Eventi

ApsaA Meeting 2013 – New York

21/03/13

Introduzione

Anche quest’anno si è tenuto, come da tradizione, il National Meeting dell’American Psychoanalytic Association presso il Waldorf Astoria Hotel di New York dal 15 al 20 Gennaio 2013. E’ stata una settimana ricchissima di eventi che come al solito, attraverso workshops, gruppi di discussione, esposizioni plenarie, sessioni di lavoro su materiale clinico organizzate in più giorni consecutivi e presentazione di progetti di ricerca in ambito psicodinamico, ha fornito una preziosa occasione di incontro non solo tra psicoanalisti del Nord America ma anche tra un cospicuo numero di colleghi di diverse provenienze. Diverse provenienze, sia relativamente alle radici geografiche e culturali sia riguardo alle differenti declinazioni nel sapere e nell’ operare in campo psicoanalitico. Il Presidente della APsaA, Robert L. Pyles, ha fatto il punto sul panorama locale di quello che noi potremmo chiamare il “sistema sanitario nazionale” e sull’impatto che i cambiamenti attualmente in atto, sia a livello sociale che economico, possono avere sulle professioni della salute mentale. Una particolare attenzione è stata data all’area di intervento della psicoanalisi. Si è molto discusso sullo stato attuale della “psicoanalisi” e sul suo futuro. Su come si possano trovare strategie per un suo sviluppo e su come evidenziarne l’efficacia sia a breve che a lungo termine. Su questi temi abbiamo approfittato della presenza di Antonino Ferro, Presidente della Società Psicoanalitica Italiana, per registrare una breve ‘video-finestra’ in cui Ferro ha fornito alcune considerazioni e pensieri a caldo sul clima psicoanalitico attuale (Guarda il video di Antonino Ferro)

 

Alcuni contributi italiani

Volendo ora soffermarci su alcuni contributi offerti dai colleghi italiani presenti ricordiamo come Antonino Ferro abbia condotto un “Two-Day Clinical Workshops”. In questi due incontri, attraverso l’approfondita discussione del materiale clinico portato dal collega David Sharff, ha offerto a tutti i partecipanti del gruppo la possibilità di osservare in diretta il suo modo di lavorare nella clinica. Si è inoltre approfondito anche l’elemento tecnico, espresso attraverso il modello della ‘Field Theory’ nella declinazione fornita da Ferro.In un altro gruppo di discussione, che ha avuto come chair Giuseppe Civitarese, si sono esplorati ulteriormente gli aspetti clinici e teorici della ‘Teoria del Campo’ e il loro uso in psicoanalisi. Si è visto come questi si siano sviluppati rispetto agli iniziali apporti dei Baranger e che rilevanza possano avere nella pratica. 

 

Sullivan rivisitato

Sempre all’interno del dibattito per una ‘psicoanalisi pluralistica ed interdisciplinare’ si sono avute due presentazioni a latere (White Institute William Alanson, Ferenczi Center) del bel libro di Marco Conci, “Sullivan rivisitato”, che attraverso la vita e l’opera di Harry S. Sullivan ci ha offerto uno spaccato importante della origine e della diffusione della psicoanalisi negli Stati Uniti. Abbiamo colto l’occasione per chiedere al suo autore una riflessione sul momento attuale e su ciò che si andava dicendo in questo ultimo convegno (Guarda il video di Marco Conci).

 

Medicina narrativa

Nella sezione dedicata ai Poster è stato presentato il progetto di ricerca “The Myth and the Cure”, che coinvolge alcuni colleghi in una esperienza di Medicina Narrativa all’interno di un gruppo di pazienti neurologici. (S. Ghedin, L. Caldironi, F. Vannini, M.R. Stabile, F. Meneghello, C. Marogna).L’intera sessione è stata organizzata da PPRS (Psychodynamic Psychoanalytic Research Society).

 

Una ricerca interessante

Concludiamo queste note citando un interessante lavoro di ricerca presentato in un workshop. Ci piace poterlo fornire nella sua interezza in quanto non vincolato dalla privacy, al contrario di quello che accadeva nei contributi precedenti (workshop clinici). Il titolo che gli autori hanno dato al lavoro è: “Tecnica classica o approccio relazionale?” I risultati in progress di una ricerca su processo ed esito delle psicoanalisi”. Ne sono autori: Francesco Gazzillo, Federica Genova, Vittorio Lingiardi (Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza Università di Roma) e Sherwood Waldron (Psychoanalytic Research Consortium, New York).

 

“Tecnica classica o approccio relazionale?” I risultati in progress di una ricerca su processo ed esito delle psicoanalisi”.

 

1. Introduzione

La ricerca empirica sull’efficacia delle psicoterapie vanta ormai una tradizione di metodi e dati sufficientemente consolidati (Beutler, Castonguay, 2006; Chambless, Ollendick, 2000; Norcross, 2002; Wampold et al. 2001). In generale, il quadro che emerge dagli studi finora condotti in questo ambito attesta che circa il 70-80% dei pazienti che si sottopongono a un trattamento psicoterapeutico, indipendentemente dal suo orientamento teorico, ottengono dei benefici, e che tutti i tipi di psicoterapia sono ugualmente efficaci. Ci troviamo di fronte all’ormai noto, ma datato (Gordon, 2010) “verdetto del Dodo”: tutti i trattamenti sono efficaci, ma nessuno è più efficace degli altri (Luborsky et al. 1976). Va notato, per inciso, che la maggior parte delle psicoterapie indagate in questo ambito sono brevi (circa 24 sedute) e a bassa frequenza di sedute (1 a settimana) (1) (per una rassegna vedi Lingiardi, Gazzillo, Genova, 2012).

I fattori terapeutici responsabili dell’efficacia delle psicoterapie sembrebbero dunque quelli aspecifici, trasversali ai diversi approcci e modelli, riconducibili alla relazione clinico-paziente: tra essi i più studiati sono l’alleanza terapeutica e l’empatia percepita dal paziente (Hilsenroth et al. 2012; Lingiardi, 2002). Questi fattori aspecifici contribuiscono all’outcome molto più dei fattori specifici: in particolare, se questi ultimi spiegano l’1-15% della varianza dell’outcome, quelli aspecifici ne spiegano il 7%-30% (Ahn, Wampold, 2001; Lambert, Barley, 2002; Norcross, 2011). È però evidente che né i fattori specifici, né quelli aspecifici, né la loro somma (dall’8% al 45%) riescono a spiegare in modo esaustivo l’outcome delle terapie.

Gli studi che hanno indagato l’efficacia delle psicoterapie psicoanalitiche a lungo termine e elevata frequenza di sedute (vedi ad as. Sandell et al. 1999; Freedman, 2002, Kneck, Linfors, 2004; per una rassegna vedi Gazzillo, Lingiardi, Genova, 2012), hanno dimostrato che queste terapie non solo sono anch’esse efficaci, ma sembrano esercitare effetti a più ampio raggio e di più lunga durata di quelli di altri tipi di psicoterapia. Sembra, inoltre, che per conseguire risultati migliori, una psicoanalisi debba durare più di tre anni e mezzo e avere una frequenza di almeno due sedute a settimana.

La psicoanalisi sembra quindi il trattamento d’elezione per pazienti con organizzazione nevrotica di personalità o borderline di alto livello (Kernberg, 2004; Caligor, Kernberg, Clarkin, 2007), mentre i pazienti con organizzazione borderline, soprattutto di basso livello, beneficiano maggiormente da terapie specifiche per questo tipo di organizzazione di personalità (Transference Focused Psychotherapy (TFP), Mentalization Based Treatment (MBT), ecc.; per una rassegna, vedi Gabbard, 2009). Così come sembra che i pazienti che traggono maggiormente beneficio dalle analisi sono quelli i cui problemi e la cui psicologia ruotano attorno al tema dell’identità, del senso morale e del proprio valore (dimensione introiettiva), mentre quelli più preoccupati da tematiche relazionali (dimensione anaclitica) sembrano trarre maggiore beneficio da terapie brevi focalizzate sulla relazione (Blatt, Shahar, 2004).

Gli esiti di una psicoanalisi sembrano poi mediati da più fattori (Gabbard, Westen, 2003): se da un lato i trattamenti che conseguono i risultati migliori e più stabili sono quelli in cui si instaura un processo analitico vero e proprio, dall’altro i risultati di una terapia analitica possono anche prescindere dall’attivazione di un processo di questo tipo, che implica lo sviluppo di una capacità auto-analitica connesso all’interiorizzazione della relazione con il terapeuta (Bachrach et al. 1985). Sembrerebbe, inoltre, che sia gli interventi di natura supportiva sia quelli di natura esplorativa favoriscano cambiamenti stabili (Wallerstein, 1986), e che un atteggiamento più aperto da parte del clinico e una disponibilità maggiore ad adattare il proprio approccio alle necessità del singolo paziente favoriscano outcome migliori di quelli che si ottengono con un atteggiamento distaccato e neutrale (Leuzinger-Bohleber, Target, 2002). L’effetto della psicoanalisi non sembra, infine, mediato dall’eliminazione dei conflitti nucleari dei pazienti, bensì dall’acquisizione di capacità auto-analitiche che favoriscono una migliore gestione di questi conflitti, che possono comunque riattivarsi in fasi successive della vita, ma vengono superati in tempi più rapidi e con minori ripercussioni sul funzionamento complessivo del paziente (Pfeffer, 1963; Norman et al. 1976; Oremland et al. 1975; Schlessinger, Robbins, 1974, 1975, 1983).

L’individuazione dei fattori terapeutici realmente attivi in una psicoanalisi è tutt’ora oggetto di dibattito nella comunità scientifica (Levy, Ablon, Kachele, 2012).

Contemporaneamente, negli ultimi trent’anni, abbiamo assistito a quella che è stata chiamata “la svolta relazione della psicoanalisi” (Lingiardi, Amadei, Caviglia, De Bei, 2011), che dal punto di vista tecnico ha implicato la valorizzazione della dimensione relazionale come fattore mutativo per eccellenza. Gli analisti relazionali (Mitchell, Aron, 1999) si fanno portavoce di un approccio che valorizza un ruolo più attivo dell’analista, una sua maggiore disponibilità a parlare di sé e delle proprie esperienze (Renik, 1995), a utilizzare la propria esperienza soggettiva per favorire e approfondire la comprensione del paziente (Ogden, 1994) e a essere più coinvolti emotivamente e aperti alla possibilità di comunicare i propri sentimenti nel qui e ora della terapia.

Per affrontare la diatriba tra approccio classico e relazionale, tra chi privilegia il ruolo terapeutico dell’insight e dell’interpretazione e chi quello della relazione, è auspicabile progettare ricerche empiriche che indaghino l’influenza reciproca dei diversi fattori attivi in un processo analitico, tanto quelli più “classici” (chiarificazioni e interpretazioni di difese, transfert e conflitti) quanto quelli più “relazionali” (quanto il clinico è empatico, diretto, coinvolto, usa self-disclosure ecc.). Ed è questo l’obiettivo principale della nostra ricerca.

 

2. Obiettivi della ricerca

Questa ricerca si inserisce nel contesto della quarta generazione degli studi empirici su processo ed esito delle psicoanalisi (Wallerstein, 2001) e ha lo scopo di valutare empiricamente i cambiamenti della personalità, della sintomatologia clinica e di alcune funzioni psichiche fondamentali dei pazienti in analisi cercando di far luce sui fattori terapeutici che facilitano questo tipo di cambiamenti.

Nello specifico, questo studio si propone di verificare l’ipotesi per cui un trattamento analitico di successo (cioè che determina una riduzione dell’intensità dei tratti disfunzionali, un incremento nelle capacità di funzionamento sano e un aumento nei livelli di salute psicologica) si differenzi da un trattamento a esito sfavorevole per:

1. Contributi del paziente: a) maggiore produttività del paziente, ossia una maggiore capacità di comprendere le proprie caratteristiche psicologiche, di restare in contatto con le proprie emozioni e di coinvolgersi nel processo terapeutico; b) maggiore capacità di oscillare tra il fare esperienza e il riflettere sull’esperienza vissuta; c) maggiore capacità di comprendere i propri pattern tipici di relazione e comportamento.

2. Contributi tecnici del terapeuta: a) interventi migliori del terapeuta, ossia una maggiore capacità del clinico di effettuare interventi adeguati, potenzialmente utili nel contenuto ed efficaci nella presentazione; b) maggiore capacità di utilizzare le attività analitiche nucleari (chiarificazioni e interpretazioni di conflitti, difese e transfert); c) una maggiore capacità del terapeuta di sintonizzarsi sui mutamenti nelle dinamiche affettive del paziente momento per momento; d) comunicazioni più chiare, dirette e calde; e) maggiore capacità del terapeuta di lavorare sui pattern tipici di comportamento del paziente.

3. Contributi interattivi: a) maggiore capacità del paziente di utilizzare gli interventi del terapeuta per diventare più consapevole dei propri sentimenti; b) maggiore capacità del paziente di comprendere e integrare ciò che comprende della relazione terapeutica con ciò che vive in altre relazioni, grazie anche agli interventi del terapeuta, c) maggior coinvolgimento della diade nel processo terapeutico.

 

3. Campione

Il campione di questa ricerca è composto da 31 trattamenti psicoanalitici, interamente audio-registrati e trascritti, condotti da analisti statunitensi esperti dal 1969 al 2011 e in possesso dello Psychoanalytic Research Consortium presieduto da Sherwood Waldron. Per ogni trattamento abbiamo selezionato un campione di 20 sedute, per un totale di 620 sedute, così distribuite: a) le prime 4 sedute del trattamento; b) 4 sedute a sei settimane dall’inizio; c) 4 sedute a metà trattamento; d) 4 sedute a sei settimane dalla conclusione, e) le ultime 4 sedute. La scelta di selezionare solo 20 sedute per trattamento è stata motivata da vincoli di tempo e di risorse, ma se da un lato l’esiguità del campione rappresenta un limite di questa ricerca, dall’altro non siamo a conoscenza di studi su processo ed esito delle psicoanalisi che hanno valutato un numero analogo di trattamenti e di sedute utilizzando una strategia di ricerca bottom-up.

 

4. Strumenti

1. La Shedler-Westen Assessment Procedure-200 (SWAP-200; Westen, Shedler, Lingiardi, 2003) è uno strumento di valutazione Q-sort composto da 200 item che descrivono caratteristiche della personalità normale e patologica e che il valutatore deve distribuire in 8 pile, rispettando una distribuzione fissa in base a quello che ritiene essere il loro grado di descrittività con il paziente. Per mezzo della SWAP-200 è possibile ottenere: (1) una diagnosi della personalità dei pazienti che segue la nosografia dell’Asse II del DSM-IV con in più un fattore relativo alle capacità di buon funzionamento (fattori PD); (2) una diagnosi della personalità che segue una nosografia empiricamente derivata (fattori Q); (3) una formulazione del caso patient-tailored. La diagnosi SWAP è sia dimensionale (ogni soggetto riceve un punteggio relativo a tutte le categorie prese in considerazione) sia categoriale (a ogni soggetto può essere diagnosticato o meno un certo disturbo). Gli studi condotti finora con questo strumento hanno dimostrato ottimi livelli di inter-rater reliability (IRR) e una buona validità di costrutto (Lingiardi, Shedler, Gazzillo, 2006; per una rassegna, vedi Gazzillo, 2009;). Anche i livelli di IRR ottenuti per la ricerca in oggetto sono ottimi.

2.Il Personality Health Index (PHI; Waldron et al., 2011) è un indice di valutazione del livello di salute psicologica derivato dalla SWAP-200. Il PHI mostra una buona validità convergente con la GAF (r=.43; p<.001), con la valutazione dell’organizzazione di personalità secondo la teoria di Kernberg (r==.53) e con la scala di alto funzionamento della SWAP-200 (r=.905; p<.0001), dimostrando così una buona validità di costrutto. I livelli di ICC del PHI per questa ricerca sono ottimi.

3.Il RADIO (Waldron et al., 2011), anch’esso derivato dalla SWAP-200, è una misura tesa a descrivere e valutare in modo più specifico il funzionamento di personalità del soggetto lungo cinque domini: esame di Realtà e processi di pensiero, regolazione e tolleranza degli Affetti, organizzazione Difensiva, integrazione dell’Identità e relazioni Oggettuali. Il suo obiettivo è quello di valutare i cambiamenti nei domini funzionali di personalità indagati nel corso di un trattamento. I livelli di inter-rater reliability sono buoni.

4. La Scala per la Valutazione Globale del Funzionamento (GAF; APA, 2000) del DSM-IV-TR valuta il funzionamento psicologico, sociale e lavorativo del paziente nell’ambito di un ipotetico continuum (da o a 100) salute-malattia, ove il punteggio 100-91 corrisponde a un funzionamento superiore alla norma in un ampio spettro di attività (sociali, lavorative, familiari ecc) ed esclude la presenza di sintomi; il punteggio 50-41 corrisponde a gravi alterazioni nel funzionamento sociale, lavorativo, scolastico e con la presenza di grave sintomatologia e, il punteggio 0 si applica quando le informazioni per collocare il funzionamento del paziente lungo questo continuum sono insufficienti e inadeguate. I livelli di ICC ottenuti dalle valutazioni di due rater impegnati nella ricerca sono buoni.

5. L’Helping Alliance rating method (HAr; Luborsky, et al. 1983) è uno strumento che mira all’identificazione e al conteggio di “segni” utili per comprendere il modo in cui il paziente vive la sua alleanza d’aiuto con il terapeuta. E’ uno strumento che si applica a trascritti di sedute terapeutiche e che identifica due tipi di alleanza d’aiuto: (a) alleanza di tipo 1 (positiva e negativa) che valuta la percezione, da parte del paziente, del terapeuta come caldo, utile e supportivo e, (b) di tipo 2 (positiva e negativa) che valuta l’alleanza di lavoro, definita come il grado di cooperazione della diade terapeutica, il livello di responsabilità condivisa per il raggiungimento degli obiettivi terapeutici e la capacità del paziente di capire cosa fa il terapeuta. I livelli di inter-rater reliability di questo strumento, applicato da due rater indipendenti, sono buoni.

6. Le Analityc Process Scale (APS; Waldron et al., 2004a/b) sono 32 rating scale (14 per il paziente e 18 per il terapeuta) che permettono di valutare i contributi di clinico e paziente al processo terapeutico. Le 14 scale per il paziente indagano dimensioni come la capacità di comunicare in modo chiaro esperienze e sentimenti che permettono al valutatore di delineare i conflitti del paziente; la capacità di riflettere su di sé in modo utile a promuovere una maggiore comprensione di sé; il riferimento, più o meno sofisticato e complesso, a argomenti di natura romantica o sessuale; il riferimento a tematiche che riguardano l’autostima; la capacità di rispondere agli interventi del terapeuta in modo potenzialmente utile al progresso della terapia ecc.. Le 18 scale del terapeuta indagano la presenza delle attività analitiche nucleari negli interventi e, nello specifico la presenza, la complessità e l’accuratezza di interpretazioni, chiarificazioni, interventi sui conflitti, sulle difese, sul transfert; la presenza di interventi di sostegno; il riferimento a tematiche riguardanti l’autostima; la presenza di interventi di natura confrontativa ecc. Le APS si applicano a trascritti di sedute analitiche interamente audio-registrate e trascritte e indagano la presenza delle 32 variabili, a livello globale, all’interno di ogni trascritto di seduta psicoterapeutica su una scala Likert da 0 (assenza della caratteristica) a 4 (presenza della caratteristica in modo molto articolato e dettagliato). Le ricerche finora condotte (Waldron et al. 2004a, b; Waldron, Helm, 2005; Lingiardi, Gazzillo, Waldron, 2010) hanno dimostrato buoni livelli di inter-rater reliability di tutte le scale e hanno messo in evidenza la centralità della relazione tra qualità delle comunicazioni del terapeuta e produttività delle comunicazioni del paziente nel processo analitico. Anche i livelli di accordo tra i nostri valutatori sono eccellenti.

7. Le Dynamic Interaction Scale (DIS; Waldron et al., submitted) sono 12 rating scale (5 del terapeuta, 4 del paziente e 3 relative all’interazione) che permettono di valutare i contributi di clinico e paziente, sia individuali sia congiunti, al processo terapeutico. Le DIS sono state elaborate allo scopo di indagare gli aspetti emotivi e relazionali della relazione terapeutica e il loro effetto sull’esito del trattamento. Le scale del terapeuta indagano la capacità del terapeuta di comunicare in modo diretto e chiaro, di seguire i cambiamenti nelle tematiche affettive dei pazienti e di lavorare sui loro pattern tipici di comportamento. Le scale del paziente indagano la sua capacità di oscillare tra il fare esperienza e il riflettere sull’esperienza vissuta, la capacità di mettere in relazione in modo flessibile la vita di veglia e i sogni e la capacità di lavorare sui pattern tipici di comportamento e di relazione. Infine, le scale dell’interazione valutano il grado di coinvolgimento della diade alla terapia, la percezione del terapeuta come empatico, la capacità del terapeuta di aiutare il paziente a sviluppare una maggiore consapevolezza dei propri sentimenti e la capacità del paziente di integrare la comprensione tra la relazione col terapeuta e le altre relazioni, presenti e passate. Per ogni variabile considerata si possono assegnare cinque punti, da 0 (assenza della caratteristica) a 4 (presenza della caratteristica in modo articolato e dettagliato) in base alla presenza della stessa nell’intera seduta. Anche per le DIS, i livelli di accordo tra i tre rater indipendenti impegnati nella ricerca sono ottimi.

 

4. Metodo

L’HAr è stato applicato alle prime otto sedute; la SWAP-200, il PHI, il RADIO e la GAF sono stati applicati alle otto sedute di inizio terapia e alle otto sedute di fine terapia; le APS e le DIS sono state applicate all’intero campione di sedute (N=20). APS e DIS sono eseguite da tre rater indipendenti; SWAP-200 (PHI, RADIO), HAr e GAF da due coppie di due rater indipendenti. SWAP-200, PHI, RADIO e GAF sono stati utilizzati per individuare i trattamenti psicoanalitici a esito positivo (good outcome) differenziandoli da quelli a esito negativo (poor outcome) in base a due criteri: incremento nei livelli di salute psicologica del soggetto e riduzione degli stili disfunzionali di personalità tale che non possa essere più applicata alcuna diagnosi di disturbo, qualora essa fosse presente all’inizio della terapia. Per confrontare i livelli delle diverse scale APS, DIS e HAr nei casi a esito positivo da quelli a esito negativo, è stato utilizzata il test U di Mann Withney.

 

5. Risultati

I risultati che stiamo per esporre sono in progress perché la ricerca è attualmente in corso e i dati sono relativi alla valutazione di 13 trattamenti analitici su un totale di 31. Dalla valutazione dei pazienti a inizio terapia (prime otto sedute) è emerso che sette pazienti su tredici presentavano almeno un disturbo di Asse I e otto presentavano almeno una diagnosi di Asse II (vedi tabella 1). In generale, e in linea con quanto evidenziato dalle precedenti ricerche sulle psicoterapie, a inizio terapia i pazienti a poor outcome presentavano più diagnosi di Asse I e di Asse II rispetto ai pazienti delle analisi a good outcome.

 

Tabella 1.* Inquadramento clinico-diagnostico dei pazienti a inizio e fine terapia

 

PZ

        

         ASSE I

           inizio

    

       ASSE II

       inizio

      

         ASSE I

             fine

 

ASSE II

fine

  

A2

 

      

     Dist. di panico

   con agorafobia

 

     Dist. dipendente e depressivo + tratti evitanti e depressivi

 

 

 

N9

 

 

 

Difficoltà relazionali

 

 

 

W1

 

Dist. da abuso

di sostanze

 

Dist. passivo-aggressivo + forti tratti evitanti e dipendenti

 

   Dist. passivo-aggressivo + forti tratti schizoidi, evitanti, dipendenti e depressivi

 

Q2

 

 

     Forti tratti evitanti e depressivi

 

 

     Forti tratti ossessivi

 

V4

 

 

Dist. borderline e narcisistico + forti tratti paranoici,

istrionici e narcisistici

 

 

Dist. borderline, passivo-aggressivo + forti tratti istrionici e narcisistici

 

M7

 

 

Dist. da abuso

di sostanze

 

   Forti tratti ossessivi

e evitanti

 

 

       Forti tratti ossessivi

 

P0

 

   Insonnia,   dist.         di conversione

e dist. sessuale

     Disturbo istrionico, borderline, narcisistico e dipendente

+ forti tratti antisociali

e passivi-aggressivi

 

 

 

F4

 

 

Dist. dipendente + forti tratti ossessivi e depressivi

 

 

 

D1

 

Depressione

Dist. schizoide, dipendente, evitante, depressivo

+ tratti schizotipici

 

 

 

N3

 

Depressione

 

Dist. istrionico e borderline

+ forti tratti dipendenti

 

   Depressione

Dist. istrionico, borderline e dipendente + forti tratti passivi-aggressivi

 

P2

 

 

 

Forti tratti borderline,

istrionici e dipendenti

 

 

Forti tratti dipendenti e depressivi

 

Q8

 

 

Depressione

 

Dist. istrionico

 

 

 

E1

 

 

 

Forti tratti dipendenti,

evitanti e depressivi

 

 

 

*[La tabella illustra le diagnosi inizio-fine terapia ottenute con la SWAP-200; i casi a good outcome sono evidenziati in rosso, i casi a poor outcome in blu]

Dalle analisi quantitative dei dati ottenuti con la GAF, il PHI e l’HAr non sono invece emerse differenze significative nei punteggi dei pazienti a good e poor outcome terapeutico: il livello globale di funzionamento a inizio terapia e il livello dell’alleanza terapeutica non ci permettono quindi di discriminare i pazienti che avrebbero tratto beneficio dall’analisi da quelli che non ne avrebbero tratto beneficio. Tuttavia, la differenza nei loro livelli di PHI a inizio terapia, seppur non (ancora) significativa dal punto di vista statistico, è considerevole (33.2 vs 11), ed è probabile che diventerà significativa dal punto di vista statistico con il crescere del numero dei soggetti valutati. Ciò implica che non è tanto il livello globale di salute/compromissione (GAF) a inizio terapia ad avere valore prognostico, e nemmeno quanto sia forte l’alleanza di aiuto iniziale con il terapeuta (HAr), ma le risorse psichiche che il paziente può mettere in gioco in analisi (PHI) e i disturbi conclamati che presenta. Dai risultati relativi alla valutazione del processo terapeutico con le APS e le DIS sono emerse numerose differenze significative tra i trattamenti a good e poor outcome, differenze solo in parte evidenziabili all’inizio delle analisi. Nelle analisi a good outcome, i pazienti mostrano una maggiore capacità di oscillare tra il fare esperienze e il riflettere sull’esperienza vissuta, di mettere in relazione la vita diurna e l’esperienza onirica, e di rispondere agli interventi del terapeuta in modo potenzialmente utile per il progresso della terapia e in modo più produttivo, ossia mostrando una migliore comprensione delle proprie caratteristiche psicologiche e essendo più coinvolti nel processo terapeutico. Detto in altri termini, i pazienti le cui analisi avranno successo non parlano né pensano a cose diverse da quelle dei pazienti poor outcome, ma parlano e pensano in modo diverso, più ricco e riflessivo.

Prendendo in considerazione il lavoro dei terapeuti, possiamo dire che nelle analisi a good outcome gli analisti sono più supportivi, incoraggiano maggiormente l’elaborazione dei pazienti e lavorano meglio sulle loro difficoltà di autostima; utilizzano in modo più sofisticato e complesso le “attività analitiche nucleari” (chiarificazioni e interpretazioni di difese e conflitti), si focalizzano maggiormente sull’infanzia e l’adolescenza dei pazienti e lavorano meglio sui loro pattern di relazione e sentimento tipici. A livello relazionale, nelle analisi a good outcome gli analisi comunicano in modo più diretto, si mostrano più caldi e responsivi, seguono con più attenzione i mutamenti, momento per momento, nelle dinamiche affettive dei pazienti e sono più disponibili a parlare di sé e delle proprie esperienze soggettive. In generale, le comunicazioni degli analisti nelle analisi a good outcome sono migliori per tipo, contenuto e stile di quelle degli analisti delle terapie a poor outcome. Infine, le diadi terapeuta-paziente delle analisi good outcome sembrano più coinvolte emotivamente nella terapia, il terapeuta è percepito come più empatico dal paziente e, il paziente riesce a utilizzare meglio gli interventi del terapeuta per comprendere i suoi sentimenti.

È bene tenere a mente che, nel campione delle terapie finora indagate (13, per un totale di 260 sedute), due delle tre analisi a poor outcome sono condotte da terapeuti che hanno condotto anche alcune delle analisi a good outcome; per questo motivo, ciò che stiamo valutando è il lavoro che un certo analista fa con un certo paziente, non pensando che gli analisti che conducono trattamenti di scarso successo siano necessariamente “meno bravi” di quelli che conducono analisi a good outcome. È il “matching” paziente terapeuta a essere uno dei fattori essenziali per comprendere l’esito di un trattamento (Bachrach et al. 1991; Leuzinger-Bohleber, 2002). È interessante notare che, nelle prime otto sedute delle terapie che abbiamo valutato, i pazienti non mostravano differenze significative nella qualità della loro partecipazione all’analisi, mentre già emergevano alcune differenze significative nel lavoro dei loro terapeuti: nello specifico, nelle analisi a good outcome i terapeuti lavoravano meglio sui conflitti, sulle difese e sullo sviluppo dei pazienti, erano più disponibili a parlare di sé e delle loro esperienze soggettive e facevano interventi complessivamente migliori. Sulla base di questi dati, il processo analitico sembra un processo relazionale e interattivo facilitato dal terapeuta.

 

6. Conclusioni

I dati fin qui illustrati aprono la strada all’ipotesi per cui le differenze nell’approccio dei terapeuti e nella qualità del processo terapeutico, se individuate nel corso del trattamento e rese note ai clinici, potrebbero avere un impatto “correttivo” sul trattamento stesso (Lambert et al., 2011). Se i nostri dati fossero empiricamente confermati dall’ampliamento del campione, allora potremmo essere in grado non solo di individuare, già nelle prime fasi della terapia, i casi con scarse probabilità di successo, ma anche di chiarire quali differenze nella tecnica siano responsabili della riuscita di un trattamento. In generale, ciò che si evince da questi risultati preliminari è che i trattamenti analitici a good outcome sono caratterizzati da una combinazione di interventi classici e stile relazionale. In altri termini, la percezione dell’analista come empatico, il maggior livello di coinvolgimento della diade nella terapia, la maggiore disponibilità del terapeuta a parlare di sé e della propria esperienza, la sua capacità di effettuare interventi diretti e supportivi, la capacità di seguire i mutamenti momento per momento nelle tematiche affettive dei pazienti e di utilizzare in modo complesso le attività analitiche nucleari sembrano differenziare le analisi di maggiore o minore successo. I dati raccolti fino ad ora lasciano intendere che, nelle analisi a good outcome, questo modo di lavorare del clinico permetta al paziente di partecipare meglio al processo analitico e di apprendere di più su se stesso, cosa che nel lungo periodo favorisce un buon esito della terapia. Ci proponiamo, in futuro, di verificare la validità delle nostre ipotesi anche attraverso rilevazioni di follow-up. Come già accennato, l’esiguità del campione (13 casi e solo 20 sedute per trattamento), la prevalenza delle analisi di successo (10 a fronte delle 3 a esito negativo) e, l’assenza di assegnazione randomizzata dei pazienti ai gruppi sperimentali costituiscono comunque dei limiti di questa ricerca, che ha però il pregio di indagare trattamenti analitici condotti da clinici esperti per mezzo di una strategia bottom-up, dai dati e, soprattutto, dai trascritti (Lingiardi. 2006), alla teoria, per mezzo di strumenti empiricamente solidi e psicodinamicamente fondati.

 

Note

(1) Inoltre, come sottolineato da Alla Gordon (2010), gli indici di outcome utilizzati per valutare l’efficacia dei diversi trattamenti in questo tipo di ricerche, essendo prevalentemente di natura sintomatologica, non sono adatti a valutare tutte le funzioni e le capacità del soggetto su cui agiscono le psicoterapie a orientamento dinamico, e dunque a cogliere le differenze nell’efficacia dei diversi trattamenti (es. terapie cognitive vs terapie dinamiche).

 

 

Bibliografia

 

Ahn, H. Wampold, B.E. (2001), “Where o where are the specific ingredients? A meta analysis of component studies in couseling and psychotherapy”. In Journal of Counseling Psychology, 48, pp. 251-257.

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