la propria debolezza, il proprio senso del limite e d’incompiutezza ontologica.  Il rigetto di questi elementi intollerabili è favorito e sostenuto dalle disuguaglianze sociali, storicamente e culturalmente presenti, che soltanto un lento e relativamente recente processo di emancipazione femminile e di trasformazione sociale sta modificando, all’interno di questo rinnovamento l’uomo vive sé stesso come il dominus spodestato del suo ruolo patriarcale dominante.

Le diverse ideologie religiose poggiano, a loro volta, le fondamenta della loro dottrina sulla discriminazione sociale e psicologica tra i generi maschile e femminile.

Nell’islam fondamentalista il femminile viene occultato ed imprigionato in una condizione esistenziale che priva la donna delle più elementari forme di autonomia ed impedisce lo sviluppo del loro potenziale umano; mentre in occidente il femminile soffre di altre modalità di svalutazione e di screditamento attraverso la trasformazione della donna nell’immaginario collettivo in un oggetto sessuale, da usare secondo le leggi del mercato economico o come un oggetto da esibire a sostegno ed estensione del narcisismo maschile. Accanto a queste esistono antiche ed inaccettabili forme di violenza fisica esercitate sul corpo femminile, quali le mutilazioni dei genitali femminili praticate in varie regioni dell’Africa; di cui ricordiamo l’escissione della clitoride e l’infibulazione. Queste pratiche finalizzate ad un controllo della sessualità femminile comportano spesso, per le conseguenti infezioni, uno stato di infertilità aggiungendo al controllo sessuale quello sulla capacità riproduttiva della donna e su un eventuale maternità; a tal riguardo desidero ricordare che, in queste culture, la donna sterile viene considerata un essere incompleto, privo del ruolo biologico e sociale.

Nell’Occidente, la donna impegnata nella conquista e difesa dell’autonomia e dell’autosufficienza, protesa all’affermazione professionale, politica e sociale, ha potuto svincolarsi dal destino biologico e sociale della maternità, di cui alla fine dello scorso secolo, sembrava potesse deciderne i tempi e le modalità. Quella che si presentava come un’importante risultato dell’emancipazione femminile si è rivelato un fenomeno illusorio soggiacente alle leggi economiche in base alle quali la ‘scelta’ della maternità, è scivolata temporalmente sulla soglia dei limiti biologi per la procreazione; una condizione che spinge la donna a dover intraprendere il difficile e doloroso percorso della Procreazione medicalmente assistita. Una volta divenuta madre si trova a far fronte ad un duplice impegno: quello del mantenimento e della costruzione di una posizione professionale, e quello di madre capace di accogliere e gestire i bisogni evolutivi di un figlio nel suo percorso di crescita. Ingaggiata su questo doppio registro accade che finisca per offrire una maternità organizzatrice e fattuale piuttosto che delle cure rivolte ai bisogni sensoriali ed emotivi dei propri figli. Possiamo, a questo punto, riconoscere l’esistenza di diverse forme di manipolazione della maternità, che variano a seconda della cultura in cui tale controllo si esercita. Nella società globalizzata assistiamo a nuove manifestazioni di aggressività che si celano dietro l’anonimato che la rete, illusoriamente, dovrebbe garantire a chi viola l’intimità dell’altro. I social networks sono i luoghi dove si consuma l’attacco aggressivo e screditante alle donne, in particolare alle giovani donne.  Non distanti da queste ritroviamo quelle tristemente conosciute alla cronaca: che vanno dalle molestie sessuali alle violenze famigliari di tipo fisico, allo stupro perpetrato dal partner o da estranei fino alle violenze sistematiche e premeditate degli stupri all’interno dei campi profughi.

Altre meno evidenti, ma non per questo meno gravi, sono legate al maltrattamento e alla violenza psicologica nell’ambito dei rapporti di coppia ed intra familiari.  In questi casi la donna si trova, talvolta, a vivere una relazione di tipo perverso in cui tra i soggetti esiste una collusione patologica ed una identificazione proiettiva con l’altro, a cui si affidano parti di Sé, che finiscono per costituire la struttura del legame. Il contratto inconscio sadomasochistico tra le parti costituisce una garanzia di non abbandono e di non separatezza e diviene una via di soddisfazione di pulsioni inaccettabili. Si tratta, spesso, di persone con nuclei patologici o con storie personali pregresse di relazioni abusanti, in cui hanno assistito o subito situazioni di violenza familiare.  Il trauma psichico inelaborato, in queste famiglie, si trasmette attraverso le generazioni con l’adozione di modelli di regolazione affettiva di tipo violento, che predispongono all’assunzione di ruolo vittima/persecutore.

La donna stessa si trova prigioniera di un confitto tra il bisogno di negare esperienze spaventose, sostenuto dalla vergogna di essersi resa vittima di abusi, e quello di denunciarle sciogliendo i vincoli di un patto d’obbligazione opprimente.

Nella stanza d’analisi ci confrontiamo con situazioni che vedono la donna sottoposta ad ogni sorta di svalutazione, umiliazione, disconferme del Sé e del proprio patrimonio narcisistico di base. Queste possono essere presenti in modo manifesto con comunicazioni, atteggiamenti ed imposizioni costanti oppure attraverso un lento e continuo flusso di comunicazioni allusive ed insinuanti che possiamo definire, clinicamente, dei veri e propri traumi cumulativi. ..“In cui l’oggetto impone il legame nel non legame…e soprattutto introduce un senso di invalidante perdita di sé, uno stato perdurante di mortificazione, una perdita di attribuzione di valore verso la propria realtà psichica e di resa alla realtà psichica altrui” (Botella e Botella, 2004, pag. 161). Queste donne appaiono disorientate, impotenti dinanzi ai comportamenti violenti del maltrattatore agiti in modo improvviso perturbante ed inaspettato, un elemento estraneo si insinua nel familiare, lo sconosciuto irrompe nel conosciuto dell’affetto e della relazione.

In altri casi, ci imbattiamo nelle relazioni di coppia in cui c’è una palese idealizzazione del partner ad opera della donna, che sembra avere un scarso investimento su sé stessa per via di una rappresentazione svalutata di sé. Ad alcune di esse l’accesso al mondo del lavoro conferisce una maggiore indipendenza economica e la possibilità di uscire da una condizione d’isolamento sociale confinato, precipuamente, nell’ambiente domestico e famigliare. Questi cambiamenti esitano, di frequente, in un lavoro terapeutico sul proprio mondo interno quale rinforzo narcisistico identitario; la costruzione di questa nuova rappresentazione di sé stessa può portarla ad attivare dei nuovi progetti di vita che investono gli equilibri interni alla relazione di coppia, ponendosi come un soggetto attivo e propositivo.

In taluni casi le richieste di cambiamento possono scatenare nel partner una escalation di atti violenti, che nella sua forma estrema conduce ad un rischio per la vita stessa della donna e talvolta dei figli.

L’atto violento nella mente dell’omicida rappresenta, in taluni casi, una forma di autoprotezione estrema di fronte ad angosce di annientamento e di rottura dell’integrità somato-psichica. E’ nel momento in cui provano a sottrarsi alla relazione che l’altro agisce in modo violento l’impossibilità a lasciarle andare, a perdere un oggetto-Sé percepito come vitale per la propria economia psichica.

Le loro richieste di aiuto spesso reiterate non ottengono delle risposte istituzionali tempestive ed adeguate, queste stesse donne sono lasciate sole e nei casi di condanna penale le pene sono esigue, non commisurate alla gravità del reato e accade che i colpevoli beneficino di riduzioni del periodo di reclusione per buona condotta. C. Bollas, nella relazione presentata al 49th Congress IPA 2015, ci ricorda:  “La distruttività attiva non è difficile da individuare, tuttavia la forma più pervasiva della distruttività umana è quella passiva quando i sé, i gruppi o le istituzioni rimangono inattivi, mentre un loro intervento arresterebbe il processo distruttivo.” Sono sempre stata e sono fermamente convinta della necessità d’intervenire su queste sacche di disagio sociale e di smarrimento psichico diffuso specifici della nostra contemporaneità, con una politica sociale che veda la realizzazione di Servizi di sostegno alla persona, rivolti nell’ottica della prevenzione innanzitutto al mondo dell’infanzia, dei giovani e delle donne. Il Centro Clinico, della Società Psicoanalitica Italiana, propone progetti d’Intervento Clinico nei luoghi di cittadinanza, ma anche di tipo Formativo nei diversi contesti Istituzionali: Università, Scuole, Servizi di Diagnosi e Cura… ; ha, inoltre, stipulato da tempo un accordo con il Ministero della Salute per la realizzazione di Seminari teorico-clinici rivolti ai medici.

Al fine del raggiungimento dei suddetti obiettivi, la Dott.ssa Anna Nicolò, Presidente S.P.I., lavora alacremente a sostegno di una politica dell’outreach del modello psicoanalitico, organizzando tavoli di lavoro e commissioni di esperti. Il Servizio di Consultazione, presso questo Dipartimento, è rivolto ai ragazzi tardo adolescenti e ai giovani adulti, una delle finalità dell’intervento è quella di promuovere, mobilitare ed incentivare il processo di soggettivazione in cui questi giovani devono cimentarsi.

La soggettivazione è un processo di differenziazione che consente all’individuo di riconoscersi come soggetto che sperimenta impulsi, fantasie, affetti e pensieri personali, in grado di riconoscere al tempo stesso gli altri come soggetti differenziati. Alterazioni o modificazioni di questo processo si presentano, spesso, in diversi quadri patologici dell’età adulta, in particolare nei pazienti narcisisti e nei pazienti con organizzazione borderline della personalità. Il soggetto, impegnato sul duplice registro della costruzione di una identità personale più adulta e della necessità di rispondere alle richieste ambientali, deve evitare il rischio di sviluppare una dipendenza patologica dall’oggetto, oppure di privarsi dell’oggetto e del suo vitale apporto ricorrendo a delle condotte di evitamento o ritiro. Questa condizione può condurre ad un arresto delle potenzialità espressive, sia di tipo affettivo sia di tipo cognitivo e ad un impedimento ad entrare in relazione creativa con il mondo esterno. Il fatto che il giovane adulto prenda una direzione o l’altra dipende dalla sua storia infantile e familiare, ma anche dalla qualità degli incontri con il mondo che lo circonda.

All’interno del legame terapeutico, il soggetto può essere aiutato a sciogliere gli ostacoli che lo affaticano e gli impediscono di esprimere pienamente le sue potenziali risorse nello svolgimento dei compiti evolutivi, spesso riguardanti lo studio e il mondo delle relazioni con i coetanei, con le famiglie d’appartenenza, ma anche con i propri docenti. All’interno di questo spazio riservato, al riparo da connessioni esterne, il soggetto può essere agevolato a costruire legami dentro e fuori di sé, facilitando una maggiore e funzionale transitabilità tra le aree della propria mente e riuscendo a dare rappresentazione ad immagini, fantasie e bisogni fino a quel momento espressi, precipuamente, in forma di disagio o di sintomo. La teoria e la clinica psicoanalitica si rivolgono direttamente al mondo interno dell’individuo occupandosi della sua realtà psichica, alla quale si riconducono le problematiche che si manifestano nella realtà esterna.

Il servizio di counselling costituisce lo spazio in cui la domanda di chi vi accede, deve trovare ascolto ancor prima che risposta. La valutazione delle risorse, della plasticità dello psichismo, della capacità di narrazione e di mantenimento del legame del soggetto, qualificano gli elementi prognostici positivi, mentre il ricorso all’uso massivo di difese rigide e primitive si riferisce, dal punto di vista della clinica, a situazioni di rischio.

Dobbiamo considerare, anche in riferimento ai casi di cronaca, che il ricorso a meccanismi di difesa psicotici come il diniego e la scissione dell’Io, anziché la rimozione, può condurre ad una scarica delle pulsioni (acting out) in luogo dell’elaborazione psichica, più vicina alla normalità, che prevede la costruzione simbolica tra affetti e rappresentazione. Nel corso dei colloqui mi trovo a confronto con un soggetto che sa, ma non sa quel che lo riguarda, che usa delle modalità di regolazione affettiva, strutturatesi nella relazione primaria (con gli oggetti parentali), conosciute mediante la ripetizione e la riproposizione all’interno di un modello famigliare, ma non pensate prima. Alcuni di loro hanno sperimentato uno stato di annullamento dell’Io ad opera di un oggetto intrusivo ed espropriante, che non hanno potuto rappresentare.

In questi soggetti le emozioni, le attività e le finalità dell’Io non risultano reali e certe memorie di esperienze emotive non formulate si trasmettono precipuamente attraverso l’azione oppure mediante gli attacchi di panico o gravi forme di somatosi. Pensiamo alla odierna rapida diffusione delle patologie narcisistiche ed identitarie: le cosiddette patologie del vuoto, patologie non rappresentazionali che testimoniano la pervasiva incapacità di appropriazione simbolica. Un capitolo a parte richiederebbero le patologie da dipendenza: informatica (da internet), dal cibo, da sostanze psicotrope, dall’alcool, dal fumo, dal gioco on line. Tutte manifestazioni cliniche di una dispersione ed instabilità identitarie che si esprimono anche nelle nuove forme della sessualità in cui l’identità di genere è indefinita. All’interno del percorso di consultazione lo psicoanalista si trova a considerare l’evento critico che sostiene la domanda non solo una realtà di sofferenza, ma anche una occasione di trasformazione.

Per i ragazzi che arrivano ad una consultazione senza sapere ciò di cui hanno bisogno, l’incontro con uno psicoanalista diventa per loro un’esperienza di essere compresi in un aspetto centrale del loro mondo interno.

Dott.ssa Anna Bincoletto

Psicoanalista S.P.I.-I.P.A.

Psicoanalista Esperta bamibini-adolescenti

an.bincoletto@gmail.com

Locandina25novembre (1)

 

 

 

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