Antonietta Mescalchin
Solitudine e soggettivazione
La novella di Jensen che ha affascinato Freud e su cui si sono cimentati psicoanalisti, scrittori e artisti, mi ha condotto a formulare alcune riflessioni sulla solitudine che mi è parso essere un elemento comune che unisce i vari personaggi.
Il processo di soggettivazione si realizza attraverso il contatto con l’altro il quale stimola e rende possibili un insieme di esperienze che permettono la costruzione del sé. Ma quando il contatto non è adeguato, sia per carenza, sia per eccesso, possiamo trovarci di fronte a distorsioni o a patologie più o meno significative.
I due protagonisti del racconto di Jensen sono caratterizzati da una esperienza di solitudine e di abbandono durante l’infanzia che li ha chiusi in se stessi. “Non avevo né madre né sorella o fratello” (Jensen 1903, p. 93) e un padre occupato interamente nei suoi studi, dichiara Zoe: per lui ero meno interessante di un “orbettino sotto spirito”. La condizione di solitudine spinge Zoe a idealizzare il compagno dei giochi infantili, mantenendo vivo un intenso affetto per lui, un innamoramento che era rimasto confinato nella sua esperienza passata e nella sua immaginazione dal momento in cui Norbert si era completamente dedicato agli studi di archeologia.
A sua volta Norbert era rimasto solo dopo la prematura scomparsa dei genitori e si era completamente immerso nei suoi interessi, tanto che in lui “era molto vaga la sensazione che, oltre agli oggetti di un lontano passato, ci fosse pure il presente; per il suo modo di sentire, marmo e bronzo non erano minerali inanimati, ma anzi l’unica cosa realmente vivente, ciò che portava ad espressione lo scopo ed il valore della vita umana.” (Jensen 1903, p. 18) Possiamo dire che aveva sviluppato una patologia della soggettivazione, in cui l’agito aveva la prevalenza sul pensato e l’aveva trascinato ad una tale fuga dalle relazioni umane da non riuscire più a riconoscere la compagna dei giochi infantili, quasi in una forma di allucinazione negativa, come se non riuscisse più a vederla anche se presente in carne e ossa.
I due personaggi del racconto si differenziano nella consapevolezza del sentire perché Jensen ci parla di una Zoe conscia della sua solitudine e sofferente mentre Norbert sembra appagato dei suoi studi e dei suoi viaggi alla ricerca dei reperti del passato ed è stupito di sentirsi straordinariamente attratto dal bassorilievo della “giovane dama” che chiamerà Gradiva (colei che avanza) (Jensen 1903, p.7)
Freud, nel suo commento (Freud 1906), rileva come Zoe riesce ad entrare in contatto col delirio di Norbert e successivamente essere un polo di attrazione per farlo uscire. Ma penso che tutto questo possa accadere perché lei stessa ha vissuto qualcosa di simile idealizzando il rapporto che c’era stato con lui nella sua infanzia, nell’epoca in cui si erano incontrate due solitudini. É Zoe che gli permette di uscire dal ripiegamento nella sua realtà interna e che costituisce quella che potremmo chiamare una ‘funzione soggetto’ (Cahn 1998 ) col suo trasporto amoroso verso di lui
Nel momento in cui Zoe comincia a parlare mostra di essere viva e di non essere un prodotto della immaginazione o, come preferisce chiamarlo Freud, del delirio di Hanold. Zoe parlando mostra tutta la sua vitalità e la sua concretezza corporea e non alimenta col suo mutismo le fantasie, i sogni, il delirio e le angosce di morte. È lo stesso Freud che nel suo scritto: “Il motivo della scelta degli scrigni” afferma che “il mutismo debba essere inteso come una raffigurazione simbolica della morte”. (Freud 1913, p. 213) È curioso che sia lo stesso Freud ad inserire la notizia che congiungendo la “Gradiva” con altri frammenti ritrovati ha fatto emergere due tavole di tre figure ciascuna, identificate come le Ore (Freud 1906). È il tema mitico della morte, delle parche, delle tre donne che accompagnano l’uomo durante la vita e che verrà sviluppato ne “Il motivo della scelta degli scrigni”. Zoe rappresenta in questo caso la vita, colei che le è compagna e che allontana “Atropo: l’Inesorabile”.
Il bisogno di intimità è fondamentale in ogni essere umano. Il bisogno di contatto e di tenerezza se non viene sufficientemente soddisfatto nell’infanzia lascia tracce in tutta la vita futura e condanna ad un sentimento di solitudine e ad un rifugio nella vita fantasmatica a scapito di un sufficiente contatto con la realtà. (Fromm-Reichmann 1990 [1959])
Solitudine è un termine molto ampio che indica una condizione di separazione e può avere un duplice significato. In inglese infatti abbiamo due termini che indicano le due diverse accezioni: ‘aloneness’ è uno stato positivo della mente in cui una persona è sola e non sente la sofferenza, anzi è uno star bene con se stessi, uno stato creativo in cui c’è la capacità di stare con l’altro, mentre ‘loneliness’ implica un sentimento di mancanza, di vuoto, di isolamento accompagnato da dolore depressivo, da desolazione e abbandono.
Un prezioso contributo a questi due diversi aspetti del sentimento di solitudine possiamo trovarlo in diversi autori. Freud non dedica alcun lavoro specifico al sentimento di solitudine ma possiamo intuirne la presenza in vari contesti. Nella breve nota “Caducità” (Freud 1916 [1915]) fa cenno all’esperienza della perdita, e soprattutto al dolore che accompagna il lutto, “per lo psicologo… il lutto è un grande enigma, uno di quei fenomeni che non si possono spiegare ma ai quali si riconducono altre cose oscure…ma perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso resta per noi un mistero sul quale per il momento non siamo in grado di formulare alcuna ipotesi.” (Freud (1916 [1915], p. 174-75) Esso può diventare tollerabile solo se si possiede una certa capacità di amare che ha permesso alla libido di dirigersi verso gli oggetti. In altri termini se si è interiorizzato il rapporto con un oggetto buono che può consolidarsi, durante l’infanzia, grazie ad esperienze di perdite e di ritrovamenti positivi nel rapporto con la madre.
“Se qualcuno parla c’è la luce” ci riferisce Freud parlando dell’angoscia di un bambino che aveva paura del buio e chiedeva alla zia di parlare perché questo gli dava la sicurezza della sua presenza anche senza vederla. Freud sottolinea che “Egli dunque non aveva paura del’oscurità bensì sentiva la mancanza di una persona cara, e riusciva a ripromettersi la tranquillità non appena avesse avuto la prova della presenza di essa.” (Freud 1905, p.529) Il bambino ha paura solo se è lasciato solo.
Melanie Klein negli ultimi anni della sua vita ha scritto un lavoro, pubblicato postumo, dove ci parla di un senso di solitudine interiore, di sentirsi soli indipendentemente dalle circostanze esterne, “di sentirsi privi di compagnia anche se si è circondati da amici e da affetto.” (Klein 1963, p. 139) Sembra esserci una valenza negativa nell’esposizione delle sue considerazioni sul senso di solitudine. “Secondo la mia ipotesi, questo stato di solitudine interna è il risultato dell’aspirazione che tutti nutrono per una condizione irraggiungibile, la perfezione interiore. Questa solitudine che in una certa misura tutti sperimentano, nasce dalle angosce paranoidi e depressive, che, a loro volta, derivano dalle angosce psicotiche del bambino. Queste angosce, in misura maggiore o minore, sono presenti in ognuno, ma nei casi patologici lo sono in forma particolarmente violenta. Il senso di solitudine è dunque anche un aspetto delle malattie, tanto di quelle di natura schizofrenica come quelle di natura depressiva.” (ibid. p.139).
Cosa intende Melanie Klein per perfezione interiore? Anzitutto afferma che la solitudine è in stretta connessione al sentimento di “nostalgia per una comprensione che avviene senza l’uso di parole – in ultima analisi per il primissimo rapporto con la madre.” Si tratta della perdita irreparabile della felicità legata alla primitiva relazione con la madre. (ibid. p.141) Ma accanto a questa separazione che comporta una perdita irrimediabile e quindi un lutto per la mancanza, Klein sottolinea che la scissione e la proiezione della fase schizo-paranoide come fonte di sicurezza ha una durata nel tempo per cui si impone la necessità dell’integrazione e di venire a patti con gli impulsi distruttivi. Ma non è facile accettare l’integrazione perché c’è un conflitto tra il perseguire l’integrazione come protezione contro gli impulsi distruttivi e il temerla per timore che quegli stessi impulsi distruggano l’oggetto buono e le parti buone del sé. “Non è mai possibile effettuare l’integrazione in modo completo e una volta per tutte, perché mai scompare una certa polarità tra gli istinti di vita e di morte, che resta invece la più profonda sorgente di conflitto. Se dunque non si può arrivare a una integrazione totale, neanche una comprensione e accettazione completa delle proprie emozioni, fantasie e angosce risulta possibile: ciò costituisce un fattore permanente del senso di solitudine.” (ibid. p.143) Integrazione significa anche perdere, almeno in parte, l’idealizzazione, mentre lo sviluppo del senso di realtà provoca l’indebolimento dell’onnipotenza, però “il bisogno di idealizzare non scompare mai completamente, anche se nello sviluppo normale il far fronte alla realtà interna e esterna tende a farlo diminuire.” (ibid. p.148)
Un altro elemento importante è costituito da uno dei cardini della sua teoria dell’angoscia: la paura della morte. Essa ha un ruolo importante nel senso di solitudine, sia la paura della morte dell’oggetto buono, esterno e interno, a causa degli impulsi distruttivi; sia la paura della propria morte. Il senso di solitudine viene attenuato da una internalizzazione salda del seno buono e quindi dell’oggetto buono che mitiga gli impulsi distruttivi e la severità del Super-Io. Sono importanti le esperienze felici e il fatto di essere in grado di dare e di ricevere amore.“Il godimento è sempre connesso alla gratitudine: se questa gratitudine è un sentimento particolarmente profondo, dà origine al desiderio di ricambiare la bontà ricevuta e costituisce così la base della generosità” (ibid. p. 157) La generosità sta anche alla base della creatività sia nel bambino che nell’adulto. La capacità di provare godimento è molto importante perché allevia il senso di solitudine. Il bambino che si è identificato con il piacere provato da un membro della famiglia, da adulto saprà fare lo stesso e in vecchiaia sarà in grado di identificarsi con le soddisfazioni dei giovani. “Ciò è possibile se si prova gratitudine per i piaceri passati senza troppo risentimento per il fatto di non poterne più godere.” (ibid. p. 158) In conclusione il senso di solitudine non può mai essere completamente eliminato perché la “perfezione interiore” di cui ci parla la Klein è il raggiungimento di una integrazione completa che non è mai interamente possibile visto che i conflitti interni mantengono la loro forza inalterata per tutta la vita.
Winnicott si pone in una posizione diversa pur partendo dalle concezioni della Klein. Per lui esistono due forme di solitudine. Ci dice che all’inizio vi è uno stato di “solitudine fondamentale” che permane durante tutto il corso della vita di un individuo, una solitudine primitiva “intrinseca fondamentale e inalterabile, che si accompagna all’inconsapevolezza delle condizioni essenziali dello stato di solitudine…primo stato che precede l’essere vivi, dove la solitudine è un dato di fatto ed è molto antecedente all’incontro con la dipendenza.” (Winnicott 1988, p.152)
L’altra forma di solitudine è più elaborata e complessa, consiste nella capacità di essere solo in presenza di un’altra persona (che implica la capacità di riuscire a mettersi in relazione con l’altro). Per Winnicott “la capacità di stare solo è un fenomeno altamente raffinato” che può instaurarsi anche nel primo periodo della vita o anche successivamente, ma tale capacità non può prescindere da “l’esperienza di essere solo, da infante e da bambino piccolo, in presenza della madre” (Winnicott 1958, p.31) Se questa esperienza è stata insufficiente, tale capacità non può svilupparsi. In altri termini è una capacità che l’individuo può raggiungere solo se ha fatto l’esperienza di una madre presente in modo attendibile, anche se questo si manifesta attraverso l’atmosfera generale dell’ambiente circostante. Si tratta di una situazione di rapporto tra due persone in cui “la presenza di ciascuna è importante per l’altra”. Se il bambino interiorizza la presenza dell’oggetto assente può vivere la solitudine come una risorsa.
Per Winnicott come per la Klein la capacità di essere solo dipende da un oggetto buono introiettato che dà un senso di fiducia che “offre di per sé una sufficiente pienezza di vita” (ibid. p.33). La fiducia si instaura attraverso una serie di gratificazioni istintuali soddisfacenti, attraverso una madre o un suo sostituto che con la sua presenza dà sostegno all’Io del bambino che “…diventa capace di essere solo senza aver bisogno di far frequente riferimento alla madre o al simbolo materno.” (ibid. p.34) Soltanto quando è solo il bambino può scoprire la propria vita personale, ma ha bisogno di vivere questa esperienza con la partecipazione di qualcuno che è presente e disponibile senza avanzare richieste. Questo processo è alla base della possibilità di sentirsi persona reale perché con il ripetersi di queste esperienze l’individuo costituisce “un ‘ambiente interno, che è qualcosa di più primitivo del fenomeno designato con il termine di ‘madre introiettata’.
Ritornando ai personaggi di Jensen la presenza viva di Zoe sembra permettere a Norbert di calarsi nella realtà, di scoprire il suo mondo affettivo e provare attrazione, gelosia e desiderio di un rapporto con un altro da sé. Norbert è apparentemente contento nel suo isolamento e nella sua solitudine, ma si tratta di una funzione difensiva, mentre in Zoe c’è la consapevolezza della mancanza e la sofferenza della perdita. Da qui può partire la funzione terapeutica soggettivante che si incontra con un Norbert che, pur chiuso nel suo mondo di oggetti inanimati e simile ad un “Archaeopteryx”, comunque non ha perso completamente le tracce di Zoe nella sua mente e su quelle gli è possibile rinnovare e costruire un rapporto.
Bibliografia
Cahn R. (1998). L’adolescente nella psicoanalisi. L’avventura della soggettivazione. Borla, Roma 2000.
Freud S. (1905). Tre saggi sulla teoria sessuale. O.S. F., 4
Freud S. (1906) Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di Wilhelm Jensen. O.S.F. 5.
Freud S. 1916 [1915]. Caducità, O.S.F., 8.
Freud S. 1913. Il motivo della scelta degli scrigni. O.S.F., 7.
Fromm-Reichmann F. (1990 [1959]). Loneliness. Contemporary Psychoanalysis, 26: 305-329
Jensen W. (1903)Freud S. (1906), Gradiva. Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992.
Klein M. (1963) Sul senso di solitudine. In Il nostro mondo adulto ed altri saggi, Martinelli editore, Firenze 2002.
Winnicott D. (1988). Sulla natura umana. Raffaello Cortina Editore, Milano 1889.
Winnicott D. W. (1958) La capacità di essere solo. In Sviluppo affettivo e ambiente. Armando Editore, Roma 1994.