Itaca ti ha donato il viaggio meraviglioso. Senza di lei tu non saresti mai partito per la tua via. Essa non ha null’altro da offrirti. Se la troverai povera, non credere che Itaca t’abbia ingannato. Saggio come sei diventato, con sì tanta esperienza, avrai già compreso cos’Itaca realmente rappresenti (Da Itaca di Kostantinos Kavafis, 1911).
Nella poesia di Kavafis, Itaca è una metafora. È la meta di un viaggio esperienziale, lungo il cui percorso il viaggiatore prende coscienza della condizione umana, affermando l’autonomia della sua coscienza e la sua libertà di determinarsi. Non importa l’arrivo, ma hanno senso tutte le avventure patite nel viaggio in un mondo popolato di pericoli. Gli unici mostri che incontra, quelli che annientano, divorano, paralizzano, sono i mostri partoriti dalle fantasie arcaiche dell’uomo che, dovendo affrontare l’ignoto fuori di sé, è costretto a far fronte all’ignoto che è dentro di sé. L’unico principio al quale il viaggio deve fare riferimento è il luogo di origine, come luogo delle domande che incoraggiano al viaggio, e che accompagnano e trasformano l’uomo fino a divenire, al termine, luogo in cui si trovano le risposte e la pacificazione (1).
E’ probabile che la mia nascita a Taranto, città pugliese che fu capitale della Magna Grecia, e che dal centro del golfo guarda quella porzione di Mediterraneo che prende il nome di Mar Jonio, abbia favorito la costruzione di una vita professionale posta al crocicchio di differenti specializzazioni ed interessi. Ed è altrettanto probabile che Genova, a cui sono giunto per interessi lavorativi, sia diventata la mia Itaca per una sorta di ritrovamento e riconoscimento delle mie radici. Genova è, infatti, anch’essa una superba città marinara, con un grande porto, posta al centro di un golfo adagiato sul Mar Ligure e all’interno di una stretta regione che confina con la Francia. Lo sguardo sulle relazioni tra il luogo di origine e quello di arrivo deve essere ampio e comprendere differenti punti di vista.
“La casa è il punto da cui si parte” (2), scrive T. S. Eliot (1940) nei Quattro quartetti .
Emigrare vuol dire entrare in contatto con il nuovo, con l’ignoto, farsene attraversare senza farsi assimilare, senza farsi annichilire dallo sgomento, senza farsi impaurire dalla minaccia e, contemporaneamente conservare ben salde le proprie radici, valorizzarle nel confronto ibridante con l’altro-da-sé senza farsi risucchiare dall’identità originaria, senza evitare la fatica del lavoro di trasformazione che porta a separarsi dall’ovvio, dallo scontato di troppo facili appartenenze per tenere testa a quel sentimento, determinato dal vissuto di perdita dell’oggetto contenitore, legato alla sottrazione dei punti di riferimento indigeni, che Ernesto De Martino (1952) chiamava “angoscia territoriale” e i Grinberg (1984) “carenza protettiva”. Il desiderio di integrazione nella nuova cultura da parte del soggetto deve fare i conti con la contrapposta resistenza all’integrazione in un quadro di ambivalenza affettiva.
“Chi emigra si trova ad affrontare una sorta di doppia assenza: l’assenza del mondo che è stato lasciato e, inizialmente, anche l’assenza del mondo in cui vive” (Algini, Lugones, 1999, p. 13).
Marina Cvetaeva (1934) esprime dolorosamente una sensazione di apparente indifferenza nei versi della poesia Nostalgia della Patria, pur lasciando intravvedere un barlume di speranza:
Ogni casa mi è straniera, ogni tempio vuoto
E tutto fa lo stesso e tutto è uguale.
Ma se lungo la strada un arbusto appare,
specialmente un sorbo
Si tratta di mettere in atto le necessarie acrobazie per tollerare e magari valorizzare un’ambivalenza tanto insuperabile quanto feconda, senza cadere nel vuoto dell’indistinzione e dell’ambiguità, ma restando in equilibrio instabile sul crinale che separa sicurezza da insicurezza, noto da ignoto, riconoscimento da spaesamento, identificazione con l’origine da identificazione con lo straniero. Nell’antica Grecia proprio al centro dell’agorà stava il cambiavalute. Chi aveva in animo di intraprendere un viaggio all’estero, si avvicinava a questo operatore passando dal peristilio allo scoperto con lo scopo di adeguare il proprio potere di acquisto alle condizioni future (Nunzio, 1976). Questo rituale ha un significato simbolico più nascosto, in quanto l’uscita allo scoperto allude e prelude al distacco dalla protezione della madre patria; in una situazione di relativa assenza di riferimenti, allorché si profila all’orizzonte il fantasma di una dolorosa esperienza di isolamento e di estraneità, il rito propone al viaggiatore una persona nella quale identificarsi, ispiratrice delle capacità di adeguamento a nuove realtà, di acquisizione di nuovi orizzonti depurati dagli aspetti più minacciosi. “La posizione del cambiavalute al centro della città e della piazza, è ombelicale perché ‘parla’ della futura separazione, ma è anche testimonianza dell’interesse corale degli altri cittadini attorno alle esperienze, maturative per tutti, di esplorazione e ritorno da parte di uno di loro” (Pavan, 1984, p. 256).
Giovanna Rita Di Ceglie (2005, p. 103), a proposito della formazione del simbolo, scrive che “Symbolon è un termine greco che ha il significato di un segno di riconoscimento. Era un oggetto spezzato in due da due persone, ognuna delle quali ne teneva una metà. Quando le due persone si incontravano dopo una separazione, riunivano i due pezzi come segno di riconoscimento e ripristino della loro relazione. Il symbolon rappresenta il bisogno di crescere e di separarsi senza perdere il senso di appartenenza alle proprie origini […]. Senza il symbolon non riusciremmo ad affrontare la separazione e […] senza la separazione non riusciremmo ad esercitare la funzione di creare simboli e con essi di rifornire la nostra casa interna”.
“Il riconoscimento del sé avviene attraverso una sorta di spaesamento preventivo nell’alterità, nella casa del diverso, dell’estraneo, dell’altro da noi, comunicando con il quale ci mettiamo in gioco ‘fuori’ dalla nostra casa. Ritrovandoci forse più disorientati e raminghi […] ma più attenti alla diversità” (Pesare, 2007, p. 119).
Scrive Jean Baudrillard (1990, p. 189): “L’altro è ciò che mi permette di non ripetermi all’infinito”.
Gianni Vattimo (1989) indica la realizzazione dell’oscillazione continua tra appartenenza, spaesamento e reintegrazione come l’unica possibilità dell’essere contemporaneo per vivere dialetticamente un nuovo mondo fatto di differenze ma anche di grande ricchezza sapienziale e di infinita libertà.
Per Franco La Cecla (2000, pp. 16-17) “Perdersi è […] la condizione d’origine, il bisogno e il terreno su cui si comincia o si ricomincia ad orientarsi. Dal perdersi all’orientarsi c’è un processo culturale, l’uso delle occasioni esterne, indifferenti, per volgerle a nostro favore, il piegare l’estraneo a divenire accogliente, a permettere di dimorarvi. L’orientamento, ad esempio, corrisponde per un individuo […] a tutta una serie di frustrazioni, tentativi a vuoto, conoscenze, attese, ‘prese sulla realtà’, salvagenti fatti da persone e da luoghi che poi, giorno dopo giorno, costituiscono una maglia prima elementare […] e poi, via via, a imbrigliare spazi rimasti ancora sconosciuti, a permettere di riconoscerli, partendo e tornando a luoghi più familiari”.
“La separatezza prende senso se riusciamo a mantenerla in oscillazione con la dimensione impersonale e preindividuale della mente, che assicura confini permeabili, permette di condividere, immedesimarsi. Indifferenziato e differenziazione sono, dunque, i due poli del farsi del soggetto” (Ambrosiano, Gaburri, 2013, p. 19).
“La creatività […] implica la capacità di regredire, di sdifferenziarsi o, più esattamente di ricomplicarsi-ricompletarsi. Lo sviluppo psichico umano rischia di essere – ed è perlopiù – il frutto di un progressivo impoverimento: per attuare alcune delle moltissime potenzialità iniziali, ciascuno ne lascia perdere man mano la stragrande maggioranza. Solo chi può permettersi di ritornare psichicamente alle condizioni nelle quali queste potenzialità potevano essere rappresentate, può essere ‘creativo’, può vedere in modo nuovo gli stimoli che gli provengono dall’esterno e dall’interno, può intravedere soluzioni nuove” (Semi, 2014, pp. 178-179).
Tra sradicamento e iperadattamento
La costruzione di nuovi punti di riferimento, l’abituarsi a nuovi panorami, l’ambientarsi in nuovi contesti, le necessarie mediazioni e traduzioni ci consentono di “apprendere ad apprendere” (Bateson, 1972), di rivisitare connotazioni date come automaticamente scontate, di rimetterci in gioco, attivando fantasie di nuovo inizio in opposizione a sensazioni di aspetti autentici di sé sacrificati, bloccati o censurati dall’ambiente. L’individuo può anche sottrarsi al suo paese, alla sua lingua, al suo ambiente, ai traumi della sua infanzia, perché, come afferma Tzvetan Todorov (2002), gli appartenenti alla specie umana possiedono la capacità di modificare se stessi.Vi è però il rischio (un rischio che necessariamente va corso nel percorso di strutturazione della nuova identità), della costituzione di un meccanismo compensatorio di iperadattamento al nuovo ambiente, un’assimilazione superficiale e posticcia della nuova cultura, senza un’autentica elaborazione. Si costituirebbe in questo caso un falso Sé robotico con caratteristiche conformistiche, di rigida sottomissione alle regole e di inibizione degli affetti.
Scrive Silvia Amati Sas (2010): “Se l’inconscio è permeabile alla mentalità altrui, ci sarebbe un’impregnazione che, al dire di Eigen (1985), non risulta perturbante, che non è segnalata dall’angoscia (estraniamento, perplessità) e che passa ad essere parte dell’ovvio, dell’implicito che ci abita”.
Il sociologo Georg Simmel (1908) osservava, però, che lo straniero apprende l’arte dell’adattamento in modo più consapevole e penetrante, seppure più doloroso, di coloro che vivono l’appartenenza come un diritto, senza conflitti con l’ambiente circostante. Un ostacolo alla comunicazione, allo scambio senza sospetti è costituito dalla lingua o dall’accento che immediatamente identifica lo straniero, l’estraneo e, come dice René Girard (1982, p. 241): “Chi parla con un altro accento, non è mai uno dei nostri. Il linguaggio è il segnale più sicuro dell’essere con”.
Richard Sennett (2008, p. 22) scrive: ”I cambiamenti necessari per modificare le relazioni dell’umanità con il mondo fisico sono talmente enormi, che soltanto questo intimo senso di spaesamento e di straniamento può mettere in moto ed alimentare pratiche concrete di cambiamento”.
Claudio Neri (1999) ci ricorda che, se gli oggetti domestici ci danno consolazione, non ci fanno però recuperare lo slancio vitale, l’energia di valorizzazione della vita, che si attiva nell’incontro con lo sconosciuto e e Antonio Aberto Semi (2014, pp. 47-48) ritiene che: “Solo una considerazione attenta degli effetti di novità e della possibilità di costruire continuamente rappresentazioni nuove a tutti i livelli dell’attività psichica consenta all’individuo di operare un distacco umano dagli oggetti originari e da qualunque oggetto perduto, un distacco umano perché garantisce il giudizio di irripetibilità dell’esperienza compiuta con quegli oggetti perduti, diversi da quelli che attualmente possono essere rappresentati come nuovi e qualificati come percepibili. Solo così la nostalgia per oggetti amati e perduti non si volgerà in rancore per eventuali oggetti nuovi non sovrapponibili a quelli, né alla pretesa narcisistica di piegarli alla ripetizione macabra di un oggetto perduto, ma si alzerà come una nota limpida, riconoscibile, perché già conosciuta, garante della continuità psichica perché rappresentante della continuità e ancor prima della realtà del desiderio”.
“Ai giorni nostri, scrive Jean Starobinski (1966, pp.116-117), […] la nostalgia non designa più una patria perduta, ma risale verso quegli stadi in cui il desiderio non doveva tener conto dell’ostacolo esterno e non era condannato a differire il proprio appagamento. […] Il problema è dato dal conflitto tra le esigenze dell’integrazione al mondo adulto e la tentazione di conservare i privilegi della situazione infantile”. Insomma la nostalgia come sofferenza per l’infanzia perduta a fronte delle frustrazioni alle quali la vita adulta ci espone. Ma forse bisogna andare più indietro rispetto a quanto Starobinski propone e “ipotizzare che l’emigrazione espone a una condizione di fragilità perché riattiva nuclei della vita psichica senza forma né struttura, avvertiti dall’Io come sensazioni diffuse d’angoscia che sfuggono completamente alla sua capacità conoscitiva” (Algini, Lugones, 1999, p. 14).
Sebald (1992, p. 34) nel romanzo Gli emigrati scrive a proposito di uno dei suoi personaggi, che a lungo le immagini del distacco dal luogo natio erano rimaste nel dimenticatoio della sua memoria, ma negli ultimi tempi, invecchiando, si erano riaffacciate e stavano tornando. Sebald accosta metaforicamente a questa condizione la notizia apparsa su un giornale svizzero circa la restituzione delle spoglie di una guida alpina da parte di un ghiacciaio, scrivendo: “E’ così dunque che ritornano i morti. Talvolta dopo oltre settant’anni riaffiorano dal ghiaccio e sono lì distesi ai margini della morena […]”.
Nicole Berry (1982) sostiene che le angosce di separazione sono legate non solo alla separazione dalla madre, ma anche dalla casa, luogo elettivo di proiezione di una topica arcaica. Queste angosce possono riacutizzarsi nelle esperienze di trasloco, determinando talvolta la costituzione di quadri psicopatologici di notevoli entità (Fava, Gentile, 1984).
Alberto Eiguer (1999, p. 106) definisce le diverse emozioni e rappresentazioni dello sradicamento psicologico: “ritorno di eccitazione, blocco della capacità di rappresentazione, confusione di tempo e di luogo, nostalgia o paura della vendetta degli oggetti interni, ma è soprattutto l’estraneità ad apparire come caratteristica, perché lo sradicamento sollecita la riorganizzazione dell’Io, tramite la ‘rottura’ del sentimento di continuità identica o il rafforzamento della scissione che porta ugualmente il segno dell’attacco all’identità […]. Il dolore e il senso di colpa per aver voluto la rottura rafforzano il sentimento di sradicamento più di quanto lo possano placare”.
Per La Cecla (2000) perdersi e ambientarsi sono processi primari in buona parte inconsci. “In essi ‘mappa e territorio’ si identificano per quelle operazioni di analogia e corrispondenza che non si ritroveranno più in una forma ‘cosciente’ di conoscenza, nei processi secondari operanti per ‘distinzioni’ e ‘topografie’” (p. 123).
Davide Lopez e Loretta Zorzi (2005), opponendosi alla logica kierkegaardiana dell’aut aut, riaffermano nelle relazioni umane il valore del paradigma hegeliano dell’et et, in cui tesi e antitesi convivono nella sintesi, considerandolo il fondamento dell’approccio alla teoria della complessità, privilegiando la dinamica costruttiva dei complementari, dei distinti e soppiantando la logica della rigidità identitaria, dei costrittivi schemi binari che costringono il pensiero a polarizzarsi in maniera oppositiva. Leon e Rebeca Grinberg (1975) affermano che l’acquisizione del sentimento di identità è il risultato di un processo costante di interrelazione tra rapporti di integrazione spaziale, temporale e sociale. “La capacità di continuare a sentirsi gli stessi nella successione di cambiamenti – scrivono – costituisce la base dell’esperienza emozionale dell’identità e comporta la capacità di mantenere la stabilità pur attraverso tutte le trasformazioni e i cambiamenti impliciti nel vivere” (p. 9). “Il gioco tra l’incontro con l’ambiente e un fondo di dotazioni, sconosciuto ma specifico, inaugura da subito un intreccio ricco e complicato tra investimento oggettuale e identificazione, tra il principio del piacere e quello di realtà, tra il pensiero primario e quello secondario, tra la risonanza oceanica e la differenziazione. […] Siamo continuamente sospesi – scrivono Laura Ambrosiano e Eugenio Gaburri (2013, pp. XVI-XVII) – tra una sorta di malleabilità, che ci amalgama tutti come organismi preindividuali, e una spinta allo sviluppo differenziato. In effetti corriamo continuamente il rischio di confluire in quella che Freud chiamava la ‘zuppa originaria’ o, all’altro estremo, il rischio di costruirci in modo rigido sulla base di una fantastica soggettività immune dall’influenza dell’altro”. Michael Balint (1959) distingueva gli ocnofili dai filobati. I primi si distinguono per l’enorme attaccamento alle persone e ai luoghi originari, vivendo nell’illusione di essere al sicuro per tutto il tempo in cui rimangono in contatto con un oggetto che dà loro sicurezza, mentre i secondi tendono a una vita più indipendente e a cercare piacere nelle avventure, nei viaggi e, in genere, nelle emozioni nuove, nell’illusione di non avere bisogno di nessun oggetto, e certamente di non aver bisogno di oggetti particolari, fatta eccezione per la propria attrezzatura specifica. I coniugi Grinberg (1984, p. 35) commentano che “nessuna di queste categorie [ocnofilia e filobatismo] costituisce di per sé e in forma isolata un indice di salute mentale. Sarebbe auspicabile che si raggiungesse una buona integrazione di entrambe, in modo che si possa agire in un senso o nell’altro, a seconda di come vengono valutate le circostanze”.
Psicoanalisi e psichiatria
Fin dagli esordi la mia formazione psichiatrica è stata contaminata dalla psicoanalisi e la mia formazione analitica è stata a sua volta contaminata dalla psichiatria. Il mio lavoro psichiatrico, anche quello più pervicacemente antiistituzionale, ha potuto sorreggersi sulla mia analisi personale e sul lavoro nella stanza di analisi e la mia attività di psicoanalista ha potuto grandemente giovarsi della mia esperienza psichiatrica nel campo delle patologie gravi. La sensazione di essere sul confine, se da un lato accresce il sentimento di libertà, con la possibilità di passaggi da un territorio all’altro, dall’altro mette in questione il sentimento di identità, che spesso viene confuso con il bisogno di appartenenza, legato a meccanismi evolutivi assai primitivi che portano ad idealizzazioni e/o a scissioni. Un uso più evoluto ed elaborato delle proprie convinzioni ideologiche, scientifiche, delle proprie famiglie culturali porta a posizioni insature e convoglia tendenze riparative in cui la preoccupazione e la responsabilità per la vita e il destino dell’individuo e della comunità predominano (Grinberg, Grinberg, 1975). Scrive Eugenio Gaburri (2013, p. 127): “Quando l’Ideale dell’Io si lascia piegare dal conformismo, finisce per ispirarsi all’Ideale dell’Io del gruppo senza mediazioni personali. […] In queste circostanze anche il Super-io si degrada, diventa dominante la sua parte arcaica e megalomanica che offre all’individuo regole mafiose indiscutibili, o ideologie rigide, o una visione del mondo satura”. Gianfranco Nicolussi (1996), uno psicoanalista argentino da molti anni emigrato in Italia, sostiene che chi emigra si convertirà in uno straniero a vita. Anche se ritornasse nel suo paese di origine, quel paese non sarebbe più parte di lui nella stessa forma e nelle stesse modalità in cui lo era prima della partenza. Ritornare sarà emigrare nuovamente; il luogo a cui ritornerà non sarà più quello lasciato e il soggetto che è partito non sarà più lo stesso al suo ritorno. La psicoanalista iraniana Gohar Homayounpour (2012, pp. 63-64) scrive: “Lontana dall’Iran, nessuno è stato più iraniano di me, qui in Iran, nessuno lo è meno. […] Sembra proprio che siamo destinati a sentirci colpevoli per non essere più capaci di vedere la nostra madrepatria immune da ogni difetto, sapendo ormai che è impossibile trovare il paradiso, soprattutto nel nostro paese natale, sì che il nostro paradiso è perduto per sempre”.
Marcel Proust, di ritorno a Illiers, luogo della sua infanzia, trovò il paesaggio rimpicciolito; era diventato un paesaggio che non corrispondeva più alle dimensioni esplorate con i suoi sguardi infantili. Solo la scrittura creativa gli permetterà di riavvicinarsi alla dimensione ormai scomparsa (Mancinelli, 2012).
Italo Calvino scriveva in Le città invisibili: “La città esiste e ha un semplice segreto: conosce solo partenze e non ritorni” (1993, p. 55).
Una poesia di Jorge Luis Borges del 1923, Il ritorno (3), descrive splendidamente le sensazioni del ritorno al paese di origine:
Alla fine degli anni dell’esilio
Tornai alla casa della mia infanzia
Ed ancora mi è estraneo il suo spazio.
Le mie mani hanno toccato gli alberi
come chi accarezza qualcuno che dorme
ed ho ripetuto antichi sentieri
come se recuperassi un verso dimenticato
[…].
Che caterva di cieli
abbraccerà tra le sue mura il patio,
[…]
e quanta friabile luna nuova
infonderà al giardino la sua tenerezza,
prima che torni a riconoscermi la casa
e di nuovo sia un’abitudine.
E’ all’interno di questa mia identità eccentrica, rispetto ad appartenenze forti e saturanti che ha potuto avere luogo l’esperienza di fondazione e direzione della rivista genovese di psichiatria La via del sale, che per alcuni anni ha animato un intenso dibattito culturale. La via, la strada, ha sempre rappresentato metaforicamente la possibilità di transito, dell’attraversamento dell’ignoto, dell’anelito alla ricerca. L’interpretazione dei sogni, per esempio, è stata presentata da Freud, in una lettera Fliess del 6 agosto 1899 (p. 402), in questi termini: ”Tutto è congegnato sul modello di una strada immaginaria. Dapprima viene il bosco buio degli autori (che non vedono gli alberi), foresta senza prospettive nella quale è facile perdersi. Vi è poi uno stretto passaggio nascosto, attraverso il quale conduco il lettore – i miei esempi di sogni con le loro caratteristiche, i loro dettagli, le loro indiscrezioni e i loro cattivi scherzi – e poi, tutto in una volta, il punto più elevato ove si spazia e la domanda: ‘Ditemi, se non vi spiace, ora dove volete arrivare?”
Una delle più antiche viedel sale partiva dal porto di Genova e, attraversando prima gli Appennini e poi le Alpi, permetteva alle merci di transitare e raggiungere l’Europa. Il nome della rivista stava a sottolineare le caratteristiche di percorribilità e di apertura che avrebbe dovuto contenere e il direttore e i redattori avrebbero dovuto essere gli stradini che avrebbero provveduto a ripristinare e a mantenere aperta e transitabile quella fondamentale via di collegamento. Nel primo editoriale, l’invito a tutti gli operatori della salute mentale, psichiatri, psicologi, assistenti sociali, infermieri a riflettere e scrivere sui rapporti tra psichiatria, psicologia, psicoanalisi, medicina e scienze umane avveniva in questi termini: “Vorremmo cogliere in nuce le problematiche emergenti, le aree di sofferenza elaborativa, i pensieri collettivi in statu nascendi; vorremmo essere capaci di annusare l’aria che tira e proporci per una riflessione comune senza conformistici unanimismi, ma anzi dando spazio all’originalità dei contributi individuali” (Schinaia, 1997, p. 12).
Successivamente ha potuto avere luogo la mia lunga esperienza di redazione nel collettivo di lavoro di Psiche, la rivista di cultura psicoanalitica della Società Psicoanalitica Italiana. Riporto un brano del primo editoriale che bene esplicita il senso del progetto: “Sarebbe interessante tentare di portare il discorso dello psichico presso gli altri saperi, introducendolo là dove non è stato mai considerato importante o necessario e stimolando un confronto – far emergere lo psichico, questo inespresso che abita dentro di noi e che dà sostanza e forma ad ogni nostro sapere. Per questo Psiche dovrebbe avere il senso di un ponte gettato verso l’esterno, ma con la prospettiva di un duplice transito: linguaggi ed esperienze ‘altre’ da introdurre presso di noi, ma anche il discorso psicoanalitico da portare all’esterno” (Preta, 2002, p. 9).
Marc Augé (1994, p. 67) giudica reazionario il proverbio francese “chacun son métier, les vaches seront bien gardées” (ognuno faccia il suo mestiere e le vacche saranno ben sorvegliate, cioè ognuno faccia quello che deve fare e tutto andrà per il meglio) (4), affermando che “bisogna uscire dal quadro restrittivo delle culture come insiemi autonomi condannati alla coesistenza”. Thomas Ogden (2013) sostiene che in analisi “la conversazione, in cui due persone parlano l’una all’altra, implica una differente modalità di strutturazione del linguaggio e dell’esperienza. La conversazione parlata risuona con una conversazione inconscia in cui le due persone pensano insieme. Il pensare insieme richiede la creazione di una forma di pensiero inconscio che, tenendo insieme congiuntamente il pensare e il sentire delle due persone, permette loro di pensare e sentire in un modo in cui nessuno dei due da solo poteva pensare e sentire. Io credo [dice Ogden] che l’esperienza di pensare insieme a un’altra persona con cui si sta conversando consciamente o inconsciamente abbia le potenzialità di creare le condizioni in cui possa avvenire lo scambio psichico tra paziente e analista” (p. 635). Christa Wolf, nel suo romanzo Cassandra (1983) si pone dinanzi all’eroina greca come “straniera” in una terra, di cui non comprende la lingua. Questa posizione di reciproca estraneità linguistica tra l’autrice e il suo personaggio, lungi dallo stabilire una frattura insanabile tra le due, fonda invece un rapporto profondo, il rapporto di un dialogo a distanza tra tempi e tra mondi che, in lingue diverse, possono comunicare. Christa Wolf scrive che si comprende soltanto ciò che si condivide, dando alla convivialità, alla compartecipazione emotiva, piuttosto che alla corrispondenza tra patria e lingua, tra lingua ed Io, il valore di matrice della comprensione.
Wisława Szymborska (2002) scrive nella poesia Il silenzio delle piante:
“Viaggiamo insieme.
E quando si viaggia insieme si conversa, […]
Cerchiamo di sapere qualcosa, ognuno a suo modo,
e ciò che non sappiamo, anch’esso ci accomuna.
Anthony Vidler (2007, p. X) scrive: “Possiamo […] cominciare a interpretare i nostri attuali esperimenti interdisciplinari non come utopie totali fallite, né come pratiche disciplinari fuori corso, bensì come conversazioni complesse tra soggetti privati in uno spazio pubblico […]: un interno costruito come esterno per cogliere e analizzare in pubblico […] uno spazio privato collettivo”. Più in generale credo che si possa sostenere che la conversazione fra differenti linguaggi scientifici e culturali possa permettere la strutturazione di differenti e nuove forme di linguaggio e di esperienza che non sono la somma dei linguaggi e delle esperienze di partenza, ma che hanno una loro vita autonoma e originale.
Note
- Scrive Sergio Zavoli (2011, p. 253): “Itaca è ovunque, tutti i giorni, perché è il viaggio medesimo, il conosciuto e il desiderato che stanno un po’ prima e un po’ dopo di ciò che attraversi. Itaca è, di volta in volta la ragione del viaggio e il suo animo, la fuga e l’approdo, il motivo per il quale vale sempre la pena di ripartire, sottovento o contro, guidati da qualcosa che ti aspetta immancabilmente”.
- Home is where one starts from. As we grow older The world becomes stranger, the pattern more complicated Of dead and living. Not the intense moment Isolated, with no before and after, But a lifetime burning in every moment And not the lifetime of one man only But of old stones that cannot be deciphered. There is a time for the evening under starlight, A time for the evening under lamplight (The evening with the photograph album). Love is most nearly itself When here and now cease to matter. Old men ought to be explorers Here or there does not matter We must be still and still moving Into another intensity For a further union, a deeper communion Through the dark cold and the empty desolation, The wave cry, the wind cry, the vast waters Of the petrel and the porpoise. In my end is my beginning.
- “La Vuelta”: “Al cabo de los años del destierro/ volvì a la casa de mi infancia/ y todavìa me es ajeno su ámbito./ Mis manos han tocado los árboles/ como quien acaricia a alguien que duerme/ y he repitido antiguos caminos/ como si recobraraun verso olvidado/ y vi al desparrarmarse la tarde/ la frágil luna nueva/ que se arrimó al amparo sombrío/ del la palmera de hojas altas,/ como a su nido el pájaro./ […] Que caterva de cielos/ ambarcará en la hondura de la calle/ […] y cuánta quebrazidada luna nueva/ infundirá al jardín su ternura,/ antes que vuelva a reconocerme la casa /y de nuevo sea un hábito!”.
- Un proverbio simile è presente nel dialetto milanese: “ofelè fa el to mestè”, in italiano “pasticciere fai il tuo mestiere”.
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