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Legami, Identificazioni e Trasformazioni antropologiche: dalle migrazioni alle nuove generatività – D. Scotto di Fasano

20/11/15

Proponenti: Daniela Scotto di Fasano e Virginia De Micco con Vanna Berlincioni, Riccardo Chiarelli, Clelia De Vita, Simonetta Diena, Laura Montani, Barbara Piovano, Cosimo Schinaia.

(Report a cura di Daniela Scotto di Fasano)

Premessa: Come nasce Geografie della Psicoanalisi.

Il Gruppo di Ricerca Geografie della Psicoanalisi, del quale è referente la dott.ssa Lorena Preta, prende le mosse nel 2013 dal titolo del numero omonimo di Psiche 1/2008, per articolarsi in una ipotesi più ampia sul tema Forme di Vita, attorno al quale esplorare le tematiche “Sessualità, Dipendenza, Limite”, all’interno di un dialogo dedicato prevalentemente al confronto Occidente – Oriente. L’ipotesi organizzativa, oltre a prevedere momenti di presentazione del progetto in ambiti nazionali e internazionali, si è articolato in due gruppi di ricerca, attivati nei due Centri di Roma e nel Centro di Milano, che si sono incontrati mensilmente nelle sedi locali e, alcune volte, a livello nazionale a Milano, Firenze e Roma. Il lavoro del Gruppo di Ricerca confluisce in  questa proposta ai Seminari Multipli e nella Giornata La psicoanalisi nel mondo –  Incroci tra culture di Sabato 3 ottobre 2015, organizzata a Roma con l’Università Luiss Guido Carli.

Geografie della Psicoanalisi

“Geografie della Psicoanalisi” è il titolo del numero di Psiche (1/2008, in SPIWEB) volto a esplorare il confronto tra le ‘molte psicoanalisi’ operanti oggi nel mondo. La versione interamente tradotta di quel numero è stata presentata al Congresso IPA di Pechino (23/25 ottobre 2010), a testimonianza dell’interesse che il tema riveste per le Società Psicoanalitiche internazionali.

Il Seminario Internazionale Geografie della Psicoanalisi (Pavia, 6 ottobre 2012, in SPIWEB e in IPAWEB) (al quale hanno partecipato Maurizio Balsamo, Fethi Benslama, Vanna Berlincioni, Livio Boni, Marco Francesconi, Gohar Homayounpour, Fausto Petrella, Lorena Preta, Daniela Scotto di Fasano), ha rappresentato la prosecuzione del lavoro di Psiche, configurandosi, come fu dichiarato in quell’occasione, come il primo di una serie di incontri tesi ad approfondire le tematiche connesse al contatto della psicoanalisi con culture diverse.

Infatti il 16/17 ottobre di due anni dopo è stato realizzato a Teheran il Convegno Geographies Of Psychoanalysis/Encounters Between Cultures (al quale hanno partecipato Tiziana Bastianini, Felix De Mendelsson, Sophie de Miijolla-Mellor, Anna Ferruta, Alfredo Lombardozzi, Gohar Homayounpour, Mariano Horenstein, Sudir Kakar, Lorena Preta, Silvia Ronchey), i cui atti sono stati pubblicati nel libro presentato al Congresso I.P.A. 2015 (Boston, luglio 2015): Geographies of Psychoanalysis / Encounters between Cultures in Tehran, Edited by Lorena Preta, Mimesis International.

  

Il contatto con le differenze tra le varie culture può risultare a volte molto inquietante, producendo anche chiusure e fraintendimenti. Le conseguenze, per la psicoanalisi, possono pertanto risultare impegnative, in particolare sul piano clinico. Inoltre, dobbiamo chiederci cosa sopravvive della teoria psicoanalitica una volta messa a confronto e contatto con culture estremamente lontane.

In effetti si tratta soprattutto, come scriveva Lorena Preta nell’editoriale di Geografie della Psicoanalisi, di interrogarci sulla eventuale universalità degli assunti che usiamo per pensare e organizzare la realtà, e, al contempo, sulla loro traducibilità, tenendo ben presente che importazioni e innesti di culture rischiano di assumere un’impronta colonialista.

A cartografare contrade a venire (Deleuze) siamo chiamati come psicoanalisti in un mondo dominato dalla tecnica, dove i veri e propri stravolgimenti nell’uso del corpo, i cambiamenti delle organizzazioni familiari/di gruppo e il ricorso a violenze inaudite costringono ad assumere vertici inediti e diversi nei diversi contesti. Ne consegue che anche le risposte e la funzione stessa della psicoanalisi possono assumere caratteristiche diverse nei vari paesi. Da qui la nostra proposta per questo seminario, dove, attraverso una rassegna della letteratura e l’esposizione di materiale clinico, ci si propone di approfondire la riflessione su due temi in particolare: Generatività e Migrazioni. Come sottolinea L.Montani, la questione della generatività attraversa le culture mettendone sempre in tensione il senso, se non lo si vuole ridurre al biologico. In effetti, come ancora nota Montani, c’è il rischio che il tema delle migrazioni finisca per offuscare e togliere corpo e spazio a quello della generatività, un tema che, come lei nei suoi contributi ha cercato di mostrare, va inteso nella sua relazione con il nuovo (da non confondere con attuale) che si genera e si sta generando.

Infatti, come analisti, dobbiamo riflettere sul fatto che, accanto alla sofferenza di un’umanità umiliata e offesa,  si delineano nuove forme  di soggettività, non riducibili esclusivamente al piano della patologia; il riferimento è al “dire no” alla maternità, intesa in senso strettamente biologico, e alla possibilità di  psicoanaliticamente “dire si” a forme più complesse del generare.

La sfida a confrontarci con la complessità (Prigogine) è raccolta da S.Diena, che si interroga su quale soggettività esprima il calo del desiderio di maternità registrato oggi in Occidente. Si tratta di ripensare la formazione stessa della soggettività? Nota V.De Micco che analizzare la dimensione della soggettività nei transiti migratori obbliga a trovare strumenti per pensare il transito, il passaggio e, contemporaneamente, le trasformazioni identitarie che la dimensione del ‘transito’ comporta: le oscillazioni identitarie di cui ha detto C.Schinaia. Si attiva una profonda precarietà di quei referenti metapsichici e metasociali (Kaes) che ‘stabilizzano’ istanze rimoventi, strutture narcisistiche e catene genealogiche, determinando così una acuta instabilità delle configurazioni costruttrici di legami e di senso. Alla luce del transito migratorio che ne è, dunque, della funzione materna porta-parola, delle cruciali questioni dell’originario, della trasmissione transgenerazionale e della funzione paterna contesa tra rappresentanti dell’ordine simbolico originario e di quello adottivo? Come ri-pensare la nozione di ‘confine’ e di ‘lavoro sui confini’ psichici, relazionali e culturali? Vi riflettono nei loro contributi V.Berlincioni, R.Chiarelli, C.De Vita e B.Piovano, che, a partire dalla clinica, interrogano il lavoro di ‘stress’ cui è esposto il migrante sul piano della conservazione/trasformazione della propria identità (funzionale/disfunzionale quando non francamente deformata dal contatto con la nuova cultura).

Soggettività e transiti migratori

di Virginia De Micco

Analizzare la dimensione della soggettività nei transiti migratori richiede di trovare strumenti per pensare il transito e, contemporaneamente, per ri-pensare la formazione della soggettività anche in funzione del ‘transito’.

Occorre dunque esplorare sia i contributi che la psicoanalisi può apportare alla conoscenza del fenomeno migratorio, sia ciò che l’incontro con i migranti obbliga a ‘rimettere al lavoro’ (Laplanche) nella teoria e nella clinica psicoanalitiche. Cimentarsi con la migrazione consente di ‘pensare fino in fondo’ alcuni assunti analitici, saggiando al contempo le possibilità di un sapere analitico che tiene conto strutturalmente, nelle sue modalità di pensiero e di intervento, delle variabili culturali. Il nesso strutturale tra psiche e cultura viene ripensato a partire da quella ‘condizione antropologica fondamentale’ (Laplanche) in cui nasce il soggetto umano, per come essa è rivissuta nell’esperienza migratoria, non a caso assimilata da Leon e Rebeca Grinberg ad una esperienza di ‘ri-nascita’. In particolare si tratta di comprendere come diversi ancoraggi simbolici e culturali possano confluire nella costruzione del senso di identità individuale nelle ‘seconde generazioni’ di migranti. Nei transiti migratori si attivano precarietà e trasformazione di quei referenti metapsichici e metasociali (Kaes) che ‘stabilizzano’ istanze rimoventi, strutture narcisistiche e catene genealogiche, costruttrici di legami e di senso. La relazione primaria risente profondamente di tali effetti destabilizzanti  ed è qui che si annidano le fratture più profonde e nascoste del fenomeno migratorio. Ripensare la funzione materna porta-parola alla luce dei transiti migratori, così come le cruciali questioni dell’originario, della trasmissione psichica e culturale transgenerazionale e della funzione paterna, costituisce aree di fondamentale interesse, mentre diventa centrale la nozione di ‘confine’ e di ‘lavoro sui confini’, sia psichici che relazionali che culturali.

Dunque, piuttosto che di una psicoanalisi ‘applicata’, si tratta di delineare le coordinate di una psicoanalisi ‘implicata’ nelle trasformazioni antropologiche del nostro tempo, capace di ‘pensarle’ fino in fondo proprio a partire dal suo ‘fondo inattuale’ . Innanzi tutto perché il sapere psicoanalitico è in grado di svelare quel ‘rovescio inconscio’ dei fenomeni sociali (Assoun), che ne costituisce sempre la verità più profonda e ‘occultata’. Inoltre, perché è proprio la costitutiva condizione di Hilflosigkeit dell’umano a segnarne la fondamentale ‘storicità’, ovverosia la dipendenza assoluta dalle ‘forme storiche’ e, quindi, dalle trasformazioni culturali. Il transito migratorio impone quindi di situarsi in una dimensione di passaggio, in una vera e propria dimensione ‘transizionale’: per i migranti che si ritrovano “a mezza parete” (Risso) bisogna pensare ad una continua ‘negoziazione’ interna tra dimensioni multiple dell’origine e dell’appartenenza.

Il Seminario, introdotto da Scotto di Fasano e da De Micco, ha prodotto un confronto vivace, al quale hanno contribuito con interesse tutti i partecipanti. Un esito positivo è costituito dall’ingresso nel gruppo di lavoro di due nuovi membri, Luca Caldironi e Marco Conci.

La discussione ha preso il via da una riflessione sul significato ‘allucinatorio’ dei concetti culturali che utilizziamo senza esserne consapevoli per ‘pensare’ l’altro e noi stessi.

Il discorso è quello della storia, per come può declinarsi:

-in primo luogo, a partire dal fatto che ‘quella è la tua terra’, la domanda che ne consegue e sulla quale si dovrebbe lavorare, è la seguente: dove sono le ‘tue storie’? Di questo aspetto si occupa, come ci ricorda Schinaia, anche Salvini.

-In secondo luogo, se è vero che la storia ‘satura’, è però altrettanto vero che dà identità.

 Proprio a partire da tali considerazioni, riflettiamo su un aspetto ‘duro’ dell’identità in funzione di un ‘pre-testo’ offerto dal fatto che, in Iran, le operazioni utili ai transgender per cambiare identità sessuale sono molto più favorite che nel resto del mondo poiché in tal modo si ‘cancella’ l’omosessualità: l’omosessualità si ‘vela’?

E, a proposito del velo, ci interroghiamo su quale possa essere in Occidente il nostro burka; si ipotizza: truccarsi?

Poi si ascoltano i lavori preparati per l’incontro, consultabili per chi lo desidera in spiweb.

A Vanna Berlincioni si chiede di specificare nella versione riveduta per spiweb da quanto tempo Mokhtar (il pz di cui è detto nel contributo di Berlincioni) e la moglie fossero in Italia al momento dell’esordio di Mokhtar. Si richiede tale approfondimento in funzione delle fantasie dei coniugi sul bambino che desidererebbero concepire, il quale è probabilmente vissuto come colui che dovrebbe aiutarli a stare meglio in Italia. Libera Comandini ci fa riflettere sul fatto che la moglie del paziente (che si veste all’occidentale) è soggetta a una doppia protezione (e quindi di un doppio controllo) in quanto parente del coniuge, essendo figlia del fratello del padre di Mokhtar. La protezione/controllo della famiglia delmarito e la protezione/controllo della propria famiglia.

Di Riccardo Chiarelli è la osservazione che in tutte le lingue  c’è concordanza delle labiali – mmmm – per il termine ‘mamma’; Chiarelli collega tale osservazione al fatto che il bebè oggetto della sua Infant Observation fa questo verso ogni volta che la madre esce dal suo campo visivo e si chiede se tale verso non possa farci pensare al bisogno di incorporare (tener dentro) la madre-oggetto-assente. Gli suggerisco di approfondire tale idea in A.Ciccone e M.Lhopital, La nascita alla vita psichica (Borla 1994) alla voce incorporazione-introiezione.

Con Marco Conci lo sguardo si sposta sul suo lavoro in Germania con pazienti italiani.

Dal contributo di Clelia De Vita il discorso approfondisce, a partire dalla relazione madre-bambina del caso da lei presentato, il modo in cui la scissione tra madre buona e madre cattiva, della teoria kleiniana, possa nel vissuto materno essere accentuato in un polo o nell’altro dal ‘comportamento’ della figlia.

Con Simonetta Diena il gruppo si interroga sull’intrigante rilevazione del fatto che tra ginecologi, sociologi e neonatologi l’uso del termine ‘fertilità’ è usato per dire ‘natalità’. Potrebbe avere senso pensare a un contributo psicoanalitico su tale questione.

Inoltre, ci chiediamo perché mai oggi sia diffusa l’idea che la felicità debba essere data per ‘scontata’.  

Barbara Piovano nel suo contributo porta il gruppo a lavorare su come possa accadere (come nel caso da lei presentato, di un  ragazzo adottato), che gli oggetti cattivi possano essere libidicamente investiti, generando, in  tal modo, nel soggetto una confusione pervasiva tra buono e cattivo.

Con Andrea Baldassarro, il discorso nel corso del seminario si approfondisce come segue. “La geografia, o meglio le diverse geografie – a seconda dei tempi e dei “cartografi” che l’hanno disegnata -, si sono sempre incrociate con la storia e con le storie: un vincolo inseparabile le tiene insieme, il loro destino è sempre in qualche modo condiviso. Dunque, anche nel parlare di “Geografie della psicoanalisi” non si può non pensare a un discorso sulla storia, non foss’altro perché la storia della psicoanalisi si è sempre incrociata con la geografia psicoanalitica, con trasmigrazioni, spostamenti, emigrazioni da una nazione a un’altra, da un continente ad un altro. Cambiamenti geografici che si sono rivelati sempre determinanti per il suo sviluppo e la sua evoluzione, per la sua storia. Sin dagli albori, con l’introduzione delle regole per la formazione degli analisti (1) nella neonata Associazione Internazionale di Psicoanalisi, la storia della psicoanalisi comincia con una migrazione: Hanns Sachs si spostò da Vienna a Berlino a seguito della decisione dell’Istituto di Berlino, nel 1923-24, di regolamentare la formazione degli analisti, saggiamente evitando di far coincidere analisi di formazione e supervisioni. Ma tutta la storia della psicoanalisi, sin dall’inizio, è una storia di migrazioni: non solo da Vienna ai paesi confinanti, è anche una storia di spostamenti “obbligati”, dovuti alla diaspora ebraica verso l’Inghilterra, e soprattutto verso gli Stati Uniti. Una storia che si incrocia sempre con la geografia, dunque, che non è mai stata forse scritta del tutto, almeno da questa prospettiva. E questo è un compito che andrebbe forse realizzato in un futuro prossimo. Oggi ci chiediamo cosa avverrà nel movimento attuale di spostamento soprattutto verso est, verso l’oriente del mondo conosciuto, cosa sarà di una psicoanalisi che migra in primo luogo verso i Paesi arabi e l’Asia: cosa sarà del suo destino e delle sue trasformazioni a seguito delle inevitabili contaminazioni che ne deriveranno, cosa sarà delle sue forme di sapere, di conoscenza e finanche di quelle di intervento clinico, nonché di elaborazione teorica, dopo l’incontro con culture storicamente e profondamente diverse da quella occidentale, che ha dato i natali alla psicoanalisi: insomma, non solo quale sarà, – o qual è già – la psicoanalisi che si eserciterà, si praticherà e si elaborerà nel Medio-Oriente e in Oriente, ma soprattutto quale sarà la psicoanalisi di ritorno, quella con la quale dovremo necessariamente fare i conti negli anni a venire. Ad esempio, com’è, come sarà la psicoanalisi praticata in Cina, inevitabilmente destinata ad intessere la sua pratica e le sua acquisizioni teoriche con una cultura orientata a forme di sapere così diverse (Bollas). Un movimento migratorio c’è già stato – ancora Freud vivente – verso i paesi anglosassoni, soprattutto verso gli Stati Uniti, una migrazione verso occidente dunque, che aveva già comportato una profonda trasformazione della psicoanalisi: l’incontro con una cultura nuova, frutto di un meticciato culturale che andava affermandosi nel mondo e con un’economia in espansione, ha dato luogo non a caso a una psicoanalisi assai diversa da quella delle origini, e che ha comunque avuto un grande forza di penetrazione in un movimento di ritorno in Europa. Una psicoanalisi centrata inizialmente, non a caso, sull’adattamento, tema fondamentale in una società come quella americana che accoglieva individui, popoli e genti così diverse che non potevano non porre il problema di un’integrazione comune, e dunque proprio di un adattamento alle condizioni che andavano sviluppandosi. E questa psicoanalisi ha dato luogo a diverse derivazioni in America ma anche a diverse opposizioni in Europa, a iniziare dal cosiddetto “ritorno a Freud” di Lacan. Ma allo stesso tempo la psicoanalisi americana ha esercitato, e continua a esercitare, una profonda influenza sulla nostra psicoanalisi, su quella europea e soprattutto su quella italiana. Basti pensare a come molte psicoanalisi d’oltreoceano si sono succedute ed hanno costituito delle vere e proprie parole d’ordine per la nostra psicoanalisi: dalla psicologia del Self di Kohut al più recente intersoggettivismo, alcune forme del sapere psicoanalitico, sorte in contesti ed in culture molto specifiche e diverse, hanno finito per esercitare una influenza profondissima sul nostro stesso modo di pensare e di lavorare analiticamente. La propagazione e la diffusione di pensieri, idee, concetti, è oggi oltretutto profondamente influenzata anche dai mezzi di comunicazione e dai modi che questi consentono, o impongono: velocità, superficialità, approssimazione, sono tutte caratteristiche legate allo sviluppo impetuoso delle nuove tecnologie, e del funzionamento di internet soprattutto. Ed anche al potere che a esse è associato, insieme al potere economico, che non a caso si è rapidamente spostato in questi anni proprio verso oriente.

Dunque, la domanda dovrebbe allora essere: cosa sarà di una psicoanalisi non più solo influenzata, come nei decenni passati, dalla preminenza della cultura anglosassone e americana, ma dalle culture dell’oriente? Quale sarà la psicoanalisi di ritorno, che magari si imporrà da noi anche per motivi economici? E qual è la storia che andrà scritta, accanto alla geografia che si sta sviluppando? Dove ci porterà il processo di integrazione, di contaminazione e di meticciamento delle psicoanalisi nel mondo?”

(1) Regole in gran parte tuttora in vigore, ma che proprio in questi tempi denunciano la loro vetustà, e che richiedono uno sforzo supplementare per conservare il potere euristico della psicoanalisi per un verso, e la capacità di includere le inevitabili trasformazioni dell’epoca attuale dall’altro.

Nei giorni successivi poi, sull’onda dell’interesse della discussione realizzata nel corso del seminario, Luca Caldironi, Simonetta Diena, Lorena Preta, Alfredo Lombardozzi e io stessa abbiamo sentito il bisogno di approfondire ulteriormente alcune questioni.

Tali note di seguito.

– Luca Caldironi (considerazioni su un piccolo apporto personale)

Riflettendo sull’esperienza all’interno del gruppo ‘geografie della psicoanalisi’ mi sono accorto di procedere seguendo due binari. Uno, più informativo, forse favorito dal fatto di una certa attenzione alla novità ed uno più emozionale, probabilmente dato da una aspettativa più fiduciosa rispetto al gruppo. Questa visione, diciamo ‘binoculare’ ha consentito, sia un favorevole scambio di conoscenze che un buon terreno emotivo su cui seminare ed approfondire questi temi. Quale più bella e feconda accoppiata di eventi può caratterizzare un ‘semen-arium’!

A queste considerazioni più generali affianco un breve apporto che ho sentito di condividere con i colleghi durante la discussione. Si tratta di qualche riflessione stimolata dalla presentazione clinica di Simonetta Diena, ma ovviamente nata anche dal clima che si stava vivendo assieme. Andando più nello specifico questo intervento tenta di cogliere la differenza tra ‘sogno’, come espressione individuale e ‘mito’ come espressione di una narrazione condivisa all’interno di un particolare ambiente culturale. Non che questo rappresenti una grande novità, ma, declinato all’interno del caso presentato, ha consentito di riflettere su elementi che, entrambi appartenenti all’area C della griglia di Bion, acquisivano una loro ulteriore importanza attraverso anche i loro tratti differenti. Di differire, cioè, come ha successivamente ben precisato Lorena Preta, tra i significati che le ‘cose hanno per sé’ (il soggetto), dal significato che le ‘cose hanno in sé’. L’approfondimento di questa tematica ha avuto un risvolto bibliografico nel libro di Gananath Obeyesekere ‘The Work of Culture’, e nei testi di Corrao in cui si distingueva tra sogno, mito, mitologhema ed archetipo.

– Simonetta Diena

Come vi avevo accennato, dopo l’incontro a Bologna ho avuto non poche riflessioni, non diversamente che per molti di noi. Ma due mi hanno colpito, e vorrei sottoporvele, soprattutto in questi giorni, in cui assistiamo attoniti a quello che sta accadendo nelle nostre stazioni e alle nostre frontiere.

Quando ero piccola, e frequentavo la Scuola ebraica di Milano, miei compagni di scuola erano i molti profughi dai paesi arabi (soprattutto Egitto) che la guerra del Canale di Suez aveva generato. (Forse non molti sanno che ai tempi, nel 1956 Nasser diede un ultimatum di 24 ore alla comunità ebraica di lasciare l’Egitto, e la Comunità ebraica internazionale organizzò delle navi dirette in Italia e in Brasile, nel giro appunto di poche ore.) Però a nessuno di noi , né italiani né egiziani, o, poco dopo libici (stessa vicenda con Gheddafi) venne in mente che fossimo differenti, che non fossimo tutti bambini della stessa classe e scuola. C’erano i persiani, gli egiziani, gli italiani, i libici, i libanesi. Tutti integrati, alcuni divenuti poi di grande successo in Italia o nel mondo (Nouriel Rubini, Gad Lerner, Emanuele Fiano, Gioele Dix , faccio dei nomi a caso). Perché non si sentivano loro e non li abbiamo sentiti noi differenti? Emigrati? Siamo ancora molto amici tra di noi, ci frequentiamo, abbiamo scambiato cibi differenti, abitudini diverse, coinvolto genitori e figli in matrimoni misti. Ma ci sembrava, e me ne sto accorgendo solo in questi giorni, normalissimo.

Seconda domanda: molti nostri figli oggi vivono, lavorano o studiano all’estero, in America, in Inghilterra, a Berlino, a Parigi, e anche più lontano.

Non si considerano loro degli emigranti, come forse erano stati dei loro nonni o bisnonni, nel semplice spostarsi dalla Sicilia a Torino. Non li consideriamo noi emigrati, anche se poi non siamo sicuri che torneranno a casa. Spesso vivono per molti anni all’estero, in comunità cosmopolite, in ambienti di lavoro global, connessi con amici a loro volta residenti all’estero. Si spostano con facilità, si adattano senza accorgersene a usi e costumi differenti. Li andiamo a trovare con tranquillità, come tanti altri amici. Gli aeroporti delle low cost sono pieni di questi ragazzi in transito, e dei loro genitori. Domanda: cosa rende diversi questi emigranti, che ugualmente ci sembrano e si sentono, normalissimi?

Lo so che a volte abbiamo pazienti che sono in analisi proprio per questo spaesamento, ma a volte basta che si siano spostati dal paesino veneto a Milano, è il lasciare casa che importa, è l’angoscia abbandonica che scatta. In passato era il servizio militare a dare questi episodi, a volte.

Insomma, cari geografi, come è che a volte siamo così globali e a volte così locali?

E’ solo il censo a fare la differenza? O ci sono altri fattori?

Per rivitalizzare il dibattito e per avere delle risposte a delle domande personali….

-Lorena Preta:

Non è quesito banale certamente. D’altronde ci sono importanti studiosi che negli ultimi anni si sono occupati di questo tema che è riassumibile nel termine “glocalismo”, come Appiah, Bauman, Friedman solo per citarne alcuni che sarebbe interessante discutere.

Riporto qui sotto per facilità e brevità, una definizione da un sito di un’Associazione che si occupa proprio di questo. Meglio sarebbe avendo tempo andare alle fonti che sono veramente tante, anche in Italia. Penso per esempio a Sebastiano Maffettone, Giacomo Marramao e altri.

“Cos’è il glocalismo

Nuove mobilità, nuovi linguaggi e nuove forme di aggregazione:

questo è il prodotto della svolta epocale determinata dall’innovazione tecnologica.

Nella storia dell¹Associazione Globus et Locus, il filo rosso che lega tutte le esperienze, le riflessioni e le progettualità, è il glocalismo.

Anche se fino a pochi anni fa, la portata di questo fenomeno non era ancora ben evidente a tutti, il glocalismo è un dato empirico che non può essere messo in discussione.

Questo termine è stato introdotto dagli studi di sociologi come Roland Robertson e Zygmunt Bauman per indicare i fenomeni derivanti dall’impatto della globalizzazione sulle realtà locali e viceversa.

Oggi, non esistono luoghi che non siano in misura crescente attraversati da flussi globali di varia natura, né flussi globali che non siano declinati secondo le molteplici particolarità dei luoghi.

La glocalizzazione è dunque una svolta epocale, determinata dal mutamento dei paradigmi organizzativi del mondo e della società, soprattutto per effetto dell’innovazione tecnologica,  che ha profondamente cambiato il nostro modo di rapportarci ai concetti  di tempo e di luogo. Oggi l’uomo sta sperimentando la scoperta dell’opportunità di vivere in un contesto dominato dalla mobilità, delle persone, delle cose e dei segni.

Nel passaggio da un mondo inter-nazionale a uno glocal,  è stata proprio la nuova concezione della mobilità a modificare profondamente tutta una serie di parametri concettuali ai quali eravamo abituati, fra i quali l’idea di cittadinanza, di appartenenza, e di nazionalità (e dunque anche del concetto stesso di relazioni inter-nazionali).”

– Alfredo Lombardozzi:

le riflessioni-domande di Simonetta Diena sono molto interessanti. Mi sembra riguardino le diverse forme di estraneità/familiarità in un mondo globalizzato, che tende da un lato al formalismo conformistico e ‘globalizzante’ da un alto e, dall’altro’, come diceva Lorena, riportando citazioni attinenti,  a fenomeni di glocalizzazione, che Marramao ed altri hanno ben descritto come fenomeni di ‘crasi’ (quasi linguistica) tra globale e locale, che consentono alla dimensione locale di non sottostare alla preponderanza del globale ma, piuttosto,  di aderirvi in forme sincretiche o, alternativamente, mimetiche. Sono processi complessi sul piano psicologico e della critica storica e, consequenzialmente, delle mitologie che ne originano. Tu fai due domande fondamentali attinenti alla tua esperienza personale di tipo autobiografico in una particolare situazione storica con particolari emergenze psicologiche con riferimento a fattori inconsci isomorfi a quelle condizioni e, poi, fai alcune notazioni riguardanti i giovani, spesso nostri figli o conoscenti giovani, che si trovano in un mondo che si presenta in forme globalizzate, ma che poi non rispondono ai bisogni previsti, semmai inducono a esperienze imprevedibili nel processo identitario del giovane che stenta a riconoscersi in quella dimensione a volte forzatamente globale. Siamo molto suggestionati anche dai processi drammatici, se on tragici, dei migranti che affilano oggi i nostri, mari, le nostre coste, fino alle nostre stazione o aree di confine (Ventimiglia). Mi permetto di notare che non dobbiamo cadere nella tentazione di unificare il tipo di vissuto del migrante che vive queste condizioni e e il giovane costretto sia per impossibilita di prospettive future in Italia, sia per aspettative familiari, a ‘emigrare’ in condizioni di studio e specializzazione in paesi europei accreditati o in America. Se da un certo punto di vista entrambi i protagonisti di queste vicende soffino di processi soggettivi di delocalizzazione e dispersione che implicano l’angoscia per una speranza per il futuro, ci sono anche radicali differenze nel tipo di esperienza delle forme di sradicamento che comportano. La sofferenza psico-culturale dei nostri giovano costretti a cercare soluzioni possibili per la loro realizzazione all’estero riguarda una crisi tutta interna alla nostra condizione sociale e di valori, la condizione dei migranti che oggi si mostra in tutta la sua tragedia di un esodo di dimensioni epocali è il risultato di conflitti endogeni a quelle società e culture estremamente accentuati e resi tragici dalle politiche coloniali e postcoloniali di sfruttamento dell’occidente su quelle popolazioni e culture, che se da un alto dal lato sono  espressione di un  potere che si realizza nel fondamentalismo dei valori,dall’altro si esprimono nella disperazione di popoli senza una loro collocazione e individui vittime della recrudescenza di forme di potere intollerabili e di posizioni razziste e ‘protezioniste’ dall’altra, di un occidente che non  si prende assolutamente carico del proprio ruolo nell’aver determinato questo disastro che non c’è alcun mdi di arginare se non nella ridefinizione delle funzioni e dei ruoli della varie nazionalità che devono, però, a riguardo, cedere il passo a soluzioni e formulazioni più adeguate.

-Daniela Scotto di Fasano

la proposta di riflessione di Simonetta Diena ha illuminato aspetti della mia origine che finora, a dispetto di 2 analisi, erano rimaste blegerianamente ambigue.

Io ho un’origine ‘eccentrica’ da parte di madre e padre; nessuno di noi 4 (ho una sorella) è nato in Italia e nessuno nello stesso stato: mio padre a New York, mia madre a Rodi, io a Asmara e mia sorella a Mogadiscio. A Mogadiscio sono arrivata all’età di due anni e vi ho fatto asilo, elementari e prima media, in classi dove l’atmosfera era come quella descritta da Simonetta: vi eravamo sempre un po’ italiani, un po’ somali, un po’ indiani, un po’ inglesi, un po’ americani. In quinta elementare è stato introdotto lo studio obbligatorio dell’arabo, assunto come lingua nazionale somala all’indipendenza della Somalia, che non ne aveva una propria. Lingua che ho amato molto, l’unica lingua straniera che non ho faticato ad imparare…. Mi piaceva tantissimo guardare da destra a sinistra per leggere/scrivere, mi piaceva che solo dei puntini declinassero significati e suoni diversi….

Al rimpatrio, l’Italia mi pareva asfittica, per strada un’unica lingua, in classe tutti uguali… A casa si mangiava somalo, greco, arabo, indiano, regionale italiano… A New York, avevo provato la cucina cinese, sulle navi quella francese, e quella cd internazionale… Mia madre, come tutti i suoi parenti, parla perfettamente 4 lingue e 1 (il turco) pressapoco….

Ma dove voglio arrivare? Al fatto che la famiglia di mia madre, del ceppo turco ortodosso, dovette scappare da Antalia perdendo assolutamente tutto tranne una manciata di gioielli, essendo armeni e ortodossi perseguitati dal dittatore turco. La famiglia di mio padre, invece, era ‘raminga’ per scelta, mio nonno armatore aveva conosciuto la moglie in America, dove lei era nata e cresciuta, al punto che non sapeva parlare italiano. Così americana che, rimasta vedova, ha preferito tornare a New York piuttosto che restare in Italia: le mancava l’ambiente cosmopolita e disomogeneo, prezioso proprio per questo.

Allora: la differenza tra i giovani di cui parla Simonetta (che a me evoca la famiglia di mio padre) e i ‘migranti’ è il fatto di NON POTER SCEGLIERE tra andare/restare dal momento che ALTRI decide per te: un dittatore, la fame, la miseria…. Non solo di censo si tratta (certamente anche) ma soprattutto di chi sceglie: tu o qualcuno per te? Scusate per queste confidenze, ma l’ambiente descritto da Simonetta mi ha evocato il piacere (e soprattutto il fatto che fosse la normalità) di vivere in un contesto, sia familiare che scolastico e sociale, dominato dalla mobilità delle persone, delle cose e dei segni. Chi ha visto il film “Film parlato” di De Oliveira capirà quello che intendo: capirsi oltre le barriere linguistiche per il piacere di farlo, restando ciascuno ‘nella’ propria lingua: lingua che si fa in tal senso metafora del rispetto per se stessi e per la propria identità. Ne parleremo, sono questioni di grandissima importanza: le stazioni, i barconi, ne sono un doloroso segnalatore.

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