Centro di Psicoanalisi Romano Centro Psicoanalitico di Roma
La mattinata di studio si apre con Lorena Preta che riprende le parole di Sudhir Kakar e sottolinea la profonda interconnessione tra cultura e psiche sin dall’inizio della vita, aspetto che fonda e sostanzia la natura culturale dell’inconscio. Questa consapevolezza è all’origine del pensiero da cui prende avvio il gruppo di ricerca di Geografie della Psicoanalisi che si muove nel tentativo di far interagire linguaggi e tradizioni di diverse culture con la teoria e la pratica psicoanalitica. Fuoco del dialogo di oggi è l’attenzione rivolta ad un fenomeno del tutto nuovo ma comune a tutte le culture e società, il vissuto di decentramento, di scardinamento, di dis-locazione. Forme inedite di comunicazione e di organizzazione sociale sembrano aver prodotto un nuovo soggetto, un soggetto dislocato. Inizia dunque a prendere forma una dimensione ibrida di soggettività nata non da un processo di elaborazione ed integrazione fra gli elementi ma risultante da una mutazione secondo una modalità di tipo “virale”, che crea delle “formazioni” apparentemente integrate ma che in realtà lottano per sopravvivere come anticorpi di un sistema che li ha assorbiti. In queste nuove realtà la soggettività non appare racchiusa entro i confini fisici e psichici dell’individuo ma sembra sconfinare nell’altrove, in un luogo fisico esteso che comprende il dentro e il fuori senza soluzione di continuità. Tutto diviene presente, orizzontale e simultaneo.
In questo processo di trasformazione anche il corpo e la sua rappresentazione sembrano aver subito un radicale cambiamento. Il corpo, che gli psicoanalisti incontrano più di frequente negli studi, appare non più essere alla ricerca di un Sé corporeo autentico, soggettivamente individuato, ma si propone più spesso come luogo di spostamento di problematiche che non trovano elaborazione psichica per un’insufficiente capacità di simbolizzazione. Sconcerto e disorientamento derivano dunque dall’incontro con nuovi modelli di comportamento, che prima ancora di poter essere compresi ed analizzati tendono ad imporsi come forme ideologiche acquisite conformisticamente. Tra questi cambiamenti appaiono rilevanti le trasformazioni in tema di sessualità, essendo questo il prodotto di una sostituzione o del mutamento di quegli assunti psichici – la triade edipica e la conseguente differenziazione sessuale – che almeno nella società occidentale si considerano fondanti lo schema di rappresentazione della Realtà e del senso del Sé.
Tramite l’uso di materiale clinico e narrativo Gohar Homayounpour ci introduce subito nella complessa atmosfera del tema delle transessualità proponendo una lettura psicoanalitica che vuole essere “rivoluzionaria”, lontana cioè da visioni che sia nella patologizzazione che, in opposta tendenza, nella normalizzazione del fenomeno rischiano di fornire semplificazioni riduttive delle realtà psichiche. La proposta è quella di inoltrarsi nella specificità della geografia iraniana per mettere a fuoco come il discorso psicoanalitico contemporaneo affronti il tema delle transessualità.
Nel 1987 in Iran a partire da un decreto sulla legge islamica firmato dall’Ayatollah Khomeini il governo islamico riconosce ufficialmente il disturbo di identità di genere (disforia di genere) e legittima la riattribuzione chirurgica del sesso se appoggiata da un medico specialista. Attraverso due associazioni ufficiali autorizzate dal Ministero degli Interni la politica governativa si mostra subito molto supportiva verso questi pazienti: contribuisce in parte ai costi dell’operazione e fornisce loro la possibilità di ricevere cure e sostegno psicologico. Questo orientamento legislativo, in evidente discontinuità con il carattere più conservatore della legge islamica che prevede la pena di morte in caso di omosessualità, ha determinato in Iran una crescita esponenziale del numero di operazioni di “cambiamento di sesso”, tanto da divenire il secondo paese nel mondo dopo la Thailandia con il più alto indice di interventi. In contemporanea sono stati istituiti luoghi di ascolto per accompagnare i pazienti nel percorso verso il “cambiamento”, come la narrazione di Homayounpour ci testimonia attraverso alcune vignette cliniche tratte dal suo lavoro di supervisione. Ci descrive come nei gruppi di discussione, obbligatori al fine di ottenere il permesso all’intervento chirurgico, i pazienti sviluppassero inizialmente un transfert negativo verso l’equipe curante e verso il sistema giudiziario e mostrassero evidenti tratti impulsivi con una deficitaria funzione di contenimento emotivo e di simbolizzazione. Tuttavia il procedere del lavoro consentiva loro di trasformare gradualmente le azioni in comunicazioni potendo più chiaramente esprimere sentimenti di rabbia verso le autorità, le famiglie, i compagni, descrivere le proprie fantasie rispetto ai concetti di mascolinità e di femminilità, sino ad arrivare ad affrontare le ansie relative alla propria identità di genere, non più negate attraverso la fantasia magica e risolutiva dell’intervento. L’esperienza del gruppo sembrava inoltre rendere più accessibili sentimenti depressivi e introdurre una maggiore capacità di tollerare elementi di ambiguità ed incertezza laddove la scelta iniziale risultava essere categorica, fondata su una logica binaria. Homayounpour conclude rimarcando come il fenomeno delle transessualità in Iran si inscriva in una politica della trasparenza, dove tutto deve essere definito e legittimato, atteggiamento che tende a non lasciare spazio all’area della fantasia, del segreto, del desiderio. Con la morte del desiderio è inclusa la morte del soggetto. La psicoanalisi, dunque, deve viaggiare in direzione contraria aprendosi e favorendo il divenire della persona, facendone emergere fantasie, sogni, trasformazioni e sublimazioni. L’invito – citando le parole del poeta iraniano Hafez – è “…. a lasciare il conosciuto per un po’, sollevare il tetto, accogliere te stesso nelle tue mille altre forme…”.
Jeanne Wolff Bernstein ci introduce invece al tema delle esperienze trans/vite osservando come i progressi attuali delle biotecnologie abbiano sicuramente apportato dei vantaggi sociali aiutando a ridurre stati di vera e propria sofferenza, ma al contempo hanno contribuito a produrre un mondo complesso e a rischio di deriva, un mondo fatto di organi trapiantati, uteri in affitto e sperma fertili e disseminati ovunque. Si assiste alla nascita di una nuova soggettività che si localizza ad una tale distanza dal Sé che il Sé può sopravvivere solo come un oggetto, uno strumento e una funzione così percepiti dall’Altro e dunque da se stessi, in una modalità de-umanizzata dell’individuo. Le storie del trapianto d’organi raccontano spesso la complessità delle dinamiche familiari ed intrapsichiche legate all’atto del donare e del ricevere. La maggior parte dei trapianti da donatore vivente riguarda il rene e la donazione avviene prevalentemente tra consanguinei per compatibilità del corredo genetico. In questi casi si osserva come la donazione possa essere percepita sia come un dono d’amore che rinsalda il legame, sia come un obbligo e una costrizione che ne accentua la conflittualità. La letteratura psicoanalitica, ancora molto esigua, ha concentrato l’attenzione per lo più sui disturbi derivanti dall’intervento. Il processo di adattamento e di accettazione di un organo interno ed estraneo si accompagna in taluni casi a stati mentali di regressione con vissuti di intrusione e di alterazione del Sé, a carattere in prevalenza transitorio. L’acquisizione dell’organo infatti può comportare la fantasia nel ricevente di incorporarne anche altre caratteristiche, aspetto che sembra descrivere sia la negazione dell’avvenuta transizione, sia il rifiuto di sentimenti di dipendenza e di gratitudine. La capacità di accogliere nel proprio interno un elemento altro risulta dunque correlata con le personali relazioni d’oggetto, con la maggiore o minore presenza di tratti narcisistici, con la qualità ambivalente del legame con l’oggetto primario. Il processo di identificazione del ricevente con il donatore risulta ancor più articolato nella misura in cui lo scambio avviene per denaro, all’interno di mercati clandestini che si descrivono sempre più fiorenti come in Albania, Serbia e Cina. È interessante riflettere su come i termini “prelievo d’organi” e “traffico d’organi” diano al corpo o alle sue singole parti una connotazione che ne prevede una loro esistenza al di fuori della mente umana e ne facciano oggetto di commercio su scala globale. Appartengono a questo panorama concetti quali “harvesting” ed accumulo, ad intendere come vi sia una sorta di “raccolto” di parti del corpo che sono prelevate per essere immesse in altri corpi, in una grottesca immagine di bazar interiore che riecheggia l’impresa di Viktor Frankesteien. Al concetto di “raccolto” si associa quella di “accumulo” da parte di singoli o di sistemi allargati che si arricchiscono a discapito di frange della popolazione più povere e disperate, disposte ad essere usate, abusate o uccise. Di fatto il corpo è sempre stato oggetto di commercio (schiavitù, prostituzione, traffico di esseri umani), ma il fenomeno attuale si diversifica in quanto non è il corpo nella sua interezza ad essere oggetto di scambio ma sono le sue parti che vengono privilegiate ed acquistano un valore maggiore rispetto all’intero. Nella misura in cui l’essere umano è in condizioni di estremo impoverimento che lo pongono a rischio di sopravvivenza si regredisce ad un livello primordiale in cui emerge il vissuto di un corpo in pezzi, frammentato e disperso, all’interno di un immaginario in cui il Reale non si dispone a proteggere l’individuo tenendone insieme le parti o ricucendole. Si avvicinano a queste pratiche quelle di maternità surrogate dove una sola parte del corpo viene usata non per prolungare la vita di un essere umano, ma per crearla. La maternità surrogata gestazionale (in cui non vi è alcun legame genetico tra gestante e nascituro), a differenza di quella tradizionale (dove l’ovulo fecondato appartiene alla gestante), è più di frequente legata ad attività di lucro, come avviene in alcuni villaggi indiani dove in cliniche preposte si radunano donne che concepiscono in serie bambini destinati a coppie straniere. Altrettanto inquietanti le storie di maternità a scopi politici, dove queste strategie sono utilizzate per popolare il paese di piccoli guerrieri figli di palestinesi prigionieri nelle prigioni israeliane o di militanti dell’Isis.
Gli esempi descritti mostrano chiaramente come le nuove tecnologie permettano di superare limiti prima insormontabili, limiti associati alla sofferenza e alla perdita di esseri umani. Il concetto di incorporazione di cui parlano Abraham e Freud viene utilizzato per spiegare come la fantasia di incorporazione – sottesa a queste pratiche- implichi un aspetto narcisistico del processo di introiezione, risultato del fallimento di un lavoro sul lutto. Nel mondo attuale il lutto sembra appartenere sempre più al passato mentre la tecnologia mira a colmare rapidamente i vuoti lasciati dal dolore e dalla perdita, in una spinta prometeica verso il futuro che rischia di produrre degradazione e disumanità. È a questa sfida che la psicoanalisi può rispondere nel tentativo di favorire la ri-localizzazione del soggetto.