BENEVENTO CITTÀ SPETTACOLO 2013
STORIE AMARE E D’AMORE
PERCORSI DELLA NOSTALGIA
Nostalgia delle origini. Lontananze, confini, approdi.
13/14 settembre 2013
Report a cura di Virginia De Micco e Maria Stanzione
PERCORSI DELLA NOSTALGIA: NOSTALGIA DELLE ORIGINI
Strana storia quella della nascita del termine ‘nostalgia’: coniato in ambito medico alla metà del ‘600 per designare una misteriosa, e mortale, malattia che colpiva i giovani soldati di ventura svizzeri lontani dal loro paese natale e finito poi ad indicare uno stato d’animo, lo struggente desiderio del ritorno di coloro che sono lontani dalla loro patria e dalle cose e dalle persone amate. Itinerario in parte simile a quello del termine melanconia, anch’esso originariamente appartenente al campo medico, indicava la bile nera, l’umore responsabile del ‘temperamento’ melanconico, poi passato nel lessico comune per indicare una disposizione d’animo, una Stimmung melanconica, appunto. Nostalgia e melanconia, così vicine così lontane, potremmo dire parafrasando Tristano e Isotta, altro topos della letteratura della lontananza e del dolore. All’intrecciarsi e al dipanarsi di questi percorsi è stato dedicato il progetto a cura di Maria Luisa Califano e Rossella Pozzi sui “Percorsi della nostalgia” che si è svolto il 13 e 14 Settembre nell’ambito della Rassegna Benevento Città-Spettacolo in collaborazione con il Centro Napoletano di Psicoanalisi e la Società Psicoanalitica Italiana. Termine quanto mai evocativo e suggestivo, quello di nostalgia, che i due relatori Sisto Vecchio, psicoanalista, ed Emilia D’Antuono, filosofa, intervenuti durante la prima giornata, moderata da Paolo Cotrufo e intitolata “Nostalgia delle origini”, hanno analizzato puntualmente nelle sue declinazioni psicoaffettive da un lato ed etico-politiche dall’altro.
Dunque innanzi tutto il ‘termine’ nostalgia: voce dotta come abbiamo sottolineato, coniato nel 1688 da un laureando in medicina, Johannes Hofer, che nella sua Dissertatio medica (di fatto una tesi di laurea), così indicava quell’apparentemente inspiegabile stato morboso che coglieva giovani soldati nel pieno del vigore fisico portandoli addirittura alla morte. Alcune osservazioni empiriche testimoniavano di una qualche relazione con la lontananza da casa, tant’è che solerti comandanti avevano provveduto per tempo a vietare che le truppe indulgessero in canti che rievocavano la terra natia, e che, in maniera ben più drammatica, si doveva constatare come una volta rispediti a casa per spegnersi accanto alle loro famiglie, questi giovani soldati, altrettanto inspiegabilmente di come si erano ammalati, improvvisamente rifiorivano. Nel sentire popolare si trattava in realtà di una condizione ben conosciuta, di quella Heimweh, di quel ‘dolore della patria’, o meglio della ‘casa’, di cui nelle valli svizzere si sapeva che si poteva morire. Curiosamente nel passaggio dal termine popolare a quello colto, medico, il riferimento alla ‘casa’, alla ‘patria’ scompare e viene sostituito da quello al ‘ritorno’. Come sottolinea Sisto Vecchio, in questo debutto medico del termine nostalgia tutto il senso dell’esperienza viene ridotto a sintomo, ed è in questa sorta di schiacciamento che il dolore sembra diventare inspiegabile ed incomprensibile. Del resto la ‘soluzione’ sintomatica, per così dire, sembra attraversare integralmente l’esperienza della ‘nostalgia’ situandola su uno scivoloso crinale, da cui si può andare verso un ripiegamento narcisistico che inclina decisamente verso una condizione melanconica, oppure da cui si può ripartire alla ricerca di un oggetto ri-trovabile, ri(n)tracciabile proprio perché perso, dolorosamente perso. Entrambi i relatori hanno sottolineato, ciascuno per la sua parte, la duplicità di senso che l’idea di nostalgia reca in sé. Essa implica infatti affetti dolorosi e luttuosi ma anche una inestinguibile tensione di desiderio verso un oggetto che proprio perché spostato in un ‘altrove’ nel tempo e nello spazio appare dolorosamente inattingibile ma, nondimeno, incessantemente cercato. Il sentire nostalgico infatti comporta inevitabilmente l’esperienza della perdita, non si può avere nostalgia che di ciò che è stato perduto. Tra risposta melanconica alla perdita e compiuta elaborazione del lutto, l’esperienza nostalgica sembra quasi disegnare una terza possibilità. Essa infatti accompagna quelle che Gribinski chiama separazioni imperfette e configura una sorta di lutto incompiuto o, meglio, direi che la nostalgia costituisce un lutto dell’idea stessa di compiutezza, ovverosia dell’idea che sia possibile accedere ad una separazione perfetta, che non lasci resti. Tali resti sono rappresentati proprio da quegli affetti non traducibili e non simbolizzabili che restano lì a nutrire lo struggimento nostalgico, trattenendolo, da un lato, dall’assumere un volto pienamente melanconico e impedendo, dall’altro, che l’andare non rechi in sé costitutivamente anche le tracce di un tornare. Il ritrovamento dell’oggetto si configura dunque, inevitabilmente, come un ritorno. Si tratta infatti di “nuovi oggetti segretamente sognati sulle tracce di un passato immemore” (Vecchio). Ma cosa distingue il ritorno da una ripetizione? E’ qui che si gioca secondo Sisto Vecchio la ‘partita’ relativa all’identità che la nostalgia apre: se riesce ad attivare quella ‘memoria sognante’ che consente di sfuggire alla coazione a ripetere permettendo il passaggio dall’agire al sognare. E’ questo che distingue i ‘nostalgici’, con cui si indicano sempre i fautori dei passati regimi, che intendono effettivamente restaurare il passato di fatto negando la perdita, da una disposizione nostalgica che nasce sempre da un implicito riconoscimento dell’impossibilità della cancellazione della perdita.
L’unica ‘riparazione’ possibile passa allora attraverso un doloroso lavoro di lutto sempre incompiuto, il quale da un lato alimenta uno struggente desiderio che non libera mai completamente da un oggetto che è sempre sul punto di scomparire, ma dall’altro consente comunque una forma di appropriazione soggettiva dell’inevitabile esperienza di perdita. Potremmo dire che se è vero che la ‘prova di Orfeo’ è vinta se non ci si volta più indietro a guardare l’oggetto d’amore perduto, ed è invece persa se voltandosi si resta catturati per sempre dalla sua scomparsa, è altrettanto vero che la nostalgia, per parte sua, è come se la rilanciasse continuamente. Essa coglie l’attimo in cui Orfeo sta per voltarsi, lo sguardo indugia all’altezza delle spalle, esita rispetto al voltarsi completamente e cerca di ‘indovinare’ Euridice con la coda dell’occhio, per così dire: la sfiora ma non la coglie, è proprio nel suo restare inafferrabile che Euridice può resistere alla sua totale scomparsa e Orfeo può evitare la catastrofe melanconica dello sprofondare assieme all’oggetto morto. E’ in questo senso che il sentire nostalgico, come sottolinea Sisto Vecchio, si rivolge a quella dimensione che Fédida indica come ‘immemoriale’ .
Emilia D’Antuono, dal canto suo, ha individuato esplicitamente una nostalgia regressiva, volta non solo a restaurare un passato ormai scomparso, ma ancora di più a cercare un ritorno ad uno stato indifferenziato, da una nostalgia progressiva, che comporta un sentirsi chiamati verso un ‘altrove’. Il concetto di nostalgia rimanda infatti ad una doppia semantica: da un lato il dolore del ritorno, dall’altro il desiderio che spinge ad andare. E’ così che Emilia D’Antuono sfugge alle insidie della nascita, come abbiamo visto controversa, del ‘termine’ nostalgia, e sostiene che invece la costellazione emotiva e simbolica che verrà poi indicata come nostalgia esisteva già prima che il ‘termine’ fosse coniato. Ne trova ampia conferma in diversi e celebri ‘luoghi’ poetici, a cominciare da Dante Alighieri che canta l’esilio da Firenze. Sulla scia di questa centrale duplicità semantica della nostalgia articola una relazione ricchissima di spunti, suggestioni e riflessioni concentrandosi, in particolare, sui pensatori che nella seconda metà del secolo scorso hanno affrontato criticamente il concetto di patria, liberandolo da un lato dalla retorica dei nazionalismi e ripensandolo, dall’altro, attraverso il suo rovescio oscuro, alla luce delle inaudite violenze, degli stermini di massa che in nome dell’idea di patria sono stati compiuti. Con Lévinas distingue l’idea del ritorno dell’eroe omerico, di Odisseo, che tornerà effettivamente alla patria un tempo lasciata, un ritorno indietro dunque, da quella del testo biblico, di Abramo, che invece ‘tornerà’ ad una terra promessa, torna dunque andando avanti. Si concentra in particolare sulla relazione fondante tra sentimento della nostalgia ed esperienza della finitezza sottolineando come essa nasca contemporaneamente dalla constatazione della finitezza dell’uomo e dalla necessità di sostenere l’illusione di sfuggire a quella stessa finitezza. L’uso politico del termine patria e le rivendicazioni identitarie violente ed escludenti che ha attivato nel secolo scorso e che continua ad attivare attraverso i vari integralismi e fondamentalismi delle cosiddette ‘patrie neoetniche’ svelano, secondo D’Antuono, l’aspetto ‘fatale’ di un ritorno regressivo ad una sorta di ‘liquidità’ primigenia, ad una sorta di indifferenziazione originaria che corrisponde a quella identificazione a massa (evocata anche da Vecchio richiamando Gaburri) che cancella l’individualità. E’ da questa forma di ‘nostalgia’ che anche D’Antuono mette in guardia, invitando a diffidare di quella ‘voce del sangue e del suolo”, voce senza parole appunto, voce che sfugge al lavoro di lutto della parola, che vorrebbe ripristinare l’origine. E’ invece la parola poetica, parola che ha attraversato l’esperienza del dolore e della sofferenza che abita la nostalgia , che può invece aprire al passaggio tra ciò che è caduco e ciò che appare durevole. E’ per questo che la figura ideale della patria che resta, della ‘patria durevole’ è chiamata ad antagonizzare la percezione dell’Io che passa e muore. E’ questo che rende in realtà struggente il sentimento nostalgico: la consapevolezza della caducità dell’Io, consapevolezza attinta ed immediatamente allontanata nell’illusoria, ma vitale, speranza in un ‘mondo che resta’. Con le parole di Ernst Bloch, infatti, l’autentica nostalgia è quella “di una patria in cui nessuno è mai stato”. Dunque nostalgia dell’inattingibile più che di un oggetto perduto, nostalgia di qualcosa che non si è mai posseduto. Seguendo Hannah Arendt allora è, ancora una volta, la lingua l’unica patria possibile che accoglie tutti: lingua come fondamentale strumento di umanizzazione che nasce dal riconoscimento della separazione e da un inevitabile lavoro di lutto ma che, contemporaneamente, cerca di ricostituire simbolicamente l’oggetto perduto o mai attinto. Il linguaggio è dunque abitato integralmente da quella ‘nostalgia dell’altro’ che dà il titolo alla relazione di D’Antuono. E’ in questo senso che Sisto Vecchio ribadisce l’essenziale coloritura nostalgica dello stesso Kulturarbeit.
Forse è per questo che la parola ‘nostalgia’, nonostante la sua origine così ‘vincolata’ ad un’esperienza di malattia, si è caricata poi di echi e di risonanze tali da farle ‘coprire’ invece un’area dell’esperienza umana così ricca di molteplici affetti, proprio per quel focus sul ritorno, piuttosto che sulla casa, sull’azione piuttosto che sul luogo, sul processo piuttosto che sul risultato. Questa vera e propria ‘poetica del ritorno’ con le parole di Sisto Vecchio “scandisce i tempi di un’appropriazione soggettivante di cui è fatto il senso della propria identità” . Vorrei riprendere le parole di Jean Améry, intellettuale ad Auschwitz, che ci ricorda amaramente come in realtà “non vi è ritorno, poiché ritrovare uno spazio non significa mai riconquistare anche il tempo perduto” (1987). Nondimeno custodire il desiderio del ritorno, seppure di un ritorno impossibile, è ciò che mantiene vivo il ricordo, è ciò che consente di non cancellare la memoria delle proprie origini confondendosi in una dimensione indifferenziante. Questa incessante, dolorosa, percezione della lontananza protegge da un’oblio che rende estranei a sé stessi, così , con le parole di Rilke, “viviamo per dir sempre addio” (Elegie Duinesi, Ottava elegia). Ma è in questa “memoria sognante”, necessaria e dolorosa al tempo stesso, in cui diventano indistinguibili sogno e memoria, in cui diventa indecidibile ed oscuro, come nell’ombelico del sogno, il confine tra i molteplici fili che si tessono tra ricordo e fantasia, che la nostalgia diventa un ombelico della memoria.
Virginia De Micco
PERCORSI DELLA NOSTALGIA: LONTANANZE, CONFINI, APPRODI
Psicoanalisi, antropologia e teatro dialogano su un oggetto di interesse comune, la nostalgia, ciascuno da un vertice, una teoria, una voce diversa. Il dialogo arricchisce l’oggetto rendendolo sfaccettato e composito mentre le varie discipline tessono tra i loro pensieri … lontananze, confini, approdi.
La psicoanalista Rossella Pozzi apre il percorso nella nostalgia parlandoci di ritorni in patria, emblematico tra tutti, per le peculiari qualità di sofferenza e perigliosità, quello di Ulisse e dei vincitori della guerra di Troia. Ma se è forte il richiamo nostalgico delle origini lo è ugualmente quello verso l’ignoto che porterà l’eroe ad una nuova partenza, verso una terra irraggiungibile, identificata da Dante, nell’Inferno, con il Paradiso terrestre, una nuova terra che dovrà far ritrovare ciò che in passato si è perso. Se dunque l’assenza, la mancanza muovono la nostalgia, il desiderio ne costituisce il motore. Desiderio di un luogo migliore, di un altrove che sostituisca le difficoltà di una realtà mancante e deludente: navighiamo ora decisamente in acque ben note alla psicoanalisi e lo sguardo viene abilmente portato da Rossella Pozzi dall’ambito letterario verso la sofferenza, la patologia, la medicina, la psicoanalisi. Ella ci ricorda infatti come il termine nostalgia, nato in ambito medico per designare una sindrome di soldati lontani dalla patria, talvolta fatale, transiti poi nel linguaggio letterario, compiendo un percorso inverso a quello del suggestivo incipit della psicoanalista che ci immette subito nella variegata complessità del termine nostalgia e nel difficile compito di definirne qualità, ambiti e confini.
La ricerca delle proprie radici è, per l’esule, sempre nutrita da un lavoro di idealizzazione che vede nella distanza geografica dalla terra perduta e promessa un valore aggiunto: “Santa Lucia… cchiù luntana staje, cchiù bella pare…” cantano gli emigranti napoletani, mentre Pozzi continua a tessere il suo discorso con fili diversi, psicoanalitici, poetici ed anche filosofici quando fa individuare a Kant nella distanza temporale un elemento cardine della nostalgia. Il filosofo attribuisce infatti la delusione di chi rivisita i luoghi del passato al non potervi ritrovare più la propria giovinezza. Ma il “tormento malinconico” per un passato di luoghi e di legami persi, ci riporta alla patologia delle isteriche che soffrono di reminiscenze. E qui, ci ricorda Pozzi, il tempo del nostalgico non è quello storico della memoria, vi si coglie in essa l’atemporalità e la sospensione del mito e del desiderio. Ora il discorso anticipa le tematiche di quello antropologico, la nostalgia non rimpiange solo il proprio mitico passato bensì idealizza anche quello di popoli e civiltà perdute e lontane.
Si individua una mancanza originaria e dunque si approda al lutto che, una volta concluso il proprio lavoro, sfuma i confini nell’atemporalità della nostalgia e del sogno. Ciò che la nostalgia tenta di riportare in vita è il rapporto idealizzato con la madre delle origini, non distinta da sé, la cui perdita informerà tutte le successive, accompagnate da una tensione verso il ritrovamento di uno stato narcisistico non turbato dal bisogno e da alcuna mancanza.
Doverosa ed appropriata la citazione da J. Chasseguet-Smirgel che mostra come l’uomo insegua perennemente la propria perfezione perduta senza raggiungerla mai veramente, ricerca “alla base dei risultati più sublimi, ma anche degli errori più nefasti, dello spirito umano”.
Ora Pozzi ci parla con parole ed immagini fortemente evocative del dolore e dello struggimento nostalgico che mai riporterà indietro ciò che non è più; l’irreversibilità del tempo, può produrre traumi e cicatrici in chi indugia eccessivamente nella malinconia e nel rimpianto. Un eccesso di nostalgia, che ne costituisce il versante mortifero, può bloccare la possibilità della psiche di andare verso nuovi oggetti d’amore.
Rossella Pozzi conclude la sua intensa relazione dall’evocativo titolo: “La nostalgia tra paradiso perduto e terra promessa”, con Pontalis che ci dice come il passato idealizzato dal nostalgico non sia soltanto la propria infanzia perduta, infatti “non è al presente che volge le spalle, ma a ciò che muore”… egli spera di ritrovare “il proprio paese natale, quello dove la vita nasce, rinasce”… “Il paese natale è una delle metafore della vita”.
Per Francesca Giusti, la nostalgia, il bisogno di origini, le distanze, i confini, rappresentano tematiche che si incrociano nel proprio percorso culturale e nel personale dialogo con l’antropologia, disciplina che dispiega i suoi confini tra passato e futuro. Ma proprio l’antropologo è invero sempre lontano, fuori sia dal proprio mondo di origine, criticato o disprezzato, e sia da quello che va ad osservare e studiare ma che resta tuttavia sempre impenetrabile ed estraneo. Permane una profonda solitudine e qualche provvisorio approdo mai pienamente posseduto.
Tuttavia la nostalgia dell’antropologo è più profonda, guarda ad un primitivo che attiene alle nostre origini ed illusoriamente cerca in un mondo diverso un passato lontano.
L’esperienza personale della Giusti le suggerisce anche la presenza, nella tensione verso la ricerca antropologica, di un “sogno di eguaglianza sociale”, vagheggiato in modelli semplici ed originari della storia evolutiva dell’uomo, supposti egualitari, e che avrebbero potuto forse alimentare un’ esile speranza di un modello sociale, cercato alle spalle di un deludente presente, senza distinzioni e senza capi.
L’antropologa estrae l’immagine della copertina di un suo libro, approdo di tale tensione intellettuale, che vede una bambina dei !Kung, che con il trapano trafora un frammento di uovo di struzzo per farne collane: un gesto di gratuità, così peculiare del nostro essere umani.
Purtroppo da un lavoro di dolorosa revisione emerse che spesso tali modelli non rappresentavano un’eguaglianza originaria bensì nascevano per reazione all’emarginazione ed al disprezzo sociale.
Ribaltando poi l’asse del discorso la Giusti pone, come oggetto osservato, non più l’antropologia ma i mondi osservati, la distanza, la lontananza dei continenti conquistati e studiati, che raccontano la propria storia tra un prima e un dopo la conquista da parte dell’occidente. Navi, fucili, cavalli, rapine, malattie, uomini trasportati in catene verso lontani continenti, appaiono all’orizzonte di popoli lì collocati da millenni di storia: il genocidio. Ai nativi la modernità ruba la terra, i figli; violenti traumi destrutturano la loro profonda identità. Uno dei limiti dell’antropologia è allora quello di rivolgere la propria osservazione, ammantata da una presunta scientificità, su campi contaminati dalla distruttività del colonialismo, su un mondo che si oppone alla propria progressiva scomparsa vivendo nelle riserve. L’oggetto osservato viene allora riposto tra falsi confini di uno spazio sospeso ed immobile in un eterno presente come se il trauma ed il passato spazzato via non fossero mai esistiti. E ancora falsi confini sono presenti tra le discipline che studiano le varie culture: la storia che inizia dal contatto con l’occidente e si occupa di un campo progressivo e temporale, e poi l’antropologia che si occuperebbe della cosiddetta preistoria, sprovvista di scrittura, delle civiltà primitive, supposte ferme in un immobile vestigio del passato. Emerge dunque la necessità di modelli alternativi, multiculturali e multi-lineari che restituiscano complessità, ad esempio, alla storia dei cacciatori-raccoglitori australiani precedente l’arrivo degli europei e che valorizzino la specificità della loro ricca vita spirituale, dominata da credenze filosofiche religiose come il Tempo del Sogno, un insieme di miti fondativi che riguardano le entità creatrici ed i loro rapporti col territorio e gli esseri umani.
Ecco allora lo sguardo antropologico arricchirsi ed arricchire le altre discipline mentre ritrova esso stesso un futuro, un nuovo confine, un nuovo approdo. Dunque ci si chiede se la nostalgia per il primitivo, in questo ridefinito confine della disciplina antropologica, possa conservare ancora il suo spazio. Il concetto di nostalgia diviene critico: essa non è più rivolta verso un presunto paradiso perduto, ma può ritrovare nella complessità un’apertura al futuro (“Nostalgia di futuro” è proprio il titolo del contributo di Giusti), una complessità che però, come sembra avvenire, non si allontani dalle cose importanti della vita come la nascita e la morte, questioni che sembrano resistere maggiormente all’interno delle società semplici.
Infine la “voce” di Claudio Di Palma, attore e regista, che conclude i lavori con un intervento dal titolo: “C’era una volta… nostalgia nelle fiabe, nostalgia delle fiabe”, e che alterna profondità di pensieri ad una lettura immediatamente evocativa di atmosfere, mentre ci comunica direttamente il metodo e i confini conoscitivi della propria disciplina riguardo il nostro oggetto di osservazione, la nostalgia.
La lettura di una fiaba che ha per protagonisti un mercante arabo ed un merlo indiano ci dice della nostalgia del merlo, dunque sposta l’asse dalla nostalgia degli uomini alla nostalgie delle cose. Dalla terra d’origine del merlo parte un messaggio di libertà e di vita che il mercante legge invece come segnale di morte. A partire da questa fiaba, Di Palma ci dice come, attraverso il teatro, egli possa dare voce anche alle proprie contraddizioni. Citando poi Ferito a Morte di Raffaele La Capria ci illustra come si possa essere nostalgici per un luogo mai conosciuto, in questo caso per il mare di Napoli quando era ancora balneabile, da parte di chi ha conosciuto solo un mare non balneabile, condizione rafforzata dalle parole di Carmelo Bene che ci dice della nostalgia delle cose che non ebbero mai cominciamento.
Infine la commovente lettura dell’Uomo di neve di Andersen. La fiaba racconta di un pupazzo di neve che trascorre tutto il giorno a fissare l’interno della abitazione di chi l’ha costruito, intravedendo dalla finestra una stufa, di cui si innamora. Con il pupazzo di neve parla un saggio cane. I giorni passano, e il pupazzo di neve si strugge nel contemplare ed ammirare la stufa durante la notte (durante il giorno le finestre sono ghiacciate). Finito l’inverno, l’uomo di neve si scioglie, ed il cane capisce il motivo del suo amore per la stufa. Il pupazzo era stato costruito intorno ad un raschiatoio della stufa, e soffriva per la malinconia di non potersi riunire ad essa.
L’uomo di neve aveva dunque dentro un oggetto che lo legava a cose diversissime da lui, la nostalgia dunque è per cose sconosciute e diverse (alterità), e noi esistiamo solo in relazione ad esse.
Attraverso la lettura di un’ultima fiaba vediamo come la ricerca dei tesori non ci debba condurre tanto lontano perchè essi sono dentro di noi, ma per poterli ritrovare c’è bisogno del sogno di un altro, di un passaggio, di un transito, da un luogo ad un altro luogo, da una forma ad un’altra forma.
Ad accrescere, infine, la polifonia del dialogo ha contribuito un caloroso dibattito con il pubblico presente in sala, moderato dalla psicoanalista Gemma Zontini che lo arricchisce anche con i fili del discorso metapsicologico.
Maria Stanzione