Stato limite e disturbo borderline: differenze e somiglianze.
La difficile questione del “nucleo psicotico”.
Introduzione
Chiunque si accosti allo studio della letteratura psicoanalitica sul disturbo borderline non può evitare un senso di smarrimento e di disordine.
Il termine borderline, infatti, viene usato con una molteplicità di significati, spesso addirittura in contrasto tra loro e copre una notevole varietà di situazioni cliniche. D’altronde, i tentativi anche importanti di mettere ordine in questo quadro molto variegato, spesso non fanno che sottolineare e fare emergere, ancora più chiaramente, contrasti, sovrapposizioni, somiglianze e differenze, senza giungere a un punto di riferimento definitivo.
Si può dire con una certa sicurezza, che la diagnosi borderline nasce come un contenitore molto vasto, che tende a raccogliere in un unico quadro tutta le situazioni al limite tra psicosi e nevrosi, senza identificarsi nettamente con nessuna di queste due configurazioni (Gunderson 1984, Gabbard 2001).
Questa nascita del concetto da una terra di confine ha fatto sì che continuamente si dovesse distinguere tra borderline più vicini alla psicosi (le personalità come se, quadri quasi deliranti senza deliri conclamati e espliciti) e borderline più vicini alla nevrosi (quadri isterici, improntati a impulsività, perversioni mascherate, quadri narcisistici).
Questa continua necessità di ricollocare, all’interno del quadro borderline, un’area più vicina alla psicosi e una più vicina alla nevrosi, ha finito per rendere oscuro il concetto di borderline, richiedendone al suo interno, continue, più precise, specificazioni.
Si potrebbe riassumere questo complicato travaglio storico ponendo la questione in questi termini. Esiste un nucleo psicotico, operante ma nascosto, che senza dare sintomi psicotici conclamati (allucinazioni, deliri paranoici, deliri ipocondriaci, quadri schizofrenici conclamati), produce aree mentali a scarso contenuto di simbolizzazione, in cui il pensiero, o meglio la sua produzione, cadono sotto scacco per l’eccesso di acting e somatizzazioni?
E inoltre. L’eccessivo uso di questo concetto, attraente ma confuso, di nucleo psicotico, non corre il rischio di oscurare le differenze tra borderline e psicosi e di far catalogare sotto il termine psicosi fenomeni che psicotici non sono?
Se si passa in rassegna la letteratura psicoanalitica, l’“eterno” problema, come dice Green (Green 1991), del nucleo psicotico sembra riproporsi continuamente, con poche speranze di essere risolto una volte per tutte.
All’interno di questo quadro storico, che vado tracciando a grandissime linee, sono emerse lentamente due posizioni, che al momento attuale tengono il campo con una certa continuità.
La prima posizione potrebbe essere definita come un tentativo molto importante di far rientrare il concetto borderline nella categoria più ampia e definita del concetto di stato limite.
Questo tentativo, a mio parere, è molto diffuso negli psicoanalisti influenzati dalla cultura francese e trova, forse, nella raccolta di lavori di Andrée Green sull’argomento, Psicoanalisi degli stati limite, un punto di riferimenti tuttora essenziale e significativo (Green 1991).
È importante ricordare che a questa raccolta di lavori è stato data come sottotitolo il nome di “La follia privata”. Lo stato limite consisterebbe quindi, secondo questa concezione, che raccoglie moltissimi contributi precedenti, in un’area mentale indeterminata, fluida, quasi liquida, in cui l’eccesso di acting e di somatizzazioni, determinerebbe una perdita sostanziosa della capacità di pensare, concependo il termine pensare, come la capacità di reperire rappresentazioni per i propri desideri, impulsi e passioni.
Questa area rimarrebbe coperta, appunto privata, come un fondo paludoso e mobile, su cui si sovrappongono una serie di finte identità, di falsi sé, di meccanismi come se, che servirebbero a tenerla sotto controllo. A un certo punto del trattamento, questa area di “follia privata” si manifesterebbe sotto forma di una passionalità sregolata, intendendo per passione un’emozione che il soggetto vive passivamente e rispetto alla quale accetta di soccombere, senza lotta e quasi senza consapevolezza.
Questa definizione di stato limite si basa quindi prevalentemente sul tema del pensiero. In questi pazienti, sarebbe da riscontrare un continuo vuoto di pensiero, sostituito da costruzioni fittizie (identità presa a prestito, falso sé, posizioni ideologiche aprioristiche), quindi in sostanza una condizione di disinvestimento dagli oggetti esterni, con un continuo oscillare tra momentanei investimenti e bruschi ritiri.
Resta di nuovo l’eterno problema. Siamo di fronte a delle “quasi psicosi”? si deve ipotizzare che esiste un vuoto psicotico, non riempito dalle classiche produzioni psicotiche? La questione è importante, non solo dal punto di vista teoretico, ma anche clinico e terapeutico, perché il maneggiamento e la fantasia degli elementi psichici è molto diversa se si conferisce loro uno stato “quasi psicotico” oppure no.
Come vedremo, lo stesso Green, che come dicevamo, è il più forte sostenitore del concetto di stato limite, sembra oscillare tra le due possibilità, anche se in fondo sembra più favorevole a una distinzione, in quanto sostiene che forse lo stato limite “può” diventare psicosi, senza esserlo fin dell’inizio.
L’altra grande tendenza, che ha finito per ottenere un predominio in campo psichiatrico e anche tra molti psicoanalisti, sembra più legata al filone di ricerche inglese e americano e trova forse in Gunderson il suo ordinatore e ricercatore più approfondito (Gunderson 1984).
Secondo questo approccio, non c’è stato limite, ma solo disturbo borderline di personalità.
Lo stato emotivo di fondo di tale stato non consiste in una indeterminatezza fluida, in una caotica incapacità di prendere posizione di fronte alla vita e alla sue scelta, ma in una profonda insoddisfazione, un’eterna insaturazione dei desideri, una ricerca continua di “qualcos’altro”, che si esprime nella vita quotidiana, in una tendenza, spesso pericolosa, all’impulsività, all’azione immediata e non pensata, e in una reattività violenta e disperata agli atti potenzialmente aggressivi e comunque poco sintonici coll’altro.
La simbolizzazione è presente, ma discontinua. Non c’è vuoto, ma un continuo riempirsi e svuotarsi delle aree mentali, con ricorso a atti – uso di sostanze, sesso sregolato, meccanismi isterici transitori – che diano un momentaneo sollievo alla sensazione di insaturazione e di noia che attanaglia questi pazienti. Ma questa noia non nasce dal vuoto, ma dall’anticipazione di una continua frustrazione che l’oggetto finirà per infliggere.
Un aspetto fondamentale di questa concezione del disturbo borderline è dato dal suo collegamento col trauma: il disturbo sarebbe essenzialmente la conseguenza di una concezione traumatica della vita, dove ogni evento si propone come dirompente, devastante o umiliante e comunque confermerebbe il sostanziale predominio dell’ingiustizia e del male nell’ordine delle cose (Correale 2010).
Questa seconda concezione – che abbiamo fatto risalire a Gunderson, ma che ha moltissimi rappresentanti nel mondo contemporaneo – è al momento attuale prevalente ed è quella che propongo di adattare in questo lavoro.
Rimane però il problema. Che rapporto c’è tra stato limite e disturbo borderline? Sono due modi, in fondo, di descrivere quadri simili? O si può considerare che parlare di disturbo borderline sia un modo di delimitare, all’interno del grande quadro concettuale offerto dal concetto di stato limite, un tipo più preciso e riconoscibile, utilizzando il concetto di trauma, come chiave di lettura o filo conduttore del discorso e della ricerca?
Vorrei dire subito che sono personalmente favorevole a quest’ultima risposta.
Il concetto di stato limite mi sembra infatti troppo vasto e comprende in fondo quadri assai diversi, che potremmo ascrivere forse più all’area narcisistica, con forti sfumature perverse, che a quella che in psichiatria viene adesso chiamata configurazione borderline.
Inoltre, il famoso e onnipresente discorso sul nucleo psicotico, acquista più riconoscibilità se affrontato nell’area borderline, mentre nel quadro stato limite rischia di mantenere un alto tasso di ambiguità.
Come spero di dimostrare, infatti, il disturbo borderline si differenzia dalla psicosi, mentre in certi quadri clinici, quali quelli descritti da Green, il nucleo psicotico svolge un ruolo importante.
Stato limite o disturbo borderline diventano quindi due poli distinti del discorso. L’uno, più ampio o articolato, copre un ambito di discorso, che abbraccia una vasta gamma di disturbi di personalità (con prevalenza della dimensione narcisistica) e con addentellati al tema del nucleo psicotico.
L’altro, più definito, è connesso colla vasta tematica del trauma – nei modi in cui tenteremo di definire questo concetto, anch’esso di per sé ambiguo se non precisato meglio – e non sembra avere rapporto col tema della psicosi.
Potremmo definire meglio questa polarità ricorrendo a alcune precisazioni.
Si potrebbe forse dire che l’emozione prevalente nello stato limite è l’apatia, coperta da un affaccendarsi apparentemente direzionato, ma in realtà compensatorio del vuoto interiore.
Nel borderline, invece, l’emozione prevalente è la disforia, intesa come un intreccio inestricabile di rabbia, dolore, disperazione e protesta: una lotta cieca o unilaterale contro l’ingiustizia del mondo. Sono quadri diversi che richiedono approcci diversi.
Un altro modo per esemplificare potrebbe essere quello di ricorrere a due personaggi-tipo, che impersonano i due quadri.
Se dovessi ricorrere a un soggetto esemplificativo dello stato limite non troverei personaggio migliore di Sergej Pankeiev, L’uomo dei lupi, il più celebre caso clinico di Freud (Freud 1914-1918). L’uomo dei lupi oscillava tra apatia inconcludente e transitoria passione e tutta la letteratura si è posta il problema – da Freud in poi – se fosse presente in lui un nucleo psicotico oppure no. La questione è tuttora aperta, anche se la sua ultima psicoanalista Ruth Mack Brunswick (Mack Brunswick 1928), era convinta che lo fosse, discostandosi in questo dal suo bisogno di concordare col pensiero del maestro.
Se volessi invece esemplificare un quadro borderline non troverei di meglio di uno dei più noti personaggi di Dostojevskij, Dimitri Karamazov, col suo miscuglio di impulsività sregolata, generosità e violenza, desideri suicidi e spinta all’espiazione: insomma, non certo apatia o indecisione, ma amore sconsiderato e impregnato di odio verso l’altro, sempre ricercato e sempre sfuggente, e insopprimibile ambivalenza verso la amata e odiata figura paterna.
E infine una proposta. Potremmo definire borderless (Stoppa 2011) il quadro costituito dallo stato limite, colla sua follia privata: assenza di confini, indeterminatezza, indecidibilità, ricorso alle sostanze come consumo del tempo e delle scelte.
Potremmo invece riservare il termine borderline al quadro costituito da quella intensa vitalità disforica, quel cercare disperatamente qualcosa, che si teme di non trovare mai, ma che si continua a credere che esiste, quella specie di utopismo disincantato e distruttivo, che caratterizza queste figure.
Ma è necessario adesso entrare nel vivo del nostro tema. Esamineremo quindi dapprima lo stato limite, per approfondire poi successivamente, il quadro borderline propriamente detto.
Lo stato limite
Come dicevo, mi sembra necessario conferire uno sfondo di riferimento il più preciso possibile a questo concetto, in modo che sia possibile dare più risalto alla somiglianza e alle differenze colla concezione traumatica del disturbo, che tratterò successivamente.
È utile, a mio parere, per cogliere il punto essenziale, riferirsi alla differenza tra giudizio di attribuzione e giudizio di esistenza, ricorrente in modo stabile e continuativo nel pensiero di Freud.
Come è noto, Freud ipotizzò che (Freud 1925), all’inizio della vita, il giudizio di piacere prevalesse sul giudizio di realtà. Dopo un breve periodo iniziale, in cui prevale un Io-realtà molto primitivo, in cui dentro e fuori sono sentite come categorie molto generali e onnicomprensive, si instaura nel bambino un Io-piacere, che tende a catalogare gli oggetti in buoni o cattivi, a seconda della soddisfazione che sono in grado di procurare.
Soltanto in un momento successivo, sulla base dell’insistenza dell’assenza, del rinvio e dell’attesa da un lato, e della identificazione con oggetti buoni dall’altro, che permette un minimo di stabilità e di pacatezza nei rapporti colla percezione e col dato dell’esperienza, il bambino giunge a un giudizio di esistenza, cioè stabilisce se un oggetto è vero, esistente fuori di lui, insomma è un altro.
Gli studi di psicologia dell’evoluzione hanno aggiunto molto a questo quadro, apparentemente semplice, ma in realtà complesso e accidentato. In particolare, è stata sempre più messa in risalto la funzione dell’oggetto accudente, cioè della madre, che dovrebbe fornire al bambino una serie di funzioni, atte a permettere questo processo di passaggio, per così dire, dal piacere al reale, senza che questo consista in un crollo dell’uno o in un crollo dell’altro principio (Bowlby 1976).
In particolare, Freud insiste sull’idea che non basti trovare l’altro quando lo si cerca, ma che si debba ritrovarlo, cioè che l’oggetto si ponga come possibile termine di confronto con un precedente abbozzo di percezione dell’oggetto stesso, che solo nel ritrovamento acquista consistenza e permette identificazioni significative (Freud 1925, Cimino 2009).
Credo che gli sviluppi successivi, pur nell’immenso arricchimento di dati, abbiamo confermato l’idea freudiana di un’infiltrazione continua del piacere nella conoscenza, o, per meglio dire, della natura affettiva del conoscere, del suo essere sempre impregnato di libido, erotismo e desiderio.
D’altronde, questo è un tema antico anche in campo filosofico, dove l’Eros è stato quasi sempre concepito non soltanto come una spinta affettiva, ma come una grande forza unificante, un importante elemento di collegamento e connessione tra i dati della realtà, tutti sempre più o meno infiltrati di desiderio (Reale 2003).
Ma che avviene se la funzione materna presenta lacune eccessive o, per meglio dire, se l’ambiente nel suo complesso, non permetta al bambino di ritrovare quello che confusamente ha percepito inizialmente? Se l’ambiente offre invece discontinuità, imprevedibilità, irruzione dell’improvviso e dell’inaspettato?
Anche qui Freud anticipa le importanti scoperte, che sarebbero giunte dopo di lui. Se il giudizio di attribuzione – buono-cattivo, piacevole-spiacevole – diviene predominante e l’oggetto estraneo è frustrante, assente, o imprevedibile, il bambino ricorrerà a meccanismi di proiezione massicci, allontanerà cioè da sé esperienze sensoriali, percettive o abbozzi di pensiero, come se non fossero suoi, ma sempre di qualcosa di altro fuori di lui.
In altri termini, la proiezione la farà da padrone e all’interno si stabilirà una fragile area di piacere sempre minacciato da un esterno imprevedibile e pericoloso.
Ma i concetti stessi di interno e esterno saranno precari: l’interno è sempre fragile e precario, perché la proiezione effettua su di esso un continuo processo di svuotamento. In questo modo si forma un limite – eccoci finalmente al concetto che ci interessa – molto fluido e instabile (La Scala 2012).
Non è possibile distinguere tra interno e esterno, perché tutto l’interno fluisce verso l’esterno e l’esterno diventa un interno proiettato. A sua volta l’interno, che si può formare solo su identificazioni, basate su una qualche quota di piacere e di benessere, è sempre “emorragico”, dominato da un flusso di continua esteriorizzazione (Green 1991).
Potremmo riformulare quanto detto, utilizzando la successione dei meccanismi di difesa impiegati.
Nei primi contatti del mondo esterno si ha proiezione e esteriorizzazione. La persistenza di esperienze positive – si potrebbe tentare qui un collegamento colla teoria sull’attaccamento sicuro – permette il graduale instaurarsi di meccanismi di rimozione, cioè di quel tipo di operazione mentale, che consiste nel trattenere nella memoria qualcosa dell’oggetto, sia pure modificata da importanti processi di modellizzazione, attraverso modalità di investimento e disinvestimento, di aspetti parziali dell’oggetto stesso.
La rimozione permette quindi quella divisione tra conscio e inconscio, che è però strettamente collegata con quello tra interno e esterno. Green parla di una chiasma tra le due. Se la rimozione non opera adeguatamente, anche la divisione tra interno e esterno sarà precaria e soggetta a continui slittamenti e modificazioni.
Sappiamo bene che il tema della esteriorizzazione è stato ripreso in modo estensivo da Melanie Klein, che ne ha fatto l’architrave del suo pensiero (Klein 1921-1958). L’uso eccessivo della identificazione proiettiva, in nome della liberazione del soggetto da esperienze penose e da parti cattive – le parti cattive sono naturalmente le parti rabbiose rivolte contro l’oggetto, che causano insopportabili sensi di colpa e di persecuzione – comporta un impoverimento della mente e una situazione delle identificazioni precaria e instabile.
Bion riprenderà questa tematica in modo ancora più ampio (Bion 1962). Come è noto, egli ha insistito fortemente sulla capacità immaginativa dell’ambiente – la celeberrima rêverie – che consisterebbe in un flusso immaginativo capace di trovare espressione a vissuti angoscianti e opprimenti. La rêverie sarebbe insomma una specie di attitudine a un linguaggio primordiale, capace di trasmettere con suoni, fatti e parole, da un soggetto all’altro, vissuti o esperienze.
Potremmo concepire una parte del cosiddetto inconscio non rimosso come questa esperienza soggettiva dominata dalla proiezione e quindi in gran parte sfuggita alla maglia del linguaggio, per un’insufficiente funzione immaginativa e, potremmo dire, “poetica” dell’ambiente.
Lo stato limite consiste quindi proprio in questo. Il limite è al tempo stesso una linea, oltre la quale non si può andare e il confine tra due aree contigue. In questo caso, il confine tra interno e esterno e il limite oltre al quale non si può andare è quello del linguaggio insufficiente, per mancanza di attitudine immaginativa dell’ambiente.
Lo stato limite è quindi uno stato fluido in cui il pensiero è danneggiato per un eccesso di proiezioni (o di identificazione proiettiva) e in cui anche l’inconscio è danneggiato, se intendiamo per inconscio un’area della mente trattenuta all’interno e modificata dai meccanismi della rimozione (disinvestimento frazionato, condensazione, spostamento, simbolizzazione).
Diviene quindi dominante, non tanto un inconscio per così dire di pensiero, ma un inconscio passionale, una affettività diffusa e incontrollata, per silenziare la quale il soggetto ricorre spesso a falsi sé o a identificazioni provvisorie o instabili.
Questa concezione dello stato limite è molto potente e permette un inquadramento ampio delle vicende della formazione della mente. In particolare va sottolineato l’importanza dei meccanismi proiettivi – Green parla addirittura di escorporazione – che sono in questo caso spinti al massimo, a livelli quasi di insostenibilità. È questo un’area in cui c’è una certa continuità tra pensiero freudiano, kleiniano e bioniano.
Spetterà a Winnicott precisare ancora meglio (Winnicott 1974) come questi meccanismi mettano a rischio il contenitore – la madre ambiente per un prevalere della madre oggetto – e attivino quel cambiamento catastrofico di cui anche Bion – in questo caso molto vicino a Winnicott – aveva parlato (Winnicott 1974, Bion 1977).
Ma prima di mettere in discussione alcuni punti cruciali di questa concezione, vorrei sottolineare meglio alcune conseguenze cliniche di questo approccio.
Intanto predomina il concetto di scissione, così insistentemente ripreso da Kernberg e eretto da lui a struttura portante delle personalità marginali (concetto molto vicino a quello di stato limite) (Kernberg 2002).
Il predominio di meccanismi proiettivi comporta un’eccessiva instabilità del mondo interno. A che cosa attaccarsi per costruirsi un senso possibile delle continuità del proprio esistere, se tutto scivola fuori, se non trattengo nulla? Subentra allora l’importanza della idealizzazione, intesa qui come attribuzione di un valore particolarmente intenso a certi fenomeni o fattori o elementi della vita psichica.
L’idealizzazione ha bisogno però di una scissione per potersi mantenere e si determina così l’importanza della scissione stessa. La scissione permette momentanei momenti di sollievo e instaura un ordine possibile nel mondo, che sarebbe altrimenti dominato dal disordine, creato dalla molteplicità di oggetti proiettati e non metabolizzati dalla rimozione.
La scissione quindi non sarebbe primaria, come sembra ritenere Kernberg sulla scia di Melanie Klein, ma si instaura come tentativo di salvare il salvabile, in un mondo dominato dall’esteriorizzazione e quindi da una insufficienza di comprensione e di senso.
Arriviamo qui a un’altra idea importante dello stato limite, che potremmo definire come l’impossibilità di giudicare (Cimino 2009). Non si può giudicare – cioè farsi un’opinione, un’idea del mondo esterno – perché i meccanismi di scissione, secondari ai meccanismi di proiezione eccessiva, non permettono quell’attesa, quel rinvio dell’immediato, quella capacità di attenzione e annotazione, quella capacità di immaginare – intendendo per immaginazione la capacità di stabilire collegamenti anche tra elementi mentali molto lontani tra loro – che possiamo, se vogliamo, chiamare rêverie, anche se il termine si presta a idealizzazioni un po’ ridondanti.
Lo stato limite vive quindi questa follia privata, di grandi passioni e di scarsi giudizi, di un mondo interno vuoto e di un mondo esterno poco comprensibile, dove però interno e esterno sono continuamente soggetti a scivolamento l’uno nell’altro, conferendo così al soggetto una esperienza di continua precarietà esistenziale.
La conseguenza clinica più rilevante di questa concezione – oltre alla precarietà esistenziale e alla difficoltà di giudicare – consiste, a mio parere, nell’idea che l’oggetto esterno oscilli continuamente tra presenza e assenza, tra invasività e scomparsa.
Né l’Io né l’oggetto, infatti, hanno un minimo di stabilità. L’Io è continuamente soggetto a vissuti di perforazione e di emorragia, a causa del prevalere dei meccanismi di esteriorizzazione. L’oggetto è carico di male, di rabbia, di persecutorietà e si sforza di farsi presente con queste modalità invasive.
Al soggetto non rimane quindi che un isolamento protettivo – tendenzialmente riempito dall’uso di sostanze, apportatrici di piaceri momentanei e quindi bisognosi di continue ripetizioni – o un rapporto di odio-amore, di ambivalenza instabile, con un oggetto scelto come relativamente stabile, o, più frequentemente, come un passare da un investimento precario all’altro, secondo i dettami di una noia, che nasce dal fatto che nessun oggetto si installa mai veramente all’interno del soggetto.
L’eterna lotta tra assenza e intrusività diventa quindi una chiave di lettura dello stato limite.
Psicosi e rappresentazione
Vorrei proporre adesso alcune riflessioni, che ci permettono sperabilmente di cogliere alcuni punti cruciali di questa idea di stato limite, che abbiamo rapidamente tracciato, anche in preparazione, come dicevo, della trattazione che seguirà.
Il primo punto riguarda la psicosi o, più in particolare, il nucleo psicotico di cui abbiamo parlato all’inizio.
Nell’idea di una esteriorizzazione massiccia di vissuti, esperienze, percezioni o fantasie, è già contenuta una implicazione di meccanismi psicotici? La psicosi, insomma, consisterebbe essenzialmente in una accentuazione e, per così dire, massificazione, di movimento espulsivi, operati per alleggerire la mente dal dolore, attaccando però contemporaneamente, la possibilità di formazione del pensiero?
Si pone qui il problema del rapporto tra proiezione, identificazione proiettiva, rispetto a rigetto e alla forclusione. In fondo, tutti questi meccanismi, si rifanno a un’idea di esteriorizzazione. Ma la proiezione si riferisce al meccanismo puro e semplice, mentre la identificazione proiettiva coglie un effetto oggettivo, che il meccanismo avrebbe sull’altro. Tramite l’identificazione proiettiva, l’altro è in qualche modo costretto a essere come il soggetto proiettante vuole che sia, al fine, per il soggetto, di liberarsi di parti osteggiate e non volute.
Nel rigetto (Freud 1914-1918), poi, la esteriorizzazione assume i caratteri di una abolizione. L’elemento rigettato viene eliminato, considerato non esistente. Ma questa non esistenza non coincide semplicemente colla negazione, anche se i rapporti tra negazione e rigetto andrebbero studiati in modo approfondito. Il rigetto è una abolizione, che però colloca l’elemento mentale in un’altra area, scissa da quella centrale, dove il suo statuto di realtà è incerto e precario.
Infine nella forclusione, il termine che Lacan forgiò per riprendere il rigetto freudiano, l’elemento mentale non è solo proiettato o esteriorizzato o negato, ma esce dalla rete simbolica, si svincola del linguaggio e entra in uno statuto non verbale, che gli conferisce da un lato un eccesso di realtà e dall’altro un difetto di esistenza.
Insomma, si può dire, che nella psicosi, i meccanismi di esteriorizzazione sono complicati dal fatto, che l’oggetto proiettato e esteriorizzato, acquista caratteristiche nuove, troppo intense da un lato, ma poco esistenti dall’altro o meglio dotato di un’esistenza misteriosa e inafferrabile.
Inoltre, l’esteriorizzazione è solo la prima parte del processo. Nella seconda fase, l’oggetto proiettato ritorna violentemente al soggetto esteriorizzante, in forme diverse da come era partito. È in questo ritorno che si verifica la psicosi propriamente detta: il soggetto incontra elementi mentali, che un tempo erano stati suoi, ma che la permanenza all’esterno ha modificato profondamente, conferendo loro caratteri di estraneità, misteriosità, magia e insomma di sorpresa spaventosa e fascinatrice.
Io credo che il dibattito sul nucleo psicotico sia tutto su questo problema della seconda fase. Basta parlare di esteriorizzazione necessaria per fare diagnosi di psicosi? Il vuoto fluido e magmatico, lasciato del processo esteriorizzante, è una condizione psicotica? O per parlare di psicosi è necessaria questo ulteriore conferimento di estraneità, misteriosità e magia, che il soggetto avverte, quando i suoi stessi prodotti mentali gli ritornano dall’esterno, come se li avesse creati qualcun altro?
Mi pare che su questo punto sia necessario uno sforzo di chiarezza e di approfondimento.
Da un lato, infatti, sembra di cogliere nell’idea dello stato limite una implicazione psicotica, una specie di psicosi senza delirio, in cui il concetto di psicosi è legato alla mancanza di simbolizzazione che la proiezione comporta, più che a una modifica profonda degli oggetti proiettati.
Dall’altra, si coglie invece l’esigenza di differenziare tra esteriorizzazione e modificazione psicotica: nella esteriorizzazione si ha uno svuotamento, ma nel rigetto e successivo ritorno si ha una profonda modifica: solo allora si può parlare di psicosi.
D’altronde, un’idea importante è che la esteriorizzazione comporta la formazione di un nucleo parallelo, di un’area di esistenza mentale scissa e sospesa, che eserciterebbe un’attrazione quasi irresistibile sulla mente, perché capace di liberarle dal peso del reale e della frustrazione, e di farlo entrare in un mondo “onnipotente”, dove la fantasia la fa da padrona, con scarso esercizio delle capacità di giudizio (De Masi 2006).
Ma ancora una volta: basta questo per parlare di psicosi?
O c’è nella psicosi un fattore aggiuntivo, una specie di “sacralizzazione” del vissuto, intendendo per sacro qualcosa di totalmente altro, che però si presenta come dotato di una capacità di auto-valorizzazione indiscutibile (Jaspers 2001)?
Il problema del nucleo psicotico mi sembra proprio questo. Se per psicosi intendiamo prevalentemente una esteriorizzazione seguita dalla contemplazione, tra angosciante e affascinate, dell’esteriorizzato, possiamo parlare di un nucleo psicotico dello stato limite.
Ma se per psicosi intendiamo una profonda separatezza tra linguaggi e oggetti, un’espulsione non solo dal mondo interno, ma dal mondo delle parole, dell’elemento mentale, allora questo nello stato limite non si verifica e parlare di psicosi diventa arbitrario.
Il tema è scottante, anche perché riguarda l’idea di un nucleo di verità nella psicosi. Se psicosi è solo espulsione, c’è solo attacco al legame e al pensiero. Ma se psicosi è esteriorizzazione con conferimento di iperrealtà quasi sacrale al pensiero, il lavoro da fare non sarà solo di constatare l’esteriorizzazione, ma di distinguere con fatica, ma con determinazione, elementi magici e elementi reali nell’oggetto esteriorizzato e nell’esperienza complessiva (Nicasi 2009, Correale 2006).
L’idea che l’esteriorizzazione sia in se stessa, se spinta oltre certi limiti, una forma di psicosi, è stata fortemente avallata da Green e dal suo concetto di psicosi bianca (Green 1991).
La psicosi bianca sarebbe un vuoto mentale, attraversato da oggetti, al tempo stesso invasivi e assenti. Il soggetto sarebbe alle prese con altri troppo intrusivi o troppo distanti e oscillerebbe così in una specie di paralisi di non giudicabilità, che compenserebbe con passaggi all’alto o con somatizzazioni.
Insomma, ancora una volta, è il problema del sintomo che si pone con forza. Gli oggetti espulsi sono solo invasivi o hanno acquisito un carattere di extraterritorialità?
Nel primo caso, abbiamo a che fare con un quadro limite, senza soprannaturale, senza estraneità, ma con intense angosce, rabbia e disperazione. È questo il quadro che tenterò di tratteggiare nella parte riguardante il borderline in senso stretto.
Nel secondo caso, abbiamo un continuo passaggio del linguistico alle cose, l’oggetto diventa sospeso e illeggibile e acquista la forza della divinità. La divinizzazione e demonizzazione degli oggetti nella psicosi infatti non deriva da una semplice idealizzazione, sia pure molto spinta, ma dall’aver soggiornato in uno spazio infinito, senza contenitori, dove i contenitori, in questo caso, sono le parole stesse, che hanno perduto la loro funzione ordinatrice significativa.
Io trovo che questa ambiguità nei rapporti colla psicosi costituisce il punto critico più significativo del concetto di stato limite e ci spinga a delimitare il quadro in un ambito meglio delimitato: da un lato la psicosi, dall’altro l’esteriorizzazione senza trasformazione.
Un’ultima annotazione. È stato notato, a mio parere giustamente, che insistere eccessivamente sulla esteriorizzazione come la forma essenziale della psicosi, sia pure solo come parte del processo, comporta l’idea di una psicosi originaria nell’infanzia di ognuno.
Questa idea ha però il limite di gettare tutta una serie di fenomeni psichici, quali quelli descritti nel paragrafo precedente a proposito del giudizio di attribuzione e del giudizio di esistenza, in un unico contenitore indifferenziato, denominato appunto psicosi, e di rendere più difficile il confronto con la teoria del trauma e, più oltre, dell’attaccamento, che sia pure in modo meno approfondito, sottolineano i fenomeni psichici, imposti dall’assenza dell’oggetto, in termini non necessariamente avvicinabili ai meccanismi psicotici.
Il secondo punto critico della teoria sullo stato mentale limite riguarda il tema della rappresentazione.
Questa tematica è talmente ampia e trattata, anche in ambiti non strettamente psicoanalitici, che sarebbe presuntuoso da parte mia riprenderle in modo sbrigativo.
È importante però sottolineare un punto. Negli ultimi tempi, si è determinato spesso un modo di vedere, che insiste con particolare intensità sul concetto di inconscio non rimosso, un inconscio cioè puramente emozionale, non passibile di rappresentazione, un po’ per l’eccesso di esteriorizzazione, un po’ per l’immaturità delle strutture biologiche cerebrali sottostanti.
Inoltre l’inconscio non rimosso sarebbe un inconscio puramente cognitivo, in cui sequenze relazionali e situazioni emotive vengono apprese secondo modalità puramente agite, comportamentali, a basso o nullo tasso di rappresentazioni (Mancia 2004).
Anche il trauma costituirebbe un’esperienza di oscuramento delle capacità rappresentative, sia pure per motivi e attraverso vie differenti (Williams 2009).
Non c’è dubbio che questa posizione – che mira a concepire l’inconscio da un lato con un magma emozionale indistinto, dall’altro come sequenze interattive inconsapevoli – poggi su alcune considerazioni importanti, tra cui, come dicevo, i meccanismi di esteriorizzazione e prima ancora l’immaturità biologica del sistema nervoso infantile.
Ma è vero anche che non esiste mai un assoluto vuoto mentale. In ogni momento della vita psichica, esistono frammenti sensoriali, pezzi di scena, brandelli di oggetto, che non trovano collocazione e restano fluttuanti in uno spazio indefinito, ma non per questo sono meno esistenti.
Freud ha molto insistito sul fatto che la scena originaria – un evento sessuale di carattere traumatico, ad esempio – non viene certo registrato come tale, ma attraverso tracce mnestiche parziali, frammenti di realtà, o pezzi sensoriali, per così dire (Freud 1914-1918).
Il quadro è complicato dalle fantasie. Nulla avviene senza attivare fantasie concomitanti. Nel caso di una inadeguata funzione protettiva dell’ambiente, si attivano in particolare fantasie originarie, dove sesso, violenza, vita e morte, si mescolano indissolubilmente. Non è certo il caso in questa sede di affrontare il tema delle fantasie inconsce e degli schemi filogenetici, come Freud li chiama nel lavoro sull’uomo dei lupi, ma non possiamo fare a meno di riconoscere l’importanza di questo tema.
Infine i ricordi di copertura. I frammenti sensoriali aprono la strada a altri frammenti sensoriali successivi, si cui vengono costituita nuove scene, sovrapposte a quella antiche. Le cose vanno, come sappiamo, come se a ogni scena se ne sovrapponesse un’altra e il legame tra le due fosse costituito da frammenti sensoriali comuni a entrambe. Sappiamo che per Freud il sogno è in fondo un anagramma: una ricomposizione di elementi mentali, su base diversa della loro primitive composizione (Freud 1900-1901).
Lo stesso avviene nell’isteria. Si sovrappone a un’antica scena irrapresentabile un’altra scena, che ha in comune colla prima solo alcuni elementi parziali, ma che sfoga l’affetto contenuto nella prima per questa nuova via.
Nel caso limite, il rapporto non è così chiaro, gli elementi sono più frammentati, la scena costituita è meno coerente. Ma sono sempre comunque rintracciabili schegge sensoriali, brandelli di scene, parole ricorrenti, tracce mnestiche ostinate, sia pure nelle trasformazioni che subiscono.
È questo, dopo il tema della psicosi, il secondo punto critico della concezione dello stato limite.
Siamo di fronte a un vuoto o siamo di fronte a una qualche forma, certo confusa e caotica, ma che porta al suo interno schegge, oggetti, frammenti, che in qualche modo ci raccontano del percorso che ha tracciato?
Allora il lavoro dell’analista diventa attivo. Riempire gli spazi tra le schegge, dare loro forma e risalto, collegare brandelli. L’interpretazione diventa sempre più una forma di connessione e collegamento.
L’antica polemica tra costruzione e ricostruzione, tra realtà e fantasia, tra trauma reale e trauma fantasticato, trova forse una sua composizione. Non ci sono esperienze tali da creare un vuoto assoluto, ma esperienze che determinato miscugli apparentemente inestricabili di realtà, fantasie, ricordi lontani, ricordi vicini, schemi conosciutivi innati.
Questi due temi, la psicosi e la rappresentazione, mi spingono a tentare di superare questa idea dello stato limite, cui spero di aver dimostrato quanto siamo tutti a lei debitori, per delimitare un quadro più ristretto e più riconoscibili, che è quello appunto del disturbo borderline in senso stretto.
Il quadro dello stato limite mi sembra invece che vada suddiviso da un lato in quadri di vere e proprie psicosi latenti, dell’altro in quadri in senso ampio narcisistici e perversi o narcisistici con quote perverse, in cui il vuoto non assume i caratteri della psicosi.
Disturbo borderline e esperienze traumatiche
Abbiamo detto che nella concezione più ristretta del disturbo borderline, che proponiamo in questo scritto e che si è diffusa ormai con quasi assoluta prevalenza in campo psichiatrico, il disturbo borderline si caratterizza per il dominio quasi assoluto di uno stato d’animo, che permea di sé quasi tutti i momenti della vita psichica.
Tal stato, denominato giustamente da alcuni Autori come disforia (Rossi Monti 2005), si caratterizza per un’inquietudine diffusa, uno stato di allarme e di attesa di qualcosa di pericoloso e violento, un’insoddisfazione profonda di fronte anche a piaceri intensi, che lasciano sempre il segno di qualcosa di insaturo e di incompleto (Ansemert & Magistretti 2012).
Si accompagna a questo stato un’intensa reattività, che si manifesta anche di fronte a frustrazioni apparentemente modeste, un atteggiamento di sfida verso i rapporti, impregnato dal desiderio di inviare un messaggio di indomabilità e non accettazione delle regole sociali (Ruggiero 2012).
Questa reattività si esprime talvolta in atti violenti, crisi di rabbia e disperazione, ricorso a sostanze per liberarsi da questo stato insopportabile, impulsi a commettere atti potenzialmente irreparabili e comunque pericolosi, come attività sessuali imprudenti, sfida all’autorità, ricerca di rischi anche inutili, ad esempio in automobile o nel traffico.
Se si osservano bene questi pazienti, non si può evitare la sensazione, che essi siano in preda a quella che potremmo chiamare una disillusione, piena però di sfida e di provocazione. Il mondo è ingiusto, stupido e ipocrita e io sarò così, ma per far vedere al mondo quanto è falso e violento.
Si ravvisano infine in questi soggetti una specie di nostalgia per un mondo utopistico, dove gli esseri umani sono buoni e gentili e rispettosi l’uno dell’altro. Ma questo mondo è andato perduto per sempre e non si hanno speranze di ricostruirlo, anche se in fondo, nella dipendenza profonda e ambivalente, che essi sentono verso chi si occupa di loro, essi sembrano sognare – senza crederci – di poter ricostruire un mondo del genere.
Questa descrizione sommaria vuole tenere conto di una caratteristica molto significativa di questi soggetti, che potremmo definire come un’intensa vitalità. Le intense crisi depressive – spesso con fantasie e talvolta veri e propri propositi suicidari – lasciano presto il campo a una rabbia vitale e potente, che sembra accompagnarsi a una filosofia violentemente restitutiva di un bene e di una morale, ma cercato con modalità per così dire quasi terroristiche.
Credo che sia una delle acquisizioni più significative della ricerca di questi ultimi anni l’aver collegato questo stato coll’esperienza ripetuta di traumi, che hanno determinato, per varie strade, il quadro che ho descritto (Williams 2009).
È necessario però a questo punto definire meglio il concetto di trauma, che resta altrimenti ambiguo e sfuggente. Peraltro la letteratura- psicoanalitica e no – sul trauma è sterminata e qui non possiamo fare altro che coglierne qualche elemento essenziale.
È necessario innanzi tutto distinguere l’idea di trauma da quella di dispiacere e frustrazione. Di per sé, non ogni esperienza negativa può essere definita traumatica: correremo il rischio di un uso suggestivo, ma improprio del termine.
Io credo che il termine trauma vada riservato a quelle esperienze in cui il soggetto vive la possibilità di una sua morte, psichica e fisica: non c’è trauma se non c’è esperienza di morte (Lingiardi 2008, Van der Kolk 1996).
Per morte intendo qui una brusca discontinuità del flusso della vita psichica, una modifica profonda, per collasso e contrazione, dei parametri spazio-temporali dell’esperienza, un senso profondo e disperante di essere dominati da qualcosa, di essere passivi e inermi di fronte a forze – interne ed esterne – che non lasciano spazio a correzioni o modifiche. Potremmo dire che, in questa esperienza di morte, il tempo si ferma, lo spazio si contrae e il senso di essere agente di se stesso si annulla.
Esperienze simili sono state descritte ampiamente nella storia della psicoanalisi: le più importanti sono forse il Fear of breakdown di Winnicott (Winnicott 1974) e il cambiamento catastrofico di Bion (Bion 1977). Questi Autori insistono, più che sulla morte in se stessa, sulla rottura dei contenitori psichici, che hanno la funzione di offrire strutture stabili alle attività mentali. Ma non credo che sia arbitrario chiamare direttamente “morte” questo tipo di esperienze, per la sua brusca e improvvisa irriducibilità ai parametri vitali consueti.
D’altronde è noto che Freud abbia inseguito per tutta la vita il concetto di angoscia e che in alcune sue formulazioni, come vedremo meglio tra poco, l’abbia concepita in questo modo.
È possibile pensare a questa angoscia di morte che caratterizza l’esperienza traumatica, in due modi distinti, ma complementari.
Nel primo modo, la morte si rappresenta come un eccitamento spaventoso e sovrastante, come un violento essere attratti e respinti da qualcosa, che si propone davanti a noi come terribile e seducente insieme. Ferenczi ha descritto in modo insuperabile l’effetto della sessualità adulta su quello infantile: la comparsa di una lingua straniera dei gesti e delle espressioni, esercita sul bambino, che parla un’altra lingua, un effetto di fascinazione violenta e intrusiva (Ferenczi 1932).
D’altronde, nella sua insistenza sul trauma sessuale, insistenza che in fondo Freud non abbandonò mai del tutto, anche quando si convertì all’idea del predominio delle fantasie, egli vuole sottolineare proprio questa capacità della sessualità di esercitare una spinta prepotente e incontrollabile verso qualcosa che ci sovrasta e ci trascende. La sessualità adulta si propone colla violenza inusitata di una tempesta, che sconvolge un piccolo paese e che lascia segni irreparabili.
Tutte le operazioni successive – proiezioni, rimozioni, dissociazioni, ricordi di copertura e così via – sono tentativi per circoscrivere questa tempesta incontrollata.
L’altro modo di concepire il trauma, espresso in modo inequivocabile in Inibizione, sintomo, angoscia, concerne l’esperienza di impotenza (Freud 1925).
Esistono situazioni in cui il soggetto vive l’esperienza di essere completamente dominato da qualcosa fuori di lui o di lei, qualcosa che lo tiene completamente in sua balia, che risponde a leggi proprie e sconosciute e che non ha col soggetto altro rapporto che quello di una forza brutale.
In questi casi, gli esseri umani diventano forze pure, attività fisiche e non soggetti psichici, qualcosa come pietre, fuoco, vuoto, acqua, insomma elementi naturali e non soggetti umani.
Apparentemente, i due modi di pensare l’esperienza di morte traumatica sono inconciliabili: da un lato un flusso di eccitamento pauroso e distruttivo, dall’altro un’impotenza paralizzante mortifera.
A un più attento esame, però, i due poli sono più vicini di quanto non sembri a un esame superficiale. La passività non è mai priva di un suo potere oscuro di fascinazione e l’eccitamento non è mai estraneo a un sentirsi trascinato e in balia di qualcosa. Anzi è proprio l’oscura attrazione verso questa passività a determinare un terrore senza fine, una paralisi della volontà e quindi a mettere in moto quei meccanismi compensatori, che sono tipici del borderline e che acquistano comprensibilità, se collegati coll’esperienza traumatica di morte e il tentativo di liberarsi da essa.
Possiamo approfondire questo punto, affrontando il tema del trauma da tre punti di vista, tra i tanti possibili: il primo potrebbe essere il rapporto tra trauma e rappresentazione, il secondo tra trauma e identificazione, il terzo potrebbe essere definito come la dimensione “metafisica” del trauma. Li passeremo in rassegna molto rapidamente.
Il rapporto tra trauma e rappresentazione è stato studiato in molti ambiti, psicoanalitici e non. Basti qui ricordare la visione antica, ma sempre attuale, di Hughlings Jackson, basata sull’idea che il trauma abolisca il funzionamento delle funzioni cerebrali superiori, lasciando via libera alla struttura limbiche del “cervello emozionale” (Meares 2000).
Il trauma determinerebbe quindi un eccesso di emozioni e un difetto di rappresentazioni, un vuoto psichico, dove le capacità di connessione, collegamento e giudizio sono fortemente danneggiate e le azioni intraprese sono quasi esclusivamente dominate dall’emozione.
È possibile immaginare questo stato come un deficit di rappresentazioni, certo, ma anche come l’acquisizione di altre capacità conoscitive, come i ciechi che sviluppano in modo molto raffinato altri sensi. Il borderline perde in effetti nel trauma buona parte della sua capacità di giudicare: in conseguenza però l’altro diventa sempre più percepito come qualcosa di fisico, appunto come una forza, come un elemento quasi “meteorologico”. Alla caduta di giudizio si accompagna l’acquisizione di una specie di empatia primitiva, in cui sono messe in primo piano le caratteristiche emotive dell’altro, i suoi impulsi più nascosti, i suoi gesti inconsapevoli. Proprio nella misura in cui il giudizio logico e psicologico si attenua, l’altra diventa per così dire più reale, più esterno, meno assimilabile, ma più esistente come realtà in sé (Cimino 2011).
Non bisogna mai sottovalutare questo tipo di empatia primordiale, che stanca il terapeuta, perché lo fa sempre sentire sotto esame, ma gli o le conferisce una visione più profonda e acuta.
Inoltre, va detto che la caduta delle rappresentazione non è mai totale, il vuoto non è mai completo e assoluto. La scena traumatica si frammenta lasciando pezzi sensoriali, brandelli di scena, che poi vengono modificati della fantasia e dai ricordi di copertura. L’apres coup, cioè il trauma attuale che continuamente richiama e riattiva il trauma antico, ripropone e modifica continuamente appunto la scena originaria, ma lasciando operanti alcune invarianti, che possono essere considerate, come è stato detto, modalità relazionali fisse, ripetute perché mai bene elaborate e rappresentate, i famosi modelli operativi interni della scuola cognitivista.
Ma quello che va aggiunto è che il modello operativo è impregnato di schegge sensoriali, che danno origine a fantasie, alcune originarie, altre acquisite nel tempo, e si concretizza, come vedremo meglio a proposito della identificazione, in fantasmi ricorrenti. Il concetto di modello operativo è quindi utile, ma troppo, per così dire, “asciutto” e riduttivo, perché al modello operativo si arriva solo attraverso una foresta di schegge sensoriali e fantasmi soggiacenti. Il trauma attuale ripropone continuamente il risveglio delle une (le schegge sensoriali) e dell’altro (il fantasma).
Una conseguenza importante del rapporto tra trauma e rappresentazione è il fenomeno della dissociazione, che consiste in una profonda scissione verticale dell’Io del soggetto. La mancanza di rappresentazioni reperibili fa sì che il soggetto cade in preda a aspetti parziali della scena, che esercitano su di lui o lei un effetto quasi ipnotico. In quei momenti, il borderline dialoga soltanto con quegli aspetti parziali – un super Io materno crudele, un padre abusante, un amico infido e traditore – e non veda e sente altro che quell’aspetto. La cattura nell’aspetto fascinante e crudele dell’oggetto è tale che tutto il soggetto borderline si scinde, diventando solo un pezzo di se stesso. Questo può indurre a azioni violente, scene tempestose o stati quasi stuporosi o identificazioni isteriche in personaggi secondari. La trattazione del rapporto tra trauma e dissociazione meriterebbe comunque uno studio approfondito, che è tuttora in corso in vari ambiti psichiatrici e psicoanalitici (Centro di Psicoanalisi Romano 2012, Liotti 2011).
Se il rapporto tra rappresentazione e trauma ci aiuta a capire meglio i fenomeni dissociativi, così frequenti nel disturbo borderline, il problema della identificazione ci aiuta a capirne le frequenti inversioni, che sono tipiche del borderline, quali quella tra vittima e persecutore e tra persecutore e vittima.
Non è certo il caso di ripercorrere in questa sede l’immensa tematica sull’identificazione (Schafer 1972).
Basti dire che nel trauma si verifica un tipo particolare di identificazione, che la psicoanalisi classica, sulle orme di Ferenczi e dalla Klein, avrebbe definito di incorporazione.
L’oggetto traumatico, nel calore drammatico dell’esperienza traumatica, passa per così dire in toto nell’Io del soggetto, si istalla suo malgrado non attraverso modi delicati e modulati, ma appunto come un cibo inghiottito senza masticare.
Queste identificazioni per incorporazione non sono mai sentite come del tutto appartenenti al soggetto, ma restano sempre in qualche modo estranee: da un lato sono troppo dentro e lo dominano, ma dall’altro sono troppo fuori, perché non si sono verificate attraverso un gioco di presenza e assenza, che le avrebbe rese familiari, ma in modo brusco e violento.
Le cose vanno come se, nella tempesta dell’impotenza e dell’eccitamento, al soggetto non rimanesse altra possibilità che diventare l’altro: ma questo avviene come un assoggettamento, o, se vogliamo, come se fosse il fare entrare un demone o una forza esterna. Ma il demone del borderline non è quello psicotico, impregnato di sacralità o di uno statuto quasi soprannaturale. È un demone fisico, naturale, come un ferro o una roccia, che funziona secondo leggi proprie e non divine.
Si capisce quindi perché si parli di identificazione coll’aggressore, sulla scia di Anna Freud (Freud 1937). Ma sicuramente il fenomeno è ancora più primario, perché l’altro non è del tutto sentito come aggressore, ma come l’inevitabile, il necessario, ciò da cui non si può sfuggire.
Si ravvisa qui il nucleo più profondo della tematica borderline, quello che rende tutto il resto più leggibile o chiaro, la base più profonda e quasi indistruttibile del quadro borderline: il rapporto di odio-amore, vita-morte, protezione-distruttività, domanda-offerta, compassione-intolleranza, tra il soggetto borderline e un altro, cui il soggetto si sente legato in modo irreversibile, come in una prigione.
Riuscire a sciogliere gradualmente questo legame è il compito più importante della terapia.
È utile collegare questo tema dell’identificazione a quello del fantasma. L’identificazione traumatica per incorporazione dà origine a una rappresentazione dell’oggetto traumatizzante, che può essere ben definito come il fantasma.
Il fantasma è un personaggio della vita mentale, che assume le sembianze di un genitore o comunque della figura, con cui si sono determinate le relazioni traumatiche fondamentali del borderline. Non è però né una pura fantasia, né un’allucinazione: ha il potere di un’allucinazione senza esserlo, ed è più forte di una fantasia. Si impone al soggetto come una potenza che lo domina, un attrattore che modifica il campo e lo orienti intorno a sé. Identificare il fantasma, quando è all’opera, è compito fondamentale della terapia.
Emerge da tutto questo un altro punto fondamentale dalla tematica borderline: l’eterna connessione tra trauma antico e trauma attuale. Ogni esperienza negativa, ogni frustrazione, ogni assenza, riattiva il trauma antico: perciò i borderline sono “esasperati” e sembrano isterici. Perché in realtà riaffrontano sempre il vecchio trauma, con modalità estenuanti per il terapeuta.
Il terapeuta di solito funzione bene colla rimozione. Il borderline ci fa saltare le rimozioni e ci costringe a fronteggiare il dramma continuamente e ci invita e ci stanca, perché spesso lo fronteggia con modalità violente e distruttive.
Questo aspetto della identificazione traumatica comporta due conseguenze importanti.
La prima riguarda la coazione a ripetere. Anche qui soltanto pochi cenni a un tema grandissimo.
Il borderline non solo riporta all’infinito la solita sequenza, quando incontra il trauma antico, ma addirittura lo cerca, secondo una modalità in certo senso traumatofilica (Correale 2010). Accanto alla disforia, alla dissociazione, alla tendenza a ripetere sempre modalità simili nel rapporto, la tendenza traumatofilica è un fattore ricorrente e perturbante.
È noto che Freud attribuì questa tendenza a un desiderio di controllo e poi a una pulsione mortifera, diretta a riportare ogni situazione vitale alla sua base indifferenziata e nullificata.
Ma è possibile interpretare questa idea di Freud anche in un altro senso: c’è un piacere violento nell’incontro col fantasma, una specie di desiderio di resa dei conti, e al tempo stesso, il piacere di una lotta in cui vittoria e sottomissione obbediscono entrambe alla legge di una scarica che finalmente riporti tutta la questione a un punto zero. Il piacere di un annullamento per scarica, che alcuni hanno avvicinato ai meccanismi mentali della ricompensa (Gabbard 2001), come in base a una ricerca di un piacere che deriva solo dalla scarica di energia: l’amore-odio per il fantasma dà un piacere oscuro e incommensurabile.
Un secondo aspetto riguarda il desiderio.
Il tema della identificazione può essere visto anche, come se l’identificazione fosse una argine al desiderio. Se non ti posso avere, sarò come te, dice Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (Freud 1921).
Ma se l’identificazione è parziale e al suo posto domina l’incorporazione, il desiderio non ha più questo argine. Le cose vanno come se la mancanza di identificazioni producesse una fame di oggetto insaziabile e rabbiosa, come in un rapporto sessuale, in cui l’orgasmo lasciasse una quota di insoddisfazione smaniosa o come si vede in certi bambini, quando cercano l’oggetto senza mai trovarlo e scartano ogni consolazione offerta dalla madre (Ansemert & Magistretti 2012).
Quello che può essere considerato il risultato finale di un’analisi – cioè una certa liberazione dalle identificazioni, per ritrovare un rapporto col desiderio più fluido e orientativo verso il mondo – qui si pone invece all’inizio dell’analisi. È necessario proporre prima delle identificazioni strutturanti e solo dopo tentarne un superamento.
L’ultimo punto, che tratterò velocemente, benché abbia un’importanza fondamentale, riguarda la dimensione che vorrei definire “metafisica” del trauma.
Il trauma apre al caos, al disordine, alla neutralità del mondo esterno, all’incontrollato. Rompe la dimensione di familiarità alle cose, spezza l’addomesticamento, l’abitudine, l’ordine. Il soggetto si apre all’incontrollato, allo spazio infinito, alle forze oscure che lo regolano.
C’è in questa apertura al mondo esterno sconosciuto una grande forza e una grande angoscia. Ma non c’è dubbio che, in questa apertura, si creino le condizioni per una ripresa rigorosa del tema morale.
Se il mondo è dominato da forze oscure e l’ingiustizia delude i nostri sogni utopici infantili, dove far nascere la scelta morale? Perché essere morali in un mondo ingiusto e neutrale?
Qui il borderline ci richiama ai temi fondamentali della filosofia e alle questioni del fondamento della morale. È importante non tirarsi indietro di fronte a questi temi, perché sono molto sentiti dai borderline più sensibili, che non si accontentano di morali preconfezionate o di risposte troppo accomodanti. Basti dire che l’aspirazione a una morale di base, una fiducia in una giustizia di fondo è molto forte in loro e che essi chiedono che li aiutiamo a reperirla in qualche angolo segreto dalla mente. Spesso i borderline diventano intolleranti, quasi ideologici, quando escono dalla fase ripetitiva del trauma e accedono a questa tematica.
Passerò ora a pochi cenni conclusivi sulla terapia.
Cenni conclusivi sulla terapia
Spero che le cose dette fin qui contengano, in qualche modo, implicitamente, anche alcuni aspetti terapeutici. Li richiamerò rapidamente.
È importante innanzi tutto accettare l’idea di un transfert tempestoso e inquieto, in cui il terapeuta deve essere abile a mantenere continuità e presenza e evitare atteggiamenti di ritorsione e di vendicatività (Monari & Berti Ceroni 1998).
Per quanto concerne il primo punto – il rapporto tra rappresentazione e trauma – il compito è fondamentalmente di collegamento e connessione. Bisogna lavorare sui brandelli di discorso, non far cadere nessun obiettivo, riproporre scene possibili in modo dubitativo e non assertivo, ma riconoscibile e non vago e sospeso (Monari 1999).
L’interpretazione riguarda essenzialmente gli oggetti, gli altri, per aiutare il paziente a “giudicare”, a non subire fascinazioni seduttive o rabbiose.
La fiducia nel terapeuta si forma per questa sua disponibilità a entrare nel dettaglio, a farsi trasportare verso tutti i particolari della sequenza, senza arrivare troppo presto a idee o risposte, ma senza trascuratezze e imprecisioni. Non sono tanto utili, nella mia esperienza, interpretazioni di transfert in queste fasi iniziali, quanto un continuo monitoraggio della situazione di transfert all’interno della terapia.
Insomma, si devono formare scenari, sequenze temporali, rapporti di causa e effetto: le schegge devono ricomporsi, secondo un lavoro che è più quello del puzzle, che quello della scoperta di ciò che è nascosto.
Lentamente il tema della rappresentazione lascia spazio a quello della identificazione, lo scenario fa emergere il fantasma. Qui l’interpretazione gioca un ruolo maggiore: non solo non bisogna mai stancarsi di far vedere la sequenza trauma, dissociazione, acting, ma bisogna lentamente far emergere il trauma antico da quello attuale.
È questa un’operazione molto delicata, che richiede un training accurato, perché se affrontata troppo presto può indurre dissociazione e se effettuata troppo tardi o mai, può indurre i fenomeni tipici dell’analisi interminabile.
Quando si è più sicuri sul trauma antico, sulle fantasie e ricordi di copertura di cui si riveste, si deve cercare di cogliere tutto i trucchi del rapporto col fantasma: la ricerca di oggetti cattivi scambiati per ideali, la protesta ribelle che spesso copre un masochismo distruttivo, la delusione dell’oggetto, che spesso è ricercata ancora prima di verificarsi. Sono tutte le circonvoluzioni del rapporto coll’oggetto traumatico, che meritano un lavoro dettagliato e costante.
E infine la dimensione “metafisica”. L’analista col borderline deve farsi un po’ filosofo, specie per quel che concerne la morale. Tutta la psicoanalisi ha implicazioni etiche, ma nel caso del borderline queste sono in primo piano: non scambiare mai la giusta ribellione per distruttività, la lotta all’ipocrisia per un anticonformismo di maniera, ma neanche scivolare verso il terrorista, che muore colla sua banda, per presentificare al mondo un altro mondo possibile.
Un compito estenuante e difficile, ma esaltante, di cui i successi terapeutici che non mancano mai in un’analisi ben condotta con un borderline, ci si ripagheremo ampiamente.
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