Ho trascorso gli ultimi dieci giorni d’agosto a Gaza, a lavorare con i bambini con traumi da guerra. Vi ero di già stata ad ottobre e di queste esperienze dovrei raccontare e non è facile. Collaboro a un progetto di cooperazione internazionale, finanziato dal Ministero degli esteri italiano, il cui scopo è aiutare un gruppo di bambini le cui famiglie hanno avuto la casa distrutta o danneggiata durante l’operazione “Piombo fuso”. Bambini quindi con un trauma che li accomuna, assieme a tanti altri traumi, cui la guerra li ha inevitabilmente esposti. Bambini con una drammatica specificità. A Gaza la situazione non è mai tornata normale, i bombardamenti continuano e così i vecchi traumi si riattualizzano sempre. Le bombe sono cadute anche durante la mia permanenza e racconterò anche dell’effetto che hanno avuto su di me e sul mio lavoro con i bambini.
Ma torniamo al progetto. Prevedeva innanzitutto la costruzione di due ludoteche, i cui giocattoli sono stati fatti dagli stessi bambini. Questi sono poi divisi in gruppi di quindici e giocano con l’aiuto degli animatori. L’idea è dare a questi bambini un posto sicuro dove trascorrere ore serene. Un terzo di loro ha un disagio emotivo abbastanza grave ed è seguito dagli psicologi. A Gaza gli psicologi hanno tutti una formazione cognitivo comportamentale: è l’unica a cui hanno accesso. Ne consegue che lavorano sul sintomo senza accedere alla vita emotiva dei bambini. Di certo nei miei due soggiorni non potevo fare una formazione in così poco tempo, però proporre un vertice diverso, quello psicoanalitico, questo sì era ed è fattibile.
Ho avuto due incontri con tutto lo staff, gli animatori che mi conoscevano di già e avevano compreso quel è il mio modo di lavorare, e gli psicologi, che invece erano nuovi.
All’inizio del primo incontro ho chiesto loro se c’era qualcosa di cui volevano discutere con me e mi hanno subito parlato delle difficoltà che incontravano in uno dei gruppi di gioco. Un bambino in particolare creava di continuo problemi ed era riuscito a stabilire un’alleanza con altri tre. Abbiamo discusso quasi due ore e un’altra ora il giorno dopo. Sono stata contenta di aver ben seminato a ottobre, poiché mi è stato più facile proporre loro un modo di affrontare le difficoltà in termini di relazione di gruppo dei bambini fra loro e con gli animatori che conducono il gruppo.
Sempre il secondo giorno ho fatto l’unico incontro teorico. A ottobre avevo parlato del ruolo che ha il gioco in Psicoanalisi infantile. Questa volta ho discusso con loro della teoria del gioco in Winnicott, con alcuni accenni allo sviluppo emotivo dei bambini. Si sono tutti appassionati tantissimo, poiché gli stage formativi che fanno hanno tutti un’impostazione prettamente pedagogica ed hanno compreso come potesse essere utile per il loro lavoro ascoltare invece un punto di vista così diverso, che tiene conto della vita psichica più profonda.
Gli ultimi quattro giorni ho visto alcuni bambini. Sono arrivata a Gaza con la scatola dei giochi, che ho utilizzato come faccio sempre nel mio lavoro di psicoanalista e poi ho discusso il materiale clinico con gli psicologi. Un vero e proprio gruppo clinico che è stato appassionante e appassionato. La discussione è stata ricchissima di riflessioni, spunti critici.
Ho voluto rivedere una bimba di dieci anni, M. che avevo visto a ottobre. Durante la guerra era in casa con la sua famiglia quando è entrata una bomba al fosforo bianco. Da allora per un sacco di tempo è vissuta nel terrore e nell’angoscia e dopo qualche mese ha anche iniziato a perdere i capelli. L’ho ritrovata meno angosciata, ma del tutto calva, sta anche perdendo le sopracciglia. Il contenuto dei suoi giochi è stato molto ricco, riproponendo alcuni contenuti che ho trovato in tutti i bambini, un senso diffuso di persecutorietà, l’angoscia di subire violenza e di agirla, il meccanismo di difesa dell’identificazione con l’aggressore. La discussione di questo caso clinico è stata fra le più interessanti. La psicologa che la segue s’era fatta convinta che la bimba stesse meglio, perché non aveva più incubi. Ho proposto una chiave di lettura diversa, sulla trasformazione dell’angoscia nel disturbo psicosomatico che si aggrava sempre più. Per gli psicologi è stato come se si aprisse un mondo del tutto nuovo ma affascinante ed utile per capire meglio i bambini.
Il gruppo di discussione del secondo giorno è stato arduo per me, ma sono stata contenta di aver affrontato un problema che è davvero in primo piano per tutti gli operatori di Gaza.
La sera prima, mentre ero seduta in tranquillità nella guest house a chiacchierare con due giovani cooperanti responsabili del progetto, sono iniziati i bombardamenti, molto, ma molto vicini. Li abbiamo sentiti distintamente, abbiamo percepito lo spostamento d’aria, il frastuono dei vetri che tremavano. Siamo rimaste sveglie un paio di ore e poi sono andata a letto apparentemente tranquilla. Al mattino è venuto a consultazione un bambino di undici anni. Durante la guerra ha dovuto abbandonare la casa, che è stata distrutta, e mentre andavano via ha visto un uomo con tutte e due le gambe tagliate di netto che chiedeva aiuto, ma lui e la mamma non hanno potuto fare nulla. Da allora A. ha cominciato a essere sempre molto spaventato, ad avere incubi, soffre poi di enuresi notturna. Quando è arrivato a consultazione ha voluto narrarmi di sé e ha anche fatto un disegno. Ma era chiaramente angosciato, non aveva voglia di stare con me e sul momento io ho fatto un atto di negazione, non mi ricordavo neppure più dei bombardamenti. Sono certa che volevo dire a me stessa che non era accaduto nulla, né a me, né al bambino. E così A. non s’è sentito per nulla accolto.
Quando è iniziato il gruppo mi sono resa conto di quello che era accaduto e ne ho discusso a lungo con gli psicologi. Ho parlato loro di come non soltanto lavorano con il trauma, ma vivono essi stessi in una situazione traumatica, con il rischio che quello che è accaduto a me può accadere a loro in continuazione e di come sia importante un lavoro continuo su se stessi.
Credo proprio che sia stato un gran sollievo per loro poter parlare della loro di angoscia, che viene di continuo riattualizzata.
Avevo comunque fissato un secondo incontro con A. e questa volta sono stata capace di accogliere tutta la sua angoscia.
Nella discussione che è seguita abbiamo discusso di un altro punto, di come il trauma subito durante la guerra viene significato da tutta la storia del bambino, dalla sua vita emotiva e di come sia riduttivo l’equazione evento traumatico uguale nevrosi d’angoscia.
Il penultimo giorno ho rivisto M. Mentre la bimba era seduta accanto a me a disegnare è scoppiata una bomba sonora, il boato è stato fortissimo. M. non ha mosso ciglio, è rimasta con il capo chino sul foglio e quando le ho detto che doveva avere avuto molta paura, l’ha negato con decisione. Così forti sono ormai i suoi meccanismi di difesa.
L’ultimo giorno ho incontrato di nuovo tutto lo staff, ho detto loro che probabilmente tornerò a novembre e di riflettere su quello che vorranno discutere con me.
E poi sono uscita da Gaza, stranita ma soddisfatta.
Settembre 2012
Maria Patrizia Salatiello
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