Venerdì 5 e sabato 6 Novembre si è tenuto a Napoli il
Convegno Le Figure del vuoto e i sintomi
della contemporaneità: anoressie, bulimie e dintorni.
Il convegno
organizzato dal Centro Napoletano di Psicoanalisi, con il contributo
dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, si è tenuto nella splendida
cornice di Palazzo Serra di Cassano.
Nel pomeriggio di venerdì alla
relazione introduttiva di Luigi Rinaldi, presidente del CNP, sono seguiti i
contributi di Jacques André e di Nadia Fusini.
Rinaldi ha messo in risalto come la
latitanza dei genitori assorbiti da carrierismo, individualismo, lutti, ecc,
determini agli albori della vita, un attentato identitario, un vuoto originario
nella costituzione dell’Io, causato, dalla mancanza del rispecchiamento
necessario per fornire significazione affettiva alle sensazioni e percezioni
dell’infans.
André, attraverso la presentazione di
due casi clinici, ha chiarito, in un registro che si è mantenuto in un non
facile equilibrio tra Freud e Winnicott, che il vuoto è ben altra cosa
dell’assenza e che si evidenzia, ad esempio, in quelli che lui definisce pazienti
senza storia: pazienti che non hanno
molti ricordi d’infanzia e che lasciano all’analista la sensazione controtransferale
di non ricordare nulla delle loro sedute. Per Andrè il vuoto rimanda all’idea
della morte che, come scrive Freud, è priva di contenuto e non perfettamente
connotabile. Idea della morte che è, a sua volta, ben diversa dal lutto.
Nadia Fusini, che ha trascorso una
vita di con Shakespeare, ha presentato una relazione altamente evocativa in uno
stile ritmicamente Shakespeariano. Ella ha ripercorso nella poetica di
Shakespeare l’introduzione, coeva in Europa, del numero zero in aritmetica, che
si ritrova ad esempio nel Nothing
inaugurale, incomprensibile a Lear, "Nothing?
Nothing will come of nothing", che Cordelia
restituisce al padre quando questi le domanda quale parte di regno desidera
ricevere in dote. Il vuoto, ci ricorda la Fusini è altresì espresso dalla forma
vuota evocata dal Globe Theatre, vuoto da
riempire con la rappresentazione.
Le relazioni sono state brillantemente
discusse da Maurizio Balsamo e da numerosi interventi dalla sala.
Il giorno seguente il convegno si è
aperto con la relazione introduttiva di Rossella Pozzi cui sono seguite le relazioni
di Massimo Recalcati e di Sarantis Thanopulos.
La relazione della Pozzi ha
affrontato l’emergenza psichica del vuoto,
collocandola in un luogo intermedio tra l’essere e il nulla. Il vuoto, ci dice
la Pozzi, non si riferisce ad un oggetto concreto, ma tenta di descrivere un
inafferrabile stato d’animo. Disturba, anche se non ha pregnanza di malattia,
come invece ha il sintomo. Al tempo stesso non è il niente, che d’altronde sfugge
alla capacità immaginativa, è pur sempre un qualcosa, pesante da tollerare, che
forse gravita intorno al nulla in un’orbita che impedisce il precipitare nella
dissoluzione. La descrizione del vuoto interiore si
configura all’insegna dei processi di sottrazione e negazione: il "meno" e il
"non" ne sono gli operatori simbolici. In
chiave psicoanalitica il vuoto, il ritiro, il difetto si produrrebbero per
reazione ad un eccesso.
Recalcati ha affrontato, con un’ipotesi
teorica in chiave lacaniana, il concetto, a lui caro, di neomelanconie. Egli
ritiene che esistano quadri melanconici
nuovi dove il tema del senso di colpa e del delirio morale di autoaccusa non sono
più centrali. Le neomelanconie sono incentrate sul registro della dissipazione
e del godimento lacaniano. Egli ci ha ricordato come Lacan sviluppa il concetto
di jouissance in opposizione
a quello di piacere e come nelle neomelanconie l’esperienza
del soggetto dell’inconscio, l’esperienza del desiderio, è annientata.
Thanopulos
ha presentato un contributo partendo dal vuoto inteso come mancanza originaria, mancanza a essere che anche la più devota
delle madri non potrà mai saturare. Nello spazio isterico il
vuoto dell’esistenza si trasforma in potenzialità, riparando la mancanza
originaria. Nella melanconia
la perdita cancella non solo l’oggetto desiderato ma anche la capacità di
desiderare. Al contrario del soggetto melanconico, rimasto impigliato in un
legame narcisistico, omofilico con l’oggetto, che preclude l’incontro con la
sua diversità, l’ anoressico, pur ripiegando difensivamente sul versante
narcisistico, è in contatto con la differenza del suo oggetto, che è
riconosciuta. L’anoressia va nella direzione della perversione del desiderio, di quel
particolare tipo di perversione del desiderio che sorregge un’anoressia di
vita, che nella sua forma più radicale e drammatica diventa rifiuto del cibo.
Alle relazioni di sabato
mattina è seguita una magistrale discussione ad opera di Lucio Russo che, in
uno stile penetrante, ha messo in luce le pieghe del discorso che la sala ha
avuto modo di riprendere in numerosi interventi.
La sessione di sabato
pomeriggio si è aperta con la relazione di Catherine Chabert. La Chabert attraverso
un caso clinico, descritto con generosità, ci ha parlato del vuoto come della
necessità di ritrovare un
posto perduto. Vuoto creato da un troppo pieno, da un eccesso di
rappresentazioni e affetti, di ricordi e di sogni imbavagliati dagli effetti di una rimozione tanto massiccia da
rasentare la scissione e il diniego.
Il posto da ritrovare, per la
Chabert, è la raffigurabilità, l’attività rappresentazionale, il pensiero e i
sogni che offrono un contenimento alle emozioni. Ma a quali condizioni, ella si
domanda, nella situazione analitica, questo lavoro può avvenire quando il vuoto
costituisce un grande contro-investimento, quando le forze psichiche sono
massicciamente mobilitate per cancellare le rappresentazioni degli affetti,
creando in tal modo una forma di béance
che rischia di ingoiare l’analisi e l’analizzando?
L’essenziale per C. Chabert ritorna
innanzitutto alla scena, come
figurazione, come rappresentazione di prova. Nel sogno, nel mito, nel racconto
o nel fantasma, come nel ricordo e anche nella costruzione, la scena occupa un posto primordiale:
perché essa mostra e contemporaneamente nasconde, perché essa organizza e
sviluppa nello spazio e nel tempo, perché essa elabora affetti e
rappresentazioni grazie alla drammatizzazione e al contenimento delle emozioni
alla ricerca di forme.
L’ultima
relazione del convegno, di Alberto Luchetti, ha affrontato in chiave
metapsicologica quelle configurazioni psicopatologiche per le quali restano
disponibili, per l’Io
nascente, solo forme smisurate che lo costringono a identificarsi con il niente
ch’egli rappresenta al confronto del modello onnipotente, usurpante e
inaccessibile che, come diceva Freud, incontrastato «si accaparra la
coscienza». Il vuoto dell’Io corrisponde all’impossibilità di «stabilire» una
forma dell’Io che possa risultare costantemente
investibile. Nella melanconia la scomparsa dello sguardo desiderante da parte
dell’oggetto impedirebbe al soggetto di riconoscersi in una rappresentazione
«totale» singolarizzante. Non resta che identificarsi con ciò che ne resta: una cornice svuotata del puntello del desiderio
dell’altro, uno specchio senza riflesso dalla cui posizione e in nome dei quali
il discorso melanconico denuncia l’illusione di ogni identità, l’abbaglio di
ogni Io, l’evanescenza di ogni discorso. Identificazione che, infine, si
esprime nell’affermazione del niente che
struttura integralmente il discorso melanconico: «Io non sono niente», «Io non
sono nessuno».
Le
relazioni di Chabert e Luchetti sono state sapientemente discusse da Franco
Conrotto che ha restituito agli autori e alla sala numerosi spunti che sono
stati ripresi nel vivace vivace dibattito conclusivo.
Roberto Musella