Come i bambini ci guardano
"Ciò che mediante la psicoanalisi apprendiamo sul bambino (..) è che
ogni bambino passa
attraverso sofferenze smisurate " M. Klein
Si è svolta a Milano, la prima rassegna cinematografica dedicata ai bambini proposta dall’Osservatorio del Bambino e dell’Adolescente, dal titolo, Come i bambini ci guardano. Attraverso la visione di alcuni film, ci si proponeva di offrire allo spettatore lo sguardo del bambino sulla realtà mentre cresce e si sviluppa. Si è pensato di privilegiare alcuni momenti importanti della sua vita, tra i quali il rapporto con il gruppo, come si definisce l’identità, la relazione con gli adulti e la dimensione del gioco e del fantasticare. Questi temi sono stati affrontati attraverso la visione di quattro film : Il signore delle mosche (dott. M. Badoni); La mia vita in Rosa (dott. A. Migliozzi); Gli anni in tasca (dott. P. Antinucci); La finestra sul Luna Park (dott. M.L.Zuccarino).
La psicoanalisi ci ha portato a pensare al bambino e al suo mondo come un universo ricco e articolato dove le emozioni, le esperienze e le azioni sono fondamentali per definire il suo Sé e permettere lo sviluppo. Il bambino fin da subito si relaziona, percepisce e organizza una idea di sé stesso nel mondo. Freud stesso aveva riconosciuto l’importanza del rapporto reale (e inconscio) che il bambino stabilisce con i propri genitori per la costruzione della sua personalità. M. Klein, a seguire, aveva parlato dell’esistenza di un mondo psicologico del bambino come di un luogo popolato da esseri fantastici, prodotto di impulsi, fantasie e emozioni che si costruirebbe attraverso la mutua relazione che il bambino stabilisce con la realtà e le relazioni. Winnicott evidenzia come attraverso l’interscambio continuo, playing togheter, il bambino conosce il mondo e sé stesso e, per questo, sarebbe impensabile senza la madre. Quando il bambino guarda la madre, nel volto di lei vede sé stesso.
Come ci guardano, come cercano di assomigliarci per poi potersi distanziare e crescere.
Anna Migliozzi Simonetta Bonfiglio
Marta Badoni Il signore delle Mosche P. Brook 1963
Il tema centrale del film, tratto dal romanzo di Golding e con la regia di Peter Brook, è la lotta impari dell’uomo contro il terrore dell’annichilimento e la paura di fronte all’ignoto. Siamo in un luogo mitico, un’isola di sconvolgente di bellezza e generosa di frutti, dove, complice un incidente aereo, vengono catapultati dei bambini. L’illusione degli adulti che hanno organizzato il viaggio, è quella di preservare i bambini e la loro innocenza dai disastri di una incombente presunta catastrofe atomica. Il richiamo è al romanzo di Georg Orwell "1984". La caduta della illusione non sta tanto nella caduta dell’aereo, ma nella inevitabilità del male, sorta di biblico peccato originale che condanna l’uomo a una lotta eterna per sopravvivere alla propria violenza e ai propri terrori. Il fatto che solo i bambini si salvino dalla catastrofe non porterà quindi novità alcuna alla storia dell’umanità, non sarà un nuovo inizio, così come non dispenserà questi bambini da un contatto tragico con la violenza delle proprie emozioni. Esse esercitano una pressione costante, resa concreta nel film dal ronzare delle mosche: ne avvertiamo subito la presenza fastidiosa e pressante; potremmo, con Bion , riferirci a un agglomerato di emozioni o di beta elementi che dovrebbe, ma non riuscirà, a trovare un contenitore; si coagulerà invece in un totem, una presenza deificata e mortifera, un Belzebu che cura il terrore con il terrore, trasformando l’isola in un inferno di fuoco. l modi con cui i bambini prendono atto della situazione, dopo l’atterraggio, sono piuttosto diversi: un primo gruppo, resta in qualche modo ancorato al mondo degli adulti e ai valori familiari e domestici, mentre il gruppo dei coristi, compatto attorno alla prestanza della divisa e del ruolo, magistralmente rappresentata da Brook, ci appare potremmo dire con Bion, un gruppo in assunto di base, quindi con un tacito inconscio bisogno di neutralizzare l’individualità e le aspirazioni dei singoli. Tuttavia il fascino che avvicina i due leader sta a annunciare che la divisione tra arroganza e democrazia (o tra violenza e diritto) non è così scontata. L’abbondanza di frutti dell’isola e la comparsa di una bellissima bianca conchiglia, sembra affidare il gruppo alla magica illusione di un mondo senza limiti e senza confini. Su una linea spartiacque sta il fuoco, simbolo di gruppalità e fonte di eccitazione, tiene col fiato sospeso: quello che sembrerebbe all’inizio una presa di contatto con la realtà, potere col fumo mandare segnali al mondo dei grandi, diventa rapidamente fonte di conflitto e di pericolo: un giocare col fuoco assai pericoloso tanto da fare le prime vittime…Si fa strada una deriva pericolosa, una tendenza deresponsabilizzante…un dirsi è successo, ma cosa si poteva fare di diverso…quel – non ho fatto apposta- che sentiamo tanto spesso dai bambini quando il gioco scappa loro di mano e li sorprende, e che è parte di un funzionamento di gruppo che tende a delegare piuttosto che a contenere. D’altra parte l’idea della morte è assai lontana dalla mente di questi ragazzini. E’ invece assai presente un suo pericoloso sostituto: la paura dell’ignoto. Ed è proprio questa paura che si fa strada. Progressivamente il gruppo si fa cacciatore : lo fa valicando il limite rappresentato dalla lama del pugnale di Jacq, quando, ancora per poco i bambini riescono a collegare l’arma e la morte. In questi sguardi c’è ancora traccia di un limite. Poi il tempo sparisce e con esso il pensiero: si passa all’atto e poi al trionfo maniacale sulla paura e sulla morte. Potremmo ricordare Melanie Klein e l’oscillazione tra posizione paranoica depressiva qui tutta sbilanciata sulla prima. La conclusione più che al ritrovamento di un contenitore ci porta all’importanza del limite: geniale nel film la comparsa delle scarpe bianche di un adulto autorevole come può esserlo un ufficiale di marina: un biancore assoluto che fa da taglia fiamme e che introduce un ordine diverso: si torna alle regole e ai limiti, per finire con un incrocio finalmente tenero di sguardi.
Anna Migliozzi La mia vita in Rosa A. Berliner 1997
La mia vita in rosa (1997), sospeso tra mondo illusorio e realtà, pone al centro la vicenda di Ludovic, un bambino di sette anni, che sente di essere una bambina nata per errore in un corpo di bambino. Le domande del film, espresse da Lodovic, Ma insomma io chi sono, maschio o femmina? Chi stabilisce che si nasce tutti uguali, con gli stessi gusti, con lo stesso orientamento sessuale ? Chi lo dice che la più pura e intima tensione di un bimbo per un altro dello stesso sesso sia una malattia? sembrano dirette a noi adulti spettatori e ci aiutano ad entrare nel mondo di quei bambini a identità di genere variante.
Come sappiamo, il senso d’identità personale è legato alla nostra esperienza emotiva interna ed è il risultato evolutivo che deriva dal bisogno del bambino di rappresentare mentalmente i propri stati interni usando la mente dell’altro. L’identità sessuale, che è alla base dell’identità personale, rappresenta una delle prime acquisizioni del bambino: basti pensare a come i bambini si riferiscono l’uno all’altro: «Io sono maschio, tu sei femmina».
L’esistenza del transessualismo, però, sembra mettere in crisi la credenza condivisa che esista accordo tra anatomia e identità sessuale (l’anatomia è un destino); in altre parole, che è sufficiente avere un certo tipo di genitali per appartenere a un sesso o all’altro. Mentre, il travestitismo è quella condotta in cui un individuo si veste come il sesso opposto ricavandone un intenso piacere, nel transessualismo, invece, l’individuo desidera cambiare sesso. Il travestito vuole sembrare una donna, il transessuale vuole diventare una donna. Mentre il travestito, anche quando è vestito da donna, sa di essere un uomo, il transessuale crede di essere una donna nata in un corpo di uomo.
Per tornare al film, la famiglia di Ludovic è impreparata ad affrontare i numerosi interrogativi del bambino e sottovaluta, banalizzando. Assistiamo ad una progressiva perdita di capacità della madre e del padre a stare con il loro bambino fino a sentirsi minacciati dalla sua presenza muta e sofferente. La comunità degli adulti irrigidita e impaurita, non ha l’intenzione di interrogarsi e di capire. Si difende e si chiude. Lo scandalo, prodottosi nella piccola comunità di riferimento, produrrà l’espulsione definitiva di Ludovic. Inizialmente, il peso che porta Ludovic è grandissimo; solo e confuso, si ritirerà in un mondo rosa autocreato di fantasticherie illusorie. In questo mondo trova Pam, l’eroina televisiva dei suoi sogni, e la possibilità di vivere la sua fantasticheria che rischia di allontanarlo sempre più dalla realtà. A questo proposito, sappiamo che Winnicott (1971), nel lavoro "Sogno, fantasia e vita reale", sostiene che ci sono persone impegnata a fantasticare e con grande attrazione per il mondo della fantasticheria o sogno ad occhi aperti, "…che rimane un fenomeno isolato, che assorbe energia ma che non contribuisce al sogno né alla vita reale (p:26)" e porta progressivamente svuotare di significato la vita.
Mentre i sogni e le esperienze della vita reale tendono ad essere rimossi, non così è per le fantasie che rimangono inaccessibili. La madre di Ludovic, ad un certo punto, sembra doversi accorgere che la sua ostinata negazione rischierebbe di farle perdere per sempre la possibilità di un contatto con il suo bambino, sempre più assorbito dal suo mondo di Pam, e sembra obbligata ad un ripensamento.
Purtroppo il film che ha il pregio di portare l’attenzione su temi quali il valore della fantasia rispetto all’illusorio mondo di Pam o cosa definisce l’identità di genere, non sembrano trovare una adeguata trattazione e il film, con il suo finale un po’ troppo consolatorio, perde l’occasione di riuscire a sviscerare un tema delicato e difficile.
ML Zuccarino La finestra sul Luna Park L. Comencini 1957
Una violenta frenata.. una madre viene investita e muore. Inizia da lì, la storia del difficile ricongiungimento tra un padre, Aldo, emigrato da lungo tempo, e che torna a casa per il funerale della moglie, ed un bambino, Mario, vissuto fino ad allora con una mamma, Ada, mai rassegnata al sacrificio di quei bisogni affettivi profondi, a cui la scelta del marito l’aveva obbligata. Accanto a loro, Richetto, umile rigattiere, capace di trasformare i rifiuti urbani in piatti d’oro, e di offrire ad Ada e Mario, in quell’assenza, l’illusione affettuosa di un’intimità familiare sostitutiva. Sarà attraverso Richetto, alla sua vicinanza al mondo infantile e al sogno, ricordo nostalgico, di una famiglia lontana, che Aldo potrà rientrare il contatto col mondo dei suoi affetti e ritrovare il suo posto accanto a Mario. Nello scambio finale tra i due uomini, di intensa drammaticità, bisogni adulti e bisogni infantili si confrontano e si compenetrano, senza nessuna semplificazione retorica, portando alla luce la complessità di una condizione umana che trova la sua completezza in quel delicato equilibrio delle parti, maschile e femminile, adulto e bambino, presenti in ognuno. E’ così che, alla fine, mentre Aldo tornerà dal figlio, Richetto tornerà dai genitori.
Film delicato e profondo, ebbe, all’epoca, assai poca fortuna. Disertato dal pubblico, fu attaccato in egual misura dalla critica cattolica, e da quella progressista, forse proprio per lo straordinario equilibrio presente nel film, tra la denuncia sociale e la vicinanza all’esperienza emotiva dei singoli, tra l’ambientazione neorealista e lo scenario interno in cui essa si declina.
La realtà di un ambiente urbano, dove ai crolli e al degrado si alternano scorci di una ricostruzione ancora incompiuta; la povertà e la sottocultura, che trae forza dall’inganno e dalla distanza dai valori della persona trasmessi dalla cultura ufficiale; la disoccupazione e la necessità di migrare sotto la spinta di una retorica politica, cieca al dolore di chi parte e alle lacerazioni che il distacco comporta per genitori e bambini, sono temi che ci coinvolgono tuttora dolorosamente, protagonisti o compartecipi dell’esperienza di un’umanità, come quella della nuova immigrazione, che non ci permette di rimanere neutrali.
Ma il titolo ci spinge a guardare anche altrove. Un finestra è aperta su uno spazio che c’è fin dall’inizio del film, muto e indifferente allo sguardo di Aldo e alla vita della borgata, uno spazio "potenziale", che non potrà essere visto finché i due mondi, quello del bambino e quello del padre non si incontreranno, e il luna-park diventerà il luogo di quell’ incontro, dove l’uomo e il bambino cominceranno a volare.
Straordinaria intuizione di Comencini, è quello scambio, in cui Mario dice al papà, mentre si avviano verso gli aeroplanini della giostra: "lo sai che Richetto aveva paura di volare" e il padre: "ma anch’io ho paura.." Mario ha un attimo di esitazione, poi si apre per la prima volta in una fresca risata, e dice "no, tu non hai paura" e insieme prendono il volo. E lì, nasce il gioco, la capacità di "fare finta", il volo della fantasia e del pensiero che si stacca dalla concretezza delle cose, perché esse possano continuare a vivere nella mente…. È il regno del sogno, del simbolo, di cui il padre è garante, e che Comencini ci presenta distinta dall’area dell’illusione, del caldo mondo rassicurante, un po’ indifferenziato, che vede insieme Mario con Richetto e la mamma, ma al di fuori del quale Mario resta un bambino triste, che imita il mondo degli adulti, che fatica ad apprendere e ad accettare le regole. Un bambino senza padre.
Nell’ultima immagine del film, in cui il padre ed il bambino volano alti – che la critica di allora forse non fu in grado di comprendere – scenario interno e scenario esterno paiono ricollegarsi, e il film si interroga se è dal mondo dei bambini, della fantasia e del sogno condiviso, che può nascere la speranza di una ricostruzione possibile.
Febbraio 2012