Presentazione del libro "Confini,
muri e bordi"(Paolo Emilio Persiani editore, Bologna, 2011, pag.203, Euro
16.90) di Giuseppe Berti Ceroni,
avvenuta il 2 dicembre 2011 presso il Centro Psicoanalitico di Bologna.
La presentazione del libro
postumo di Giuseppe Berti Ceroni ha riunito presso il Centro di Bologna un
grande numero di colleghi psicoanalisti, psichiatri, medici e operatori dei servizi psichiatrici
bolognesi per discutere di questa opera originale e
rendere omaggio alla sua persona.
L’incontro si è svolto in un’atmosfera emozionata ed emozionante per i tanti
presenti che l’hanno conosciuto, apprezzato ed amato. Per motivi di spazio non
mi è possibile citare tutti gli interventi e chiedo scusa per questo, ma tengo
a sottolineare il fatto che ognuno di essi ha dipinto un aspetto dell’originalità
del suo pensiero scientifico inestricabilmente correlato alle peculiarità umane della sua
persona. Dopo una breve presentazione del Presidente del Centro Dr. Angelo
Battistini, che ha auspicato che questa fosse l’occasione di una discussione
scientifica piuttosto che di una commemorazione, la serata è proseguita con la
lettura di brevi messaggi di Stefano Bolognini e Mimmo Chianese, entrambi
dispiaciuti assenti per impegni istituzionali precedentemente presi, e, da
parte di Maria Pina Colazzo, di un
messaggio di partecipazione e cordoglio dei colleghi inglesi, componenti del
gruppo italo-britannico che Giuseppe Berti Ceroni aveva personalmente
contribuito a costituire una decina di anni fa nella veste di segretario
scientifico della SPI.
Stefano Bolognini ha sottolineato nella sua lettera la finezza culturale di Giuseppe, che, unita
alla sua "spiazzante" originalità di pensiero, gli ha consentito non solo di
creare dei solidi ponti tra il pensiero psicoanalitico e quello psichiatrico
senza mai incorrere in indebite invasioni di campo, ma soprattutto di essere
stato un eccellente segretario scientifico nazionale della SPI, la cui
competenza era riconosciuta anche a livello europeo. Ha ricordato poi i suoi
lavori psicoanalitici, da Bolognini spesso ri-memorati in seduta come veri e
propri attrezzi del mestiere, sulla dissociazione, sulle interruzioni fortuite
del setting e sull’empatia sensoriale con un accenno al pericorpo
e a Cesarino Cervellati, parte di un capitolo
del libro. Mimmo Chianese a sua volta ha
definito Giuseppe "un uomo fuori dal comune", basti considerare gli autori di
riferimento di questo libro-testamento di cui avevano recentemente scherzato
per telefono, Freud, Bion, Berlinguer, Moro e Foucault, Peirce, Meneghello e
quant’altri, e ne ha ricordato la capacità di "fare politica" nel senso più alto
ed etico del termine che significa rispetto profondo per l’altro soprattutto se
sofferente e bisognoso. E’infine andato agli
"anni belli" di lavoro comune e proficuo
nell’Esecutivo della Società Psicoanalitica Italiana che li ha visti operare
insieme.
Poi è stato il turno di Manuela
Battistelli, psichiatra e psicoterapeuta curatrice del volume, che ha
raccontato la storia di come è nata, a
partire dall’inizio 2009, l’idea del
libro, la sua stesura e le varie bozze successive che sono circolate tra i
colleghi più vicini, e poi, dopo la sua
scomparsa, il certosino lavoro
editoriale finale, fatto di piccole correzioni
e di controllo delle innumerevoli citazioni, nell’estremo rispetto del
testo e delle idee originali ivi contenute. "Chi mai capirà questo libro?", è
la domanda che spesso Giuseppe le poneva
e l’affettuosa e realistica risposta, "chi ti conosce, ti capisce e ti apprezza",
probabilmente non valeva a rassicurarlo del tutto.
Confini, muri e bordi è un’opera molto densa, a tratti difficile,
che va letta come una serie di racconti
"in parte a sé e in parte insieme a costituire un arcipelago di emozioni e di
significati: se un gruppo tematico è troppo astruso per ogni specifico lettore,
lo salti e ricadrà su un terreno più agevole..", è il suo consiglio (pag 20),
cui aggiungo quello di attaccarvi la
lettura di conclusioni e ringraziamenti in cui emerge ancora l’originalità dei
tanti rivoli culturali del suo
approccio. Il libro si legge e si rilegge come uno zibaldone di pensieri e
annotazioni e mette alla prova la curiosità del lettore che può essere
indirizzato e insieme spaesato dalla enorme e disparata bibliografia che l’accompagna.
Confini, muri e bordi, che pure sono
così ben descritti come occasioni a un
tempo di sovrapposizione e di contiguità
identitaria, di lontananza, di discontinuità e di stacco, ben rappresenta da un
lato il suo appartarsi progressivo negli
ultimi anni dalle attività scientifiche
della comunità psicoanalitica prima e psichiatrica poi, e il suo ritagliarsi però un angolo di visuale, contemporaneamente ai
bordi e dentro gli argomenti, per lui inedito, dopo tanti anni di vita
appassionata nei vari mondi
professionali e istituzionali che ha frequentato da protagonista.
E dall’altro la capacità creativa di stare in spazi così diversi, di far percepire al lettore la
propria interezza nella molteplicità dei suoi interessi, sempre animato
dal fervore inquieto di un viaggiatore curioso perennemente in
movimento, tenace e capace di entrare davvero all’interno dei fenomeni che
studia, sulle orme di Erodoto e Kapuscinski,
citati nel libro come modelli a lui molto cari di testimonianza e conoscenza.
In questo libro c’è tutto il suo
Autore, il medico, lo psicoanalista, lo
psichiatra, il neurologo, il capofila di tanti gruppi di lavoro e di ricerca,
il formatore, il ricercatore, l’epidemiologo, il lettore, il commentatore, il
politico…il tutto sempre sull’onda della sua impronta umana e scientifica, della
sua curiosità minuziosa del mondo e,
insieme, dell’adesione ad una complessità
contraria ad una concezione teocratica
dei saperi, psicoanalisi inclusa, definita tale (pag. 92) se volta più a costruire muri ideologici piuttosto che
aprire confini e bordi di pensiero. E
tutto ciò attraverso l’uso di un linguaggio tanto sensorialmente espressivo e
vivo quanto familiare, come ad esempio la traduzione di "self righting" (pag.
39) in "auto raddrizzamento", che rende molto meglio l’idea rispetto ad una
traduzione più convenzionale.
Uno dei fili conduttori del libro è comunque la cura
con cui viene minuziosamente affrontato il tema del rapporto medico-paziente (pag.112
e 116), come portatore di per sè di un’istanza antiriduzionistica ancorata alla
complessità biopsicosociale della sua persona e
della clinica negli assetti più diversi
da quello psichiatrico pubblico, al setting della Medicina Generale, a
quello privato psicoterapeutico e a quello specifico della psicoanalisi.
Il tema della dissociazione spontanea
ed orientata, ampiamente trattato nel libro, sembra essere una conseguenza
della complessità soverchiante degli stimoli cui deve fisiologicamente far fronte la mente umana. Ne parlammo tante
volte negli ultimi anni, in quelle conversazioni con lui, telefoniche o di
persona, da cui sempre noi amici e colleghi uscivamo con l’idea di aver
imparato qualcosa. A questo proposito segnalo, oltre alle quattro dissociazioni
orientate proposte nel libro (Holmes,
Peirce, Bion e S. Teresa d’Avila), la modalità con cui lui stesso si disponeva
ad ascoltare, fosse un paziente, una storia clinica o un lavoro scientifico.
Chiudeva gli occhi, si allungava in una posizione più comoda e a volte corrugava la fronte o aggrottava le
sopracciglia in una postura tanto nota a
chi lo frequentava quanto foriera di osservazioni improvvise spesso
illuminanti.
Il dono da parte mia, segnalato
nella prefazione, de "Il segno dei tre"
di U. Eco e di T. Sebeok, oltre che per le straordinarie assonanze tra il
lavoro di Peirce e alcuni concetti psicoanalitici, era dovuto anche al fatto
che in questo libro mi imbattei nelle trasformazioni fisiche descritte da
Watson quando Sherlock Holmes si raccoglieva nelle sue congetture investigative
e nella sua capacità istintiva di percezione intuitiva, paragonandolo a un cane da caccia tutto sensorialmente teso a fiutare le tracce. Glielo dissi e ne ridemmo insieme. E’
questo atteggiamento fisico e mentale, fatto di attenzione estrema alle
parole, alle emozioni e ai sensi coinvolti in ogni relazione terapeutica, che mi pare costituisca una altro filo comune
delle pagine della sua opera.
Dopo il mio intervento, è stato
il turno di Cecilia Neri, psichiatra nei servizi bolognesi e sodale ricercatrice
vicina da una vita a BC, così lo chiamavano tanti amici, allievi e colleghi, che
ha ripercorso le tappe delle sua ricerca scientifica, per come emerge anche dalla lettura di questo libro. Giuseppe capì, tra i
primi, che la psichiatria, una volta uscita fuori dal manicomio, doveva confrontarsi con
la medicina di base, con la neurologia e con le altre discipline. Gli anni ‘70
erano i tempi dei servizi fondati sulla cura dei pazienti schizofrenici, la sua
voce sempre fuori dal coro si rivolgeva
agli aspetti medici e sociali della depressione delle donne, poi al
lavoro di ascolto dei casi clinici raccontati dai medici di medicina generale,
che conoscevano in modo puntuale ed appassionato le storie individuali e
familiari dei loro pazienti, ma erano alla ricerca di una chiave per
trasformare la narrazione in clinica. Quella chiave fu trovata insieme a loro,
caso per caso, nelle lunghe serate di lavoro in gruppo con i medici di medicina
generale, e parallelamente nei gruppi sullo stile comunicativo, in cui si
prendeva in considerazione frase per frase, sensazione per sensazione. Il
lavoro proseguì, evolvendosi e rivolgendosi alla relazione terapeutica nei suoi
aspetti di placebo e nocebo. Dall’incrocio dell’esperienza con i medici di
famiglia e delle riflessioni sulla relazione terapeutica, nacque il lavoro sui
Fattori Terapeutici Specifici Comuni, quei fattori di base che influenzano
l’andamento di ogni relazione di cura.
Un nuovo lavoro sui disturbi depressivi ed ansiosi nei servizi del 2008
mise in rilievo gli importanti cambiamenti della popolazione che si rivolge
alla salute mentale. Negli anni 80 erano casalinghe, con figli piccoli,
culturalmente isolate. Negli anni 2000 donne più spesso nubili, con livello
culturale medio-alto, lavoro di tipo intellettuale presente, ma spesso
precario. Si focalizzò poi sul lavoro
con i pazienti borderline, in un
contesto culturale in cui alcuni servizi teorizzavano che non doveva essere un
loro compito occuparsi di disturbi tanto turbolenti quanto incurabili.
Discutere, studiare, confrontarsi minuziosamente con la letteratura esistente,
ha permesso di mantenere vivo questo orientamento che poi è stato ampiamente
condiviso nel mondo dei servizi.
Berti Ceroni è stato per tutta la
vita un grande insegnante e divulgatore di cultura psichiatrica pensata,
profonda, mai banale o semplificatrice. Ha fatto supervisioni, corsi, ha
sostenuto e soccorso una quantità innumerevole di colleghi nelle loro
difficoltà cliniche. Per molti anni è stato al centro della vita psichiatrica
bolognese e punto di rifermento nazionale. Ha sempre lavorato in gruppo, con
colleghi per i quali è stato punto di riferimento essenziale. A questo
proposito segnalo gli interventi preordinati di alcuni membri della Commissione
Patologie Gravi, di cui Giuseppe Berti Ceroni era stato parte autorevole, che
tanto ha contribuito a partire dagli anni ’90, attraverso l’attività
scientifica, clinica, di supervisione e divulgativa dei suoi componenti, a creare un modello della cura nei servizi
psichiatrici pubblici.
Tornando alla presentazione del
libro, Antonello Correale nel suo intervento ha citato il capitolo sulla dissociazione orientata, in
cui Giuseppe unisce l’esperienza estatica per certi versi comune di Holmes,
Peirce, Bion e Teresa d’Avila, come esempio di una delle sue doti più originali:la capacità
di unire in un pensiero trasversale aspetti ed argomenti apparentemente lontani,
collegando qualcosa che è nascosto dietro ad essi. La rottura della crosta
della realtà, il rimando ad un’altra scena, la ricerca dell’autentico, il non
fermarsi all’apparenza, tutto questo sembra avere a che fare con il suo
abituale assetto di ascolto ad occhi chiusi che in qualche modo
rappresenta il potere dirompente e
liberatorio della psicoanalisi e un punto forte dell’eredità lasciataci da
Giuseppe.
Boccanegra subito dopo ha
sottolineato da un lato il suo essere circostanziato e preciso, quasi
calligrafico nel definire il dettaglio e dall’altro l’elemento improvviso della
formulazione della generalizzazione di un problema di cui cogliere la vastità,
la cui quasi simultaneità rischiava di
generare nell’interlocutore non avvezzo al suo stile un contraccolpo. Il
malinteso avrebbe a che fare con il
rischio di confondere l’aspetto icastico con quello sarcastico, per un salto
nei suoi interventi, la mancanza cioè di passaggi intermedi tra la storia
personale ed intima, l’altra storia, non quella apparentemente biografica, e
quella più allargata propria della vita collettiva e sociale.
Rinaldi infine ha raccontato di
essere rimasto ammaliato dalla lettura del libro, dal linguaggio incarnato,
vivo e palpitante di Giuseppe, che era aduso chiamare in modo molto schietto le cose col loro nome e, spesso, le persone
con un soprannome, indizio questo della sua innata capacità ritrattistica di
cogliere aspetti significativi dell’altro. E di essere stato colpito dal
capitolo "Medico del corpo, medico della mente" (pag.112), dall’ ambito cioè
delle svariate ricerche scientifiche nei setting della Medicina Generale, di cui Giuseppe è
stato per tanti anni indiscusso capofila locale ed internazionale, e che lui
stesso meno conosceva. E’ il tema
winnicottiano della cura, dell’incontro
tra il bisogno di dipendenza del paziente anche per lunghi periodi della
propria vita e l’affidabilità del medico, fatta di competenza terapeutica,
conoscenza della storia medica e
biografica del paziente e
capacità di adattamento della cura stessa alle sue caratteristiche di persona,
insomma un messaggio di solidarietà autentica che rappresenta uno dei punti
centrali di questo volume e dell’opera di Giuseppe Berti Ceroni.
Marco Monari
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