The mirror as falsification of reality in the perverted universe
Psychoanalytic reflections on “The Piano Teacher” by Michael Hanecke
Nel film “La Pianista” di Michael Hannecke (tratto dal racconto The Piano Teacher, della scrittrice austriaca Elfriede Jelinek premio Nobel per la letteratura nel 2004,) si svolge il dramma di una talentuosa insegnante di piano al conservatorio di Vienna, (Isabelle Huppert) che vive con la madre (Annie Girardot) un rapporto morboso e conflittuale, di odio-amore al quale sopravvive grazie ad una doppia vita. Nell’appartamento viennese, con i suoi mobili vecchi e la sua luce fioca che illumina appena i profili, gli specchi antiquati imprigionano le due donne in una dimensione priva di ogni sensualità. Gli stessi vestiti della Huppert, senza tempo e senza colore, nascondono la sua identità e la sua femminilità, e appiattiscono ogni differenza con la madre. Il film è uno spietato, crudele, sconvolgente affresco di un mondo sterile e senza sensibilità, quale è appunto il mondo della perversione. Grazie ad un sapiente uso degli specchi, a una realtà assurda ed inaccettabile le protagoniste sostituiscono la verità di un desiderio “che si camuffa” in “verità di sapere” (Piera Aulagnier , “Il desiderio e la perversione”1967) secondo la capacità del perverso di “inventare la realtà” attraverso la negazione e la scissione. La negazione e la sfida sono le strategie fondamentali dell’universo perverso. Il desiderio di conoscere in relazione alla trasgressione domina questo mondo, ma è un mondo in cui l’agito e l’azione sostituiscono costantemente l’elaborazione di un pensiero. Il perverso crede di essere libero, ma in realtà è sottomesso ad una legge rigidissima, nella quale non c’è alcuna flessibilità sotto l’imperativo : “Godi!” Il perverso vede l’altro come un corpo, un oggetto da cui trarre piacere, ed è devastato dall’urgenza di appropriarsene. Lo scenario psichico del perverso è dominato dal un simbolismo estremo, e da un’altrettanta estrema povertà erotica. La realtà esterna è continuamente sfidata e negata.Il romanzo, e il film, esprimono brillantemente questa realtà, ovvero, soprattutto nel film, una rappresentazione fintamente realistica, e causano nello spettatore un senso di repulsione e rifiuto. Ma questi sentimenti dello spettatore originano proprio dalla negazione della realtà imposta ai sensi della visione dello spettatore, e introducono nel mondo dell’assurdo, dove si alternano senza fine illusione e delusione nella mente intrappolata della protagonista. Cito dal romanzo: “la porta della stanza di Erika è priva di serrature, una figlia non ha mica segreti da nascondere.”
Tre sono a mio avviso nel film i momenti più significativi di questa avvicendamento continuo tra illusione e delusione, sostenuti dalla presenza dalla rappresentazione fintamente realistica del rispecchiamento cinematografico. Lo specchio che dovrebbe rivelare infatti quello che c’è al di là delle intenzioni dei protagonisti, restituendo allo spettatore un punto di vista parallelo, non dissimile dai giochi di rispecchiamento, di illusioni e disillusioni della pittura barocca, non svolge la sua funzione di rappresentazione. La prima scena su cui desidero soffermarmi è quella in cui la madre, Annie Girardot, indossa il cappello davanti allo specchio, e davanti alla figlia con cui continua a parlare. Grazie ad un gioco di dislivellamento dei piani, lo spettatore non può vedere l’immagine riflessa allo specchio, che pertanto riflette esclusivamente i mobili della stanza, privi della persona che vi si sta rispecchiando. La scena dura parecchio, e trasmette un senso di estraniamento, ben noto nella clinica, quando un paziente parla di sé, si mostra come davanti ad uno specchio, eppure, nell’ascolto, hai l’impressione di non vedere nulla. Il paziente non c’è. Lo specchio riflette un’immagine vuota, piena solo dell’apparenza dell’arredamento piccolo borghese dei mobili dell’ingresso. E’ la necessaria scomparsa della persona cui assomiglia e della persona nei cui occhi è solo una somiglianza. Lo specchio riflette qualcosa, che rimane sconosciuto allo spettatore.
Poco dopo un’altra immagine inverte il rapporto specchio/ personaggio. La figlia, Isabelle Huppert, in bagno, usando uno specchietto, si tagliuzza i genitali con una lametta da barba. E’ un’immagine forte, crudele, che noi non vediamo riflessa nello specchio, ma nemmeno nel viso della protagonista che continua a rimanere gelido ed impassibile, impegnata in un giuoco erotico che apparentemente non le procura alcun piacere. Lo specchio anche in questo caso non riflette nulla, semplice strumento di controllo nelle mani della protagonista. Infine la terza scena, quella finale. E’ un lunghissimo piano sequenza, che si svolge nella hall della sala dei concerti tutta rivestita di specchi, che continuamente rimandano un gruppo gioioso, socialmente unito, che si reca a divertirsi. La protagonista invece è sola, disillusa, messa a nudo, abbandonata dal suo amante, e non viene riflessa da nessuno specchio, non esiste più agli occhi del mondo, e ai suoi. Il film termina con l’immagine in primo piano di un’altra scena cruenta. Senza guardarsi allo specchio, questa volta, ma fissando diritta lo schermo e lo spettatore, con un coltello, Isabelle Huppert si colpisce al cuore, a memoria. (in francese par coeur) e , sanguinante, esce dal teatro e di scena. Complessivamente nel film lo spettatore è costantemente frustrato nel suo tentativo di cogliere una dimensione reale dei personaggi, una loro affettività o sensualità, scontrandosi con il pervicace progetto del regista di non mostrare nulla di reale, pur facendo vedere continuamente allo specchio il nulla dell’esistenza dei personaggi. Così facendo lo spettatore è messo nella condizione di essere privato dalla capacità di autonomia della visione, immobilizzato e controllato. Il nocciolo della struttura perversa, che risiede appunto in una costruzione difensiva profonda in cui l’altro, l’oggetto, deve esser costantemente controllato, viene così reso perfettamente. Impedendo la rappresentazione dell’immagine dell’altro e la visione di questa allo spettatore, la protagonista si protegge dall’angoscia di castrazione, dalle fantasie fusionali con la madre e da ogni possibile gioco imitativo di identificazione. Lo specchio che non riflette le immagini perde la sua funzione principale di rappresentazione della realtà, e contemporaneamente toglie allo spettatore l’illusione di riuscire a cogliere, specchiandosi nello schermo cinematografico, qualche aspetto della realtà emotiva della protagonista, che, gelida, si sottrae ad ogni possibile indagine.
The film “The Piano Teacher” by Michael Hanecke (based on the short story of the same title by the Austrian writer Elfriede Jelinek) shows the drama of a talented piano teacher at the Vienna conservatoire (Isabelle Huppert) who experiences with her mother (Annie Girardot) a morbid and turbulent love-hate relationship that she is able to survive by living a double-life. In their Viennese apartment with its old furniture and its dim light that barely lights up their profiles, old-fashioned mirrors imprison the two women in a dimension lacking any sensuality. The very clothes of Huppert, timeless and colourless, hide her identity and her femininity, and level out any difference with her mother. The film is a ruthless, cruel, upsetting depiction of a sterile world devoid of any sensitivity, exactly as the world of perversion. Thanks to a masterly use of mirrors, the protagonists replace an absurd and unacceptable reality with the truth of a desire “that disguises itself” as “the desire to know” (Piera Aulagnier, 1967) according to the pervert’s ability to “invent reality” through denial and splitting. In this continuous alternation between illusion and disappointment, three are the most significant moments underscored by the presence of the artificially realistic representation of cinematographic mirroring. The mirror, which should actually reveal what lies beyond the protagonists’ intentions – thus offering the spectator a parallel viewpoint, not unlike the mirroring games, illusions and disillusions of baroque painting – does not have a representation function.
The perverse imagery working under the surface of a seemingly normal way of life is represented in the cinematographic reality through the shifting of the two planes of the representation: the real one and the one reflected in the mirror. The internal reality of the perverted world is the one reflected by the mirror, simultaneously present with the external reality placed in front of the mirror, which is constantly dissymmetrical with its reflection in the mirror. The first scene I would like to dwell upon is the one in which the mother, Annie Girardot, is putting on her hat in front of the mirror as well as in front of her daughter with whom she keeps on talking. Thanks to an effect of plane shifting, the spectator is not able to see the image reflected in the mirror, which therefore only reflects the furniture in the room, without the person who is mirroring herself in it. The scene is quite long and conveys a sense of estrangement, which is well known in clinic, when a patient talks about himself, showing himself as if in front of a mirror, yet listening to him one has the impression of not seeing anything. The patient is not there. The mirror reflects an empty image, which is only filled with the appearance of the petit-burgeois furniture of the entrance. It is the necessary disappearance of the person that looks like him and of the person in whose eyes he is only a resemblance. The mirror reflects something that is unknown to the spectator.
Soon after another image reverses the mirror/character relationship. The daughter, Isabelle Huppert, is in the bathroom and using a hand-mirror is cutting up her genitals with a razor blade. It’s a strong, cruel image that we don’t see reflected in the mirror, or in the protagonist’s face which remains icy and impassive, while she is engaged in an erotic game that does not seem to give her any pleasure. Also in this case the hand-mirror does not reflect anything, it is just a control tool in the hands of the protagonist. At last the third scene, the final scene. It is a very long single take shot in the mirror-covered lobby of the concert hall. The mirrors continuously reflect a joyous, socially close-knit group that is going out and having fun. The protagonist instead is lonely, disillusioned, laid bare, deserted by her lover, and she is not reflected by any mirror, she does not exist any longer in the eyes of the world, and in her own eyes. The film ends with a close-up of another blood scene. Without looking at herself in the mirror, but, this time, staring straight at the screen and at the spectator, Isabelle Huppert stabs her heart by heart (par coeur in French) with a knife and, bleeding, goes out of the theatre and disappears. On the whole, the spectator is constantly frustrated in his attempt to grasp a real dimension in the characters, an affectivity or sensuality, because he collides with the director’s stubborn project of not showing anything real, although he keeps on showing the nothingness of the characters’ existence in the mirror. So the spectator is put in a condition in which he is deprived of his autonomy of vision, he is immobilized and controlled. The core of the perverse structure, which lies in a deep-seated defensive construction in which the other, the object, must be constantly controlled, is thus perfectly rendered. Preventing the representation of the other’s image and preventing the spectator to see it, the protagonist protects herself from castration anxiety, from her fusional phantasies with her mother and from any possible imitative game of identification. The mirror that does not reflect any image loses its main function of representing reality, and, at the same time, deprives the spectator, who is mirroring himself in the screen, of the illusion of being able to grasp some aspect of the emotional reality of the protagonist who, as icy as ever, escapes any possible investigation.