REPORT sul convegno “Psicoanalisi e Psichiatria a 40 della legge Basaglia” di Maria Antoncecchi.
Milano, 29 settembre 2018
Sabato 29 settembre 2018 si è svolto a Milano uno dei due convegni organizzati dall’Esecutivo della Società psicoanalitica italiana in occasione dalla ricorrenza dell’approvazione della legge Basaglia sul rapporto tra Psicoanalisi e Psichiatria a partire dalle esperienze passate con uno sguardo verso il futuro.I relatori intervenuti al convegno sono psicoanalisti che erano attivi nelle istituzioni psichiatriche ai tempi dell’approvazione della legge Basaglia e hanno portato la loro testimonianza su questo passaggio importante della storia della psichiatria del ‘900.
Fabio Castriota introduce la giornata citando la frase di Christopher Bollas :“Tutti quanti i nostri pazienti hanno un passato ma non tutti hanno una storia”sottolineando come il lavoro degli psicoanalisti consiste nel creare una storia, una narrazione e questo riguarda non solo i pazienti ma anche la società. A questo proposito Castriota ricorda che verrà organizzato dall’esecutivo un convegno per ripercorrere le grandi tappe della Società di Psicoanalisi a Trieste, quando questa sarà capitale europea della scienza nel 2020. Il relatore segnale alcune date significative: nel 1961 escono due libri fondamentali :“Storia della follia” di Michel Foucault e “Asylums” di Erving Goffman; nel 1968 fu promulgata la legge che si chiamava “Provvidenze per l’assistenza psichiatrica” che ha introdotto due novità importanti che faranno da apripista alla legge Basaglia: il numero dei pazienti adeguato al numero dei medici presenti nella struttura e la possibilità di un ricovero volontario e/o la possibilità di attivare una cura psichiatrica fuori dal manicomio. Nel 1968 esce “l’Istituzione negata” il libro nel quale Basaglia denuncia le condizioni del manicomio. E’ importante ricordare che nel 1973 Trieste viene dichiarata zona pilota dall’OMS e nello stesso anno nasce Psichiatria Democratica; Castriota fa notare che nel 1978 ,nell’arco di venti giorni, avvengono tre episodi importanti per la storia del nostro paese : il 9 maggio viene trovato il corpo di Moro, il 13 maggio viene approvata la legge 180 e il 22 maggio quella sull’aborto, la 194.
Ronny Jaffè mette in evidenza che la legge 180 fu successivamente inscritta nella legge 833 del Servizio Sanitario Nazionale, legge che ebbe il merito di decentrare a livello regionale la programmazione e la gestione dei servizi sanitari, compresi quelli psichiatrici, sottraendoli alle province. Ricorda che furono numerosi gli psicoanalisti che operarono in quel periodo nelle realtà manicomiali impegnandosi a trovare punti di connessione tra la cura psicoanalitica e la cura psichiatrica. In Lombardia ci fu l’impegno assiduo di Enzo Morpurgo, Franco Ferradini, Giancarlo Zapparoli, Bianca Gatti, Dario De Martis e Eugenio Gaburri. Jaffè sottolinea come la trasformazione della psichiatria andò in parallelo con i mutamenti sociali e politici degli anni ‘70 che portarono anche all’approvazione della legge sul divorzio nel 1970 e sull’aborto nel 1978. La lotta contro i pregiudizi e l’oppressione riguardò anche il malato psichico. La legge doveva consentire la restituzione della dignità della persona attraverso luoghi dedicati alla cura con personale, non solo qualificato ma anche sensibile e rispettoso dell’altro. Jaffè si sofferma sul rischio, che si corre oggi, di lasciare il malato alle sole cure farmacologiche o alle famiglie lasciando sullo sfondo altre modalità terapeutiche.
Ezio Izzo dà inizio agli interventi sottolineando il merito che la legge ha avuto nell’affermare il riconoscimento della dignità dell’uomo e nel cambiare il volto della psichiatria italiana, trasformando gli ospedali psichiatrici da luoghi di controllo e di emarginazione sociale, a luoghi attenti alle esigenze terapeutiche dei malati. Esistono sul territorio italiano realtà di eccellenza ma la riduzione delle risorse economiche e del personale sta rendendo sempre più frammentati i percorsi di cura con un ricorso massiccio al modello bio-farmacologico. Izzo considera uno dei problemi irrisolti della legge il tempo del ricovero per gli episodi acuti, una fase che considera delicata e importante per l’esito della terapia e che avrebbe bisogno di un tempo flessibile e adeguato alle caratteristiche e alla storia del paziente. Un altro aspetto che ritiene importante è il recupero dei pazienti, tema a cui è stata sensibile la Società Italiana di Psichiatria, che ha costituito una sezione di riabilitazione psicosociale a differenza della psicoanalisi che è stata assente in questo campo. Izzo fa notare come il lavoro abbia una valenza terapeutica perché incide sul reddito e sul potere, aspetti che hanno un ruolo fondamentale per la costruzione dell’identità della persona. Conclude augurandosi un’estensione del modello psicoanalitico al fine di creare un percorso per i pazienti non solo curativo ma anche riabilitativo.
Francesco Barale aprendo il convegno con la prima relazione della mattina pone l’accento sul clima culturale innovativo in cui si inserisce l’approvazione della legge Basaglia che introdusse un modo radicalmente nuovo di vedere la sofferenza mentale e la cura. Tuttavia, sottolinea, che l’approvazione della 180 fu il punto culminante e nello stesso tempo il punto di crisi della spinta innovativa della legge perché, a partire da quel momento, cominciò un lungo processo di “normalizzazione” che dominerà la psichiatria nei tre decenni successivi. Barale ricorda come, in quegli anni, la psichiatria italiana negli anni ‘70 era in una condizione di particolare arretratezza mentre in altri paesi la critica al riduttivismo e la battaglia umanista per la comprensione avevano alimentato quella che oggi chiamiamo una visione bio-psicosociale della sofferenza mentale.
Riguardo alla riforma psichiatrica il relatore vuole mettere in rilievo che Franco Basaglia riconobbe, in una prima fase, l’importanza della comunità terapeutica e del pensiero psicoanalitico come uno strumento per comprendere le dinamiche istituzionali ma successivamente cambiò rotta dando maggiore importanza al problema del potere per il timore che si creassero delle gabbie dorate o soluzioni fittizie. Questa svolta radicale rischiò di soffocare le posizioni riformatrici che pur condividevano la battaglia istituzionale ma non riducevano la sofferenza mentale a un discorso di potere. Barale fa presente come il lavoro di Dario De Martis e Fausto Petrella riuscì a coniugare la critica alle istituzioni psichiatriche con la prospettiva psicoanalitica creando uno straordinario esperimento di re-integrazione dei pazienti dell’ospedale Psichiatrico di Voghera.
Paolo Fonda ,che operò nell’ospedale di Trieste al tempo in cui c’era Basaglia, descrive i cambiamenti che portarono all’apertura dell’ospedale. Il lavoro di trasformazione dell’ospedale spinse l’équipe a riflettere sulla necessità di mettere in discussione gli stereotipi e i pregiudizi sociali. Fonda si sofferma sull’importanza dell’immagine di sé riflessa dall’ambiente che penetra nel mondo interno dei malati, finendo con il rafforzare le parti malate e reprimere quelle sane confermando ciò che l’ambiente si aspettava. Il relatore sottolinea come l’istituzione manicomiale contribuiva a questo processo attraverso infiniti dettagli: i vestiti dei malati, il taglio dei capelli l’uso del solo cucchiaio e altro. Il malato, secondo Fonda, introietta l’immagine di sé che vede riflessa negli occhi della madre-istituzione che ha il potere di accudirlo. Gli psicoanalisti non sono stati pronti a capire l’importanza dell’influenza dei pregiudizi sociali perché sono rimasti a lungo chiusi nell’intrapsichico.
Il relatore ricorda come l’esperienza triestina fu favorita dal clima sociale e politico di quegli anni e come il cambiamento avvenne anche per altre istituzioni segreganti come gli istituti per i ciechi, per l’infanzia abbandonata, per gli epilettici, per le classi differenziali e così via con la partecipazione attiva di operatori, psicologi ,volontari e medici . Oggi Trieste è priva di un ospedale psichiatrico da 40 anni e l’esperimento di Basaglia è considerato un fiore all’occhiello della città.
Marco Monari individua, nella sua relazione, gli elementi di continuità che hanno reso possibile un’integrazione tra la psichiatria e la psicoanalisi e che hanno trovato un punto di convergenza nel modello territoriale sviluppato da Giuseppe Berti Ceroni ancora oggi operativo e parte integrante del modello dei servizi. Il relatore evidenzia come entrambe le discipline, pur caratterizzate da modelli teorici e clinici diversi, sono accomunate dall’incontro con la sofferenza mentale e dal tentativo di prendersene cura. Il gruppo di lavoro, secondo tale modello, diventa il luogo della pensabilità capace di produrre un’amplificazione favorevole dei risultati terapeutici se tende all’integrazione e alla valorizzazione, nel rispetto delle diversità, delle singole competenze professionali e al loro collegamento funzionale. Si tratta di predisporre un ambiente facilitante che favorisca lo sviluppo di uno spazio mentale di soggettivazione, di unicità, di continuità della relazione terapeutica praticata al suo interno. In questo modo il metodo psicoanalitico si espande dal lettino al campo istituzionale occupandosi del funzionamento delle relazione terapeutiche, della mente gruppale , delle supervisione, della leadership, del processo di rappresentazione del paziente e dagli effetti portati dal fenomeno dell’aziendalizzazione. Monari accenna all’importanza della raccolta dei dati anamnestici che vanno inseriti all’interno di una dimensione narrativa, fondamentale sia per lo sviluppo della relazione terapeutica sia per costruire una rappresentazione dell’immagine del paziente necessaria per il gruppo di lavoro.
Fausto Petrella interviene sottolineando che Basaglia ha sempre avuto una posizione critica nei confronti della psicoanalisi che vedeva come una disciplina borghese che avrebbe favorito il manicomio, in realtà la psicoanalisi non si occupò dei manicomi né si rese conto della situazione drammatica che c’era al loro interno con l’indifferenza dei medici che ci lavoravano. Basaglia, pur partecipando all’atmosfera culturale di quegli anni, ebbe una reazione prevalentemente etica cambiando profondamente la psichiatria. Secondo Petrella oggi la situazione lascia molto a desiderare in quanto i servizi si occupano esclusivamente della cura farmacologica del malato rendendo impossibile la presa in carico della persona. A questa situazione si aggiunge la mancanza di supporto da parte delle istituzioni locali e la riduzione degli organici che rendono impossibile seguire da vicino i malati poiché le strutture esistenti, oggi, sono luoghi non adatti ad interventi terapeutici. L’università, attraverso le scuole di specializzazione, istruisce gli allievi solo da un punto di vista farmacologico non occupandosi di sociologia e di aspetti psicosociali. Conclude dicendo che la psicoanalisi potrebbe avere il ruolo di un’istanza critica a livello culturale e politico.
Anna Ferruta aprendo l’attività pomeridiana ricorda, prima di presentare i relatori, le due donne che hanno contribuito all’approvazione della legge Basaglia: Tina Anselmi , allora Ministro della Sanità che il 13 maggio 1978 ,quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo di Moro, ebbe il coraggio di promulgare la legge Basaglia.E’ molto probabile che se la legge non fosse stata approvata ci sarebbe stato un referendum e sarebbe stata confermata la reclusione manicomiale. La seconda donna è Bianca Gatti, responsabile del padiglione Ponti del Policlinico che, prima della legge, ebbe il coraggio di aprire le porte del reparto femminile nel 1968/ 69. La decisione di aprire il reparto ebbe luogo nonostante non avesse avuto alcuna autorizzazione. Da quel momento il reparto ebbe una buona fama e alcuni giovani colleghi chiesero di andare a lavorare li.
La prima relazione del pomeriggio è di Carmelo Conforto che descrive gli elementi che favorirono la nascita di un nuovo modo di pensare all’interno della psichiatria ligure negli anni sessanta, in particolare a Genova, e che portarono all’incontro tra la psichiatria e la psicanalisi. Uno di questi fu la fenomenologia che propose un nuovo approccio con la sofferenza psichica e aprì la strada al modello psicoanalitico fino ad allora assente. La presenza di nuovi farmaci creò un miglioramento delle condizioni dei degenti facilitando il dialogo con gli operatori. Fu determinante lo studio del pensiero di Franco Fornari e Melanie Klein e la conoscenza del lavoro di Fausto Petrella e Dario De Martis. Il nuovo modello proponeva di leggere i sintomi delle psicosi non solo in base alla nosografia ma anche prendendo in considerazione la soggettività del paziente. Conforto ritiene fondamentali per la sua formazione due avvenimenti: il volume di Freud “Il sogno”, seconda edizione tedesca nel 1911 con introduzione di Marco Levi Bianchini, direttore del manicomio di Nocera e i seminari di Eugenio Gaburri che proponevano la dimensione gruppale come uno strumento di lavoro. Una chiave di lettura che cambiò la modalità di lavoro di gruppo del reparto e che dette vita a nuove esperienze . Ricorda la pubblicazione del “ Manuale di psichiatria” di Franco Giberti e Romolo Rossi che, con impostazione psicodinamica, introdusse nella medicina un innovativo indirizzo teorico.
Franco De Masi parte dalla scelta del titolo del suo intervento“ Le mura cadono adagio” per descrivere la chiusura dell’ospedale Ugo Cerletti di Parabiago, in provincia di Milano, nel quale lavorava in qualità di responsabile. L’ospedale era l’ultima tappa di un percorso di cronicità del paziente psichiatrico che partiva dall’ospedale Paolo Pini di Milano. L’obiettivo dei medici dell’ospedale Cerletti fu inizialmente di umanizzare l’ospedale e successivamente quello di settorializzare la struttura. L’ospedale prevedeva l’inserimento di uno psicoanalista (Piero Leonardi) che aveva il compito di condurre degli incontri settimanali con le équipe ospedaliere e territoriali (erano le stesse per via della continuità terapeutica). La cultura della relazione terapeutica permeava ogni atto istituzionale. De Masi sottolinea che quando fu promulgata la legge 180 il decentramento dei servizi in quella zona era già stato realizzato e l’ “ Ospedale Ugo Cerletti “ fu la prima struttura ospedaliera ad essere chiusa in Italia dopo la legge 180. Il relatore vuole ricordare che tra le altre conquiste degli anni 1970 c’è anche l’approvazione dello Statuto dei lavoratori e che, prima della riforma sanitaria, furono molti i medici che si impegnarono politicamente per questa riforma contribuendo con le loro idee alla trasformazione delle istituzioni psichiatriche ed ospedaliera. Da questa esperienza ospedaliera è nato l’interesse di De Masi per la psicosi che è poi continuato attraverso l’esperienza analitica.
Mario Rossi Monti è interessato a sottolineare il rapporto della cultura della 180 e la cultura psicoanalitica e a questo proposito, ricorda l’intervista che Stefania Manfredi rilasciò a Rinascita nel 1984 :“Dare voce ai pazienti ,credere che quello che dicono sia vero, a un qualche livello, è un grande insegnamento della psicoanalisi. Per la psicoanalisi il vero è una verità all’interno del mondo interno mentre invece per il movimento della 180 è una verità sociale esterna. Una divergenza profonda, una dicotomia e sordità reciproche…”Rossi Monti racconta come il lavoro di De Martis e Petrella sia stato un punto di riferimento essenziale per il miglioramento del lavoro psichiatrico. Un altro approccio fondamentale per il cambiamento è stato la psicopatologia fenomenologica (Ballerini) che ha portato a un nuovo modo di ascoltare e rappresentare il paziente
Ricorda il lavoro di Stefano Bolognini che schematizza tre psichiatrie: una organicistico biologico-farmacologico che domina le sedi universitarie ed è sovvenzionata dall’industria farmaceutica, una psichiatria di stampo politico- sociale erede dell’antipsichiatria della 180 che si è molto connotata ideologicamente ( contro i ricoveri), una psichiatria caratterizzata da una visone psicoanalitica, basata sulle supervisioni e sull’attività gruppale. Riguardo alla presenza degli psicoanalisti nelle istituzioni psichiatriche menziona l’indagine statistica commissionata dalla Spi nella quale risultò un calo significativo delle presenza degli psicoanalisti che lavoravano nelle istituzioni psichiatriche dal 2004 al 2014 . A distanza di 40 anni dall’approvazione della legge crede che la psicoanalisi abbia il compito di aprire nuovi scenari offrendosi come una chiave di lettura integrativa alla psichiatria che oggi si ritrova in una situazione sempre più complessa e alle prese con nuove patologie.
L’intervento di Mario Perini vuole mettere l’accento su come la chiusura degli ospedali psichiatrici e quella degli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) non ha portato alla scomparsa del manicomio. Secondo Perini il manicomio ha avuto una funzione difensiva dall’angoscia della follia pertanto c’è stato un ritorno del rimosso che si è ripresentato sotto altre forme: nelle Residenze Sanitarie Assistite (RSA), nelle quali il personale di assistenza maltratta gli anziani, nelle scuole materne dove i bambini indisciplinati vengono maltrattati oppure nei centri di accoglienza. Il relatore si chiede se sia possibile che la psicoanalisi possa, senza compromettere l’integrità della coerenza metodologica, allargare il proprio raggio di azione e occuparsi della cura dei contenitori sociali (i garanti sociali di Kaes) e quindi preoccuparsi di rendere le comunità e le organizzazioni più capaci di resistere alle tensioni sociali. Ogni cultura organizzativa, sostiene Perini, cela al proprio interno un implicito mandato difensivo quindi la psicanalisi può occuparsi di organizzazioni e istituzioni. Queste sono gestite da persone e proprio per questo sono impregnate di aspetti e dinamiche in larga misura irrazionali e inconsce. Perini ritiene pertanto che le istituzioni dovrebbero essere oggetti naturali dell’indagine psicoanalitica poiché sono generate da individui e quindi sono prodotti della mente.
6 ottobre 2018
Psicoanalisi e Psichiatria a 40 anni dalla approvazione della legge Basaglia.
Roma. Report di Maria Giovanna Argese
Durante il dibattito nell’incontro dedicato alla ricorrenza dei 40 anni dalla approvazione della legge 180, ci sono stati due interventi di due giovani professionisti, che hanno posto questi interrogativi: “Come avete fatto a resistere?” e “Cosa avete da dire agli operatori impegnati oggi nei servizi di cura e riabilitazione territoriali?”
Il convegno si è mosso tra questi due poli, il passato e il presente, e credo che l’intento, pienamente riuscito, che la Società Psicoanalitica Italiana voleva dare a questa giornata, insieme a quella che si è già svolta a Milano, era precisamente cogliere e rilanciare una riflessione aperta in merito al bisogno di ripercorrere una parte importante della propria storia non solo per ricordarla, ma soprattutto per tenerla viva per i suoi legami con il presente e le sue proiezioni sul futuro.
Non riassumerò tutti gli interventi, molto ricchi e stimolanti, che hanno approfondito i vari aspetti del tema e me ne scuso con gli autori, sperando che i loro lavori possano essere raccolti in una possibile futura pubblicazione. Vorrei piuttosto indicare alcuni punti che hanno attraversato le varie relazioni e hanno aperto nuove prospettive.
La storia che ci hanno raccontato i relatori che lavoravano come psichiatri negli anni Settanta, mentre iniziavano il loro training psicoanalitico, ( Cono Barnà ad Arezzo, Alfonso Accursio a Palermo, Guelfo Margherita a Napoli, Cosimo Schinaia a Genova), quando si è avviata e definita la riforma psichiatrica con la chiusura dei manicomi, è una storia entusiasmante e sofferta. Le belle fotografie dell’epoca che sono state proiettate, hanno dato immagine ai racconti intensi e a tratti drammatici, dell’esperienza nei luoghi di segregazione. In tutti gli interventi è emersa chiaramente la tensione politica, scientifica e personale tra l’adesione all’inestimabile valore del movimento basagliano che restituisce umanità, dignità, diritti civili, alle persone con disturbi mentali, segregate nelle strutture manicomiali, e “ l’irriducibile conflittualità del pensiero di Basaglia, e dei basagliani, con la psicoanalisi, almeno con la psicoanalisi così come era da loro intesa: cioè come una delle tecniche espresse dalla cultura normativa della borghesia internazionale”. ( Cono Barnà). Per affrontare il disturbo mentale non basta assicurare alla persona, fino ad allora considerata un malato da escludere e rinchiudere, un contesto ambientale adeguato e dignitoso, fatto di casa, lavoro, ripristino dei rapporti familiari, inserimento sociale; accanto a questo è necessario occuparsi e avvicinarsi alla sofferenza mentale per poterla curare. La tensione differenziante si riduce se, seguendo Correale, si coglie un aspetto forse meno conosciuto del pensiero di Basaglia e certamente più vicino al pensiero psicoanalitico. Dice Correale:“Io credo che in fondo quello che Basaglia cercava era un accesso al paziente, ma in fondo anche a se stesso, come un incontro diretto, un faccia a faccia, un guardarsi negli occhi, una ricerca di autenticità, di una certa verità della vita psichica. Mi sembra di poter dire che le cose stesse, all’interno di noi stessi, siano in fondo, la soggettività, intendendo per soggetto quella parte dell’individuo, che si sforza senza sosta di mettersi in rapporto colla parte di noi che non conosciamo, che si fa sentire nel desiderio, nella fantasticheria, nella ricerca instancabile del rapporto con l’altro e che ci espone continuamente al rischio dell’inquietudine e dell’incertezza”.
Passando dalla storia passata al presente, il filo conduttore di tutti gli interventi si è dipanato attraverso la riflessione su come può coniugarsi il rapporto tra servizi territoriali e psicoanalisi. E’ stata da più voci sottolineata la carenza e il progressivo calo di risorse nei servizi di salute mentale, non per ultimo le loro inadeguate strutture architettoniche: “ Situati spesso in luoghi non specificamente pensati, progettati e adibiti alla cura della psiche, senza un principio architettonico informatore che tenga conto dei bisogni emotivi e affettivi delle persone sofferenti e delle loro specifiche necessità spaziali, nonché delle esigenze terapeutiche e assistenziali degli operatori, questi servizi sembrano spesso impolverati e malandati” (Cosimo Schinaia). Ma nell’esperienza di Giuseppe Saraò e Paolo Boccara, è possibile cogliere quanto i servizi territoriali, seppur nelle loro carenze, si prendono cura del disagio psichico, anche grazie al lavoro di gruppo e di collaborazione tra le varie figure professionali presenti, (cosa forse non sottolineata a sufficienza), e quanto la psicoanalisi possa arricchirsi nel rapporto con i servizi pubblici, ampliando la ricerca e il campo di intervento ai pazienti difficili e alle nuove patologie,(disturbi di personalità narcisiste e borderline, dipendenze, stati diffusi di malessere identitario). In questo senso appare preziosa l’attuale tendenza ad operare una proficua estensione del metodo psicoanalitico, superando una vecchia logica che considerava il lavoro nei servizi con una certa aria di superiorità: “abbiamo avuto difficoltà a guardare e ascoltare e valorizzare una fonte da cui poter attingere nuove conoscenze e proficue opportunità” (Giuseppe Saraò). Nel chiedersi cosa gli ha insegnato l’esperienza nel servizio di salute mentale, Paolo Boccara sottolinea il valore di “stare ai confini della pensabilità. Da lì abbiamo cominciato e continuato quindi, sia a livello teorico che clinico, a provare a differenziare il metodo psicoanalitico dalla terapia psicoanalitica che conoscevamo, in modo tale che ogni volta che si confermava quanto nei servizi non si potesse sperimentare una certa modalità terapeutica, ciò non dovesse escludere essere psicoanalisti anche quando il contesto non chiedeva esplicitamente un trattamento psicoanalitico”.
Si tratta allora di un “ accoppiamento” che può essere fecondo, ma anche mortifero, secondo una bella metafora portata da Guelfo Margherita che in consonanza con Alfonso Accursio ha messo in luce l’importanza del contributo del pensiero psicoanalitico alla comprensione del funzionamento istituzionale. L’attenzione alla dimensione gruppale favorisce l’analisi degli eventi, attraverso il prendere in considerazione i vari livelli presenti e la complessità della loro interazione; questo riguarda sia la formulazione dei progetti terapeutici per i pazienti, sia gli accadimenti che caratterizzano i servizi, sia i fenomeni più macroscopici che riguardano la società più allargata. La ricerca sulle dinamiche gruppali e sul rapporto del singolo con il gruppo, può inoltre essere un buon antidoto per affrontare la tendenza della istituzione a passare dalla finalità originaria per cui è stata istituita, all’obbiettivo autoreferenziale della propria conservazione a prescindere dal mandato fondante o addirittura a scapito di questo.
Da più parti è stato evidenziato che la spinta rivoluzionaria avanzata da Basaglia è stata possibile perché preceduta e accompagnata da determinate condizioni politiche, sociali, culturali, scientifiche, e forse anche un po’ casuali come ci ha ricordato Beebe Tarantelli, protagonista in parlamento per l’approvazione di mozioni favorevoli all’investimento economico per la salute mentale. Oggi siamo di fronte a un nuovo passaggio, connotato dal tramonto dell’illusione di un progresso senza fine, dalla crisi economica, dai cambiamenti sociali che mettono alla prova gli assetti democratici e bisogna chiedersi quale nuova cultura può nascere nei servizi e nell’istituzione psicoanalitica e come creare nuovi spazi di pensiero che siano espressione e nel contempo interpreti del tempo presente.
In conclusione, per riprendere le domande iniziali dei due giovani colleghi, è emerso dai vari interventi dei relatori ma anche dagli interventi dalla sala, che le risposte possono essere cercate nell’atteggiamento di umiltà nel non sapere, nella curiosità e nel desiderio di conoscere, nella fiducia nel valore dell’incontro tra persone che si riconoscono soggetti aventi dignità di esistere; la formazione e l’ esperienza psicoanalitica permettono di conservare queste dimensioni del sentire psichico anche in presenza di una sofferenza mentale, che altrimenti potrebbe portare ad un allontanamento, un evitamento di aspetti psicologici, dentro di sè e nell’altro, che può prendere varie forme, compresi insidiosi movimenti di manicomializzazione interna ed esterna, anche se non più concretizzati nel manicomio