IPA BOSTON CONGRESS 2015
PRESIDENTIAL SPEECH AT THE OPENING CEREMONY
Stefano Bolognini
“2015: PSYCHOANALYSIS IN A CHANGING WORLD”
La complessità dei cambiamenti in corso nella vita degli esseri umani, dovuti ai processi politici e sociali, alle evoluzioni culturali, e alle nuove forme di comunicazione rese possibili dalle tecnologie, oltre a riconfermare la ben nota imprevedibilità del futuro, rende comunque difficile perfino descrivere il presente con sufficiente realismo: una “visione d’insieme”, sia pure limitata al nostro campo, è senz’altro un obiettivo molto ambizioso.
Ciononostante, la mia posizione come presidente dell’IPA mi mette nella speciale condizione (e forse in dovere) di presentarvi un quadro complessivo da un punto di vista “inter-regional”, per via dei miei viaggi e dei miei scambi costanti con i colleghi e con le società di tutto il mondo; e di aggiungervi una prospettiva “inter-generational”, per altre mie inclinazioni personali.
Per limiti di tempo vi proporrò delle considerazioni schematiche e sommarie, invitandovi ad esplorarne ed approfondirne riflessivamente la veridicità e le possibili implicazioni attraverso il successivo dialogo tra colleghi; alcune di queste considerazioni potrebbero non accordarsi con i desideri di tutti, ma potrebbero meritare di essere pensate e discusse.
LO STATO DELL’ARTE
Il livello scientifico generale (conoscenze teoriche, capacità clinica, mobilità mentale) della media degli psicoanalisti è stato secondo me avvantaggiato dalla crescente intensità dei nostri scambi dovuta alla nuove tecnologie.
Anche se la facilità di diffusione dei lavori psicoanalitici attraverso Internet e attraverso la miriade di convegni organizzati un po’ dappertutto può aver creato qualche effetto di iper-saturazione e di scoraggiamento (è frustrante per i nostri ideali narcisistici sapere che nessuno riesce a leggere neanche un decimo di ciò che viene prodotto a livelli di eccellenza), pure la diffusione delle idee e delle esperienze ha innegabilmente trasformato e arricchito, anno dopo anno, la mentalità e il bagaglio teorico della maggior parte degli analisti.
Sono convinto che il modello della “crossed fertilization” rappresentato dal CAPSA simboleggia bene il cambiamento in corso presso le nuove generazioni di analisti, aperti al nuovo e alla conoscenza verso il lavoro dei colleghi di altre nazioni e regioni; e – pur rispettando i legittimi timori di coloro che temono effetti di confuso imbastardimento teorico e di eclettismo superficiale – credo di poter dire che la realtà pluralista descritta da Wallerstein, oltre ad essere una realtà storica evidente, sta producendo un sostanziale arricchimento dello strumentario degli analisti.
Ce ne accorgiamo soprattutto nei gruppi internazionali di discussione clinica, nei quali la componente “teologica” di fedeltà transferale alle teorie di origine (che entra in tensione massima nei dibattiti esclusivamente teorici e li condiziona talvolta in modo restrittivo) si allenta, si stempera e lascia spazio ad associazioni, fantasie, sviluppi emotivi e scambi intersoggettivi tra colleghi che creano, alla fine, qualcosa di nuovo: ciò che io semplicemente riassumo nel fatto che dopo quella esperienza “non si torna a casa esattamente uguali a prima”.
Il più facile accesso ai lavori scientifici attraverso Internet e attraverso la moltiplicazione delle traduzioni e delle produzioni editoriali si accompagna all’accresciuta mobilità geografica (pur con gli alti e bassi delle ricorrenti crisi economiche) e alla crescente conoscenza da parte di molti colleghi di almeno un’altra lingua straniera oltre alla propria: il che significa maggiori possibilità di partecipazione allargata e di dialogo.
L’IPA svolge una funzione insostituibile in questo senso, e proprio per questo suo ruolo di connessione inter-regional a tutti i livelli il suo lavoro va ben al di là delle sole funzioni normative e amministrative: attraverso i suoi molti Committees e i suoi Working Groups, l’IPA crea e mantiene i links in una comunità psicoanalitica mondiale, e di fatto contribuisce a rendere gli analisti capaci di conoscere davvero altre realtà culturali, scientifiche e oserei dire “psichiche”.
Il risultato non è una omogeneizzazione della psicoanalisi, bensì una articolazione informata in cui ognuno di noi mantiene il proprio DNA familiare di origine, ma “ha viaggiato” (concretamente o simbolicamente) di più, arricchendo il nostro mondo interno e – di ritorno e per osmosi – le nostre “case psicoanalitiche” nazionali e locali.
Mi spingo a dire che per quanto riguarda la conoscenza autentica, teorica ed esperienziale, della materia specifica, la psicoanalisi non è mai stata meglio di oggi; e se dovessi fare il famoso “final test” che si riassume nella domanda: “da chi manderesti un tuo famigliare per un trattamento analitico?” aggiornato in: “lo manderesti (a parità di livello e di esperienza) da un analista del passato o da uno contemporaneo?”, io lo manderei ad un collega di oggi, proprio perché può usufruire del lavoro delle generazioni analitiche del passato, perché “ha viaggiato” (sempre in senso simbolico) di più e perché sa che ci possono essere diversi modi di trattare le diverse difficoltà e le diverse persone, al di là delle rigidità ideologiche dovute a transfert idealizzante residui. Idealizing transferences
REMOTE ANALYSIS
La questione è complessa e mi limiterò a qualche cenno sulla Remote Analysis come problema istituzionale.
Sappiamo bene come questo strumento tecnologico sia una nuova, innegabile realtà nell’attività clinica di molti psicoanalisti, e mentre scrivo queste note ho in mente i molti autorevoli colleghi che sono convinti sostenitori di tesi rispettivamente pro- o contro l’uso di Remote Analysis in psicoanalisi; così come sono informato della crescente diffusione di questa pratica.
Contribuiscono a questo nuovo sviluppo sia fattori potenzialmente positivi (come il trattamento in aree geografiche remote in cui una analisi “in person” è materialmente impossibile per mancanza di analisti); sia fattori francamente resistenziali (il paziente che occasionalmente non ha voglia di fare qualche chilometro e chiama l’analista da casa); sia fattori economici molto basici (l’analista che ha pochi pazienti e deve sopravvivere, o il paziente che non può assentarsi per ore dal lavoro quattro volte alla settimana con rischio di licenziamento); quel che è certo, è che l’uso di Remote Analysis si va diffondendo rapidamente.
Come forse sapete, l’IPA, sollecitata a prendere ufficialmente posizione su ciò, ha finora stabilito pochi punti fermi, che non si sono tradotti in aspetti normativi.
In generale, sembra esservi un consenso sulla valutazione della differenza tra un trattamento “in person” e un trattamento via Remote Analysis: non è certo la stessa cosa, vi sono rilevanti differenze che non possono sfuggire all’osservazione finissima dei dettagli propria di chi svolge il nostro lavoro.
E’ stato anche ipotizzato che probabilmente l’uso di Remote Analysis svilupperà in modo compensativo e in senso lamarckiano alcune funzioni (come quelle visive e auditive) per sopperire alla mancanza delle sensazioni olfattive e prossemiche della seduta in person.
Per adesso l’IPA, nella rappresentanza del suo Board, ritiene che la materia debba ancora essere studiata a fondo: dobbiamo saperne di più, a livello di esperienza riportata e di successiva discussione epicritica.
Si ritiene che nella pratica privata post-graduation ogni analista si regoli come crede, “secondo scienza e coscienza”, ma per quanto riguarda la formazione analitica essa viene mantenuta al di fuori dell’area Remote Analysis; l’unico documento (peraltro non formalizzato come norma effettiva) di apertura in questa direzione ha riguardato casi particolarissimi di alternanza Remote Analysis /in person in paesi privi di analisti a distanza praticabile.
La discussione è quindi aperta.
CAMBIAMENTI SOCIO-CULTURALI
Questo è il capitolo al quale ho dedicato più riflessioni ad ampio raggio durante il mio mandato, per effetto degli scambi sinceri ed intensi con i colleghi di molte nazioni; per brevità, condenserò in poche osservazioni il risultato di questi scambi.
Va tenuto conto preliminarmente del fatto innegabile che vi sono paesi ricchi e paesi poveri; ma soprattutto che vi sono paesi in cui il National Health Service e/o le assicurazioni provvedono al pagamento di parte della cura (particolarmente nell’area germanica e scandinava), e altri in cui ciò non avviene; se da un lato questa opportunità non è priva di complicazioni contrattuali, è innegabile che da un altro lato essa cambia considerevolmente le condizioni di affrontabilità dell’impegno economico da parte del paziente.
Ma al di là dei pur importanti fattori economici concreti che condizionano lo svolgimento dei trattamenti psicoanalitici (e che comunque non vanno ignorati se pensiamo che il riconoscimento della realtà esterna debba integrare sensatamente l’attenzione alla realtà interna, per non cadere dal polo nevrotico in quello francamente psicotico), si stanno delineando nuove tipologie ricorrenti di organizzazione mentale che sembrano porre nuovi problemi alla pratica della psicoanalisi così come noi siamo tradizionalmente abituati a concepirla.
L’osservazione comune e per noi dolorosa è che la frequenza piena delle quattro sedute risulta sempre più spesso impraticabile, per lo meno all’inizio del trattamento, e che la semplice iniziale prescrizione di tale frequenza provoca il più delle volte un fermo rifiuto della proposta e l’allontanamento del paziente.
L’aspetto veramente analitico di questo fenomeno è dato dal fatto che esso riguarda non solo coloro che non hanno il denaro sufficiente o che non possono assentarsi dal posto di lavoro 4 volte alla settimana (evenienza peraltro sempre più frequente, piaccia o no, dato che i nostri attuali pazienti non provengono più soltanto da classi economicamente agiate o molto agiate, e che ogni impiegato sa che fuori dalla porta del suo datore di lavoro c’è una lunga fila di persone pronte a prendere il suo posto…), ma riguarda anche persone che avrebbero le risorse economiche per affrontare la cura.
Certo: in tali casi è una classica resistenza; e del resto sembra che ormai una consistente parte del lavoro sia appunto quella di “creare il paziente analitico”, come hanno verificato alcuni working groups dedicati allo studio del fenomeno. Ma quali sono le radici di questo mutamento così imponente su larga scala?
Io credo che il cambiamento del mondo in cui viviamo stia innegabilmente condizionando il nostro lavoro, e che – limitatamente alla sfera delle relazioni umane – non si possa insistere ad affermare categoricamente che “l’essere umano è sempre lo stesso”; lo è, sì, in buona parte, ma non lo è più per certi specifici aspetti.
Molti pazienti di oggi, infatti, rigettano l’idea di dipendere intensivamente e dichiaratamente da qualcuno.
Per ragioni complesse ma non necessariamente misteriose essi sembrano recare i segni di una sostanziale sfiducia e/o disabitudine riguardo alla presenza e alla costanza dell’oggetto, alla affidabilità sostanziale di esso e alla conseguente dipendenza da esso.
In una ideale linea che congiunge il soggetto all’oggetto, il baricentro degli investimenti sembra in molti casi oggi mantenersi preventivamente e implicitamente spostato verso il soggetto stesso, che si guarda bene dal mettere il proprio capitale libidico e narcisistico nelle mani dell’altro, almeno finché l’altro non abbia superato col tempo le barriere di diffidenza e di salvaguardia del Sé che presumiamo si siano costituite precocemente.
Se pensiamo alla necessaria fusionalità primaria tra madre e bambino e alla successiva necessità di una solida continuità nell’organizzazione famigliare, potremmo chiederci – con la piena consapevolezza dei rischi di questa domanda così poco “politically correct”… – se gli analisti non stiano ereditando nei loro studi almeno una parte delle conseguenze di una serie di circostanze tipiche della nostra contemporeanità: le interruzioni precoci del maternàge per ragioni professionali delle madri, chiamate subito al lavoro da legislazioni e da logiche aziendali eccessivamente demanding; il ricorso confondente alla rotazione di caregivers privati e istituzionali nell’allevamento di bambini molto piccoli, nelle famiglie “nucleari” prive di nonni, che vivono spesso molto lontano; le ubiquitarie rotture famigliari per separazioni e divorzi, oltretutto con l’ingresso frequente di nuove figure che “devono” essere accettate, a volte in un’atmosfera di diniego o almeno di negazione delle difficoltà connesse; le organizzazioni narcisistiche genitoriali autocentrate, favorite dai modelli culturali contemporanei tendenzialmente inidividualistici; la perdita del grande contenitore delle “famiglie allargate”, e in generale di tutte quelle circostanze che condizionano oggi l’ambiente psichico di crescita dei bambini, molto migliore oggi rispetto al passato dal punto di vista alimentare ma probabilmente meno dal punto di vista relazionale vero e proprio.
Non abbiamo più – almeno per ora – grandi e devastanti guerre mondiali, ma infinite micro-fratture nella diade iniziale e nella famiglia che possono dissuadere istintivamente il soggetto dal “consegnarsi alla relazione”; e qui non posso non menzionare il caso clinico estremo ed emblematico di quel bambino, seguito da un collega italiano, che si allontanava dagli altri bambini per andare ad abbracciare e a baciare un televisore.
Sia chiaro: non sto dicendo qui che le madri non dovrebbero tornare al lavoro, che bisognerebbe co-abitare con i nonni, o che le coppie infelici non dovrebbero potersi separare, e così via. Sto dicendo che gli psicoanalisti non dovrebbero negare le conseguenze epocali di questi enormi cambiamenti, e che non dovrebbero nemmeno stupirsi delle loro ricadute sugli stili e le possibilità relazionali di questa nuova umanità, quando un paziente che si sente proporre quattro sedute settimanali da subito si dilegua senza alcuna trattativa.
EVOLUZIONI CLINICHE, TEORICHE E FORMATIVE
Gli analisti dovrebbero anche elaborare con sufficiente libertà di pensiero le adeguate riflessioni a livello clinico-teorico, comprendendo cosa è davvero possibile e cosa è utile nel nostro lavoro oggi, date queste nuove realtà in evoluzione, mantenendo un atteggiamento interno mobile e responsabilmente creativo, consapevole delle nostre eredità teoriche ma liberamente esplorativo verso il nuovo.
Ci sono segni di disagio in questo senso, nella nostra comunità, che vengono espressi confidenzialmente “nei corridoi” o nei colloqui personali, ma che stentano ad emergere negli incontri ufficiali, là dove l’Ideale la fa da padrone rispetto al Sé reale dello psicoanalista.
Ma credo che l’IPA non dovrebbe ignorare o minimizzare questi problemi, così come un medico non dovrebbe chiudere troppo presto la sua riflessione clinica di fronte ai sintomi, liquidandoli con troppa facilità: una febbre insistente può essere dovuta ad una banale influenza, ma a volte non è così.
E anche i possibili rimedi dovrebbero essere frutto di riflessione e non di entusiastica adesione a priori a stereotipe guidelines che appagano un sentimento di conformità agli standards di categoria.
La famosa frase del chirurgo: “L’intervento è perfettamente riuscito, anche se il paziente è morto” dovrebbe essere tenuta in mente nella nostra pratica quotidiana, al di là delle rigide fedi dottrinarie, che rivelano più un transfert irrisolto verso oggetti interni devozionali idealizzati che un reale amore verso questa “arte/scienza a statuto speciale” che ha cambiato (questo sento di poterlo affermare) prima di tutto le nostre personali esistenze.
E giungo a dire che nell’ideale triangolazione tra l’analista, la teoria e il paziente (una equivalente riproposizione della condizione famigliare interna) l’analista contemporaneo dovrebbe organizzare un Edipo equilibrato e il più possibile armonico, conscio dei bisogni e delle possibilità di tutte e tre queste componenti, da congiungere in modo adatto e creativo.
Ovviamente va tenuto presente anche il rischio opposto di un desiderio iconoclasta verso la nostra tradizione scientifica e formativa, frutto invece di residui transferali negativi a prescindere dalla valutazione di queste complesse realtà in trasformazione.
Alcune conseguenze di questa prospettiva?
Senz’altro la consapevolezza della odierna necessità in molti casi, più che in tempi passati, di “costruire il paziente analitico”, che non può non riguardare le modalità e i tempi del Training formativo degli analisti: se vogliamo futuri analisti che sappiano costruire il paziente analitico dovremo consentire ai giovani di includere questo aspetto nella già difficile tempistica del loro training, probabilmente rivedendone alcuni criteri finora ritenuti indiscutibili.
Il fenomeno sempre più preoccupante dell’”ageing” della nostra membership e la mancata crescita di molte delle nostre società è innegabilmente connesso a questi cambiamenti psico-socio-culturali diffusi, e noi dobbiamo essere capaci di pensare a tutto ciò.
In secondo luogo, dobbiamo proseguire nel processo già avviato di studio, conoscenza e riconoscimento di forme ulteriori specifiche di trattamento, includendole come specializzazioni anche ufficiali nel nostro ambito; il Training Integrato Bambini/Adolescenti va in questa direzione, come pure l’istituzione da parte dell’IPA del Mental Health Field Committee per il trattamento integrato delle Patologie Gravi, l’attività scientifica dedicata a “Couples and Families”e al grande campo della Group Analysis.
Queste estensioni non sostituiranno affatto la formazione e le attività psicoanalitiche di base, ma non saranno nemmeno più considerate con sufficienza come “derive” o come sottoprodotti di rango inferiore: la valutazione riguarderà altri criteri come il percorso formativo ed esperienziale e la qualità di ciò che viene prodotto.
Sta a noi, alla nostra comunità scientifica e professionale, non perdere di vista il valore “nucleare” dell’esperienza di analisi come punto di partenza ineludibile per le ulteriori estensioni del metodo e dei criteri di fondo della nostra competenza.
CONCLUSIONI
Riusciremo ad essere inclusivi verso queste articolazioni della pratica analitica senza perdere i nostri valori specifici?
Sapremo riflettere con vera libertà di pensiero sulle conseguenze dei cambiamenti generali sulla nostra pratica professionale e formativa?
E sul piano dell’evoluzione teorico-clinica, sapremo conservare l’inestimabile ricchezza dell’eredità freudiana, vero tronco del nostro albero genealogico e scientifico, senza doverne temere le ramificazioni ulteriori e senza “potarle” prematuramente per timore di deviazionismo? Potremo pensare che dopo Freud anche altri pensatori abbiano prodotto idee fertili, apparentemente diverse ma di fatto arricchenti?
Io dico che una componente transferale idealizzante irrisolta sembra in certi casi impedire al fantasma di Sigmund Freud di “diventare nonno”, e sembra rivendicarne l’esclusiva di un diritto di unicità teorica passata, presente e futura che rischia di risultare più fallica che genitale, quando si pensi che nessun altro dopo di lui possa contribuire sostanzialmente all’evoluzione della psicoanalisi con idee nuove e con creatività originale; così come, all’opposto, il mancato riconoscimento della validità anche attuale della maggior parte dei suoi contributi sembra rivelare in certi casi perlomeno una certa ingratitudine di fondo.
In definitiva, voglio auspicare che l’IPA sia e resti la “casa” in cui gli psicoanalisti possono confrontarsi con le loro difficoltà, differenze e nuove ispirazioni sia riguardo al mondo che cambia, sia riguardo alla psicoanalisi che può cambiare e che di fatto cambia: una casa vivibile, aperta al pensiero e allo scambio, al confronto anche complesso e alle trasformazioni se necessarie ed autentiche, sia negli individui che nei gruppi societari.
Una casa di adulti rispettosi delle eredità ma aperti al nuovo, e capaci di confrontarsi con i cambiamenti del mondo e con le conseguenti difficoltà senza negarle, per paura e/o per idealizzazioni autorassicuranti.
Quello che dovrebbe contraddistinguerci almeno un po’, rispetto al resto dell’umanità che non ha la nostra formazione e che non svolge quotidianamente il nostro lavoro, dovrebbe essere un insieme di consapevolezze a volte dolorose: in fondo, una nostra forza è proprio la consapevolezza depressiva della nostra umana fragilità, così spesso negata dagli altri, che in analisi ci idealizzano.
Dovremmo disporre di un sufficientemente buon lavoro di riflessione tra colleghi, con spirito di comunità internazionale, e anche questo è uno degli scopi dell’IPA: la nostra capacità di “pensare insieme” può essere esercitata fin dal tempo della formazione analitica, integrando il classico “tripode” (analisi-supervisione-seminari) con il quarto elemento della elaborazione gruppale dell’esperienza teorico-clinica, come alcune società dell’America Latina stanno già progettando di fare nei loro programmi di training.
Dovremo infine aiutarci nell’affrontare le nostre inevitabili tensioni gruppali e istituzionali (ed è anche per questo, ad esempio, che abbiamo istituito la “Task Force on Institutional Issues”, che studierà questa dimensione conflittuale per migliorare la nostra conoscenza di essa).
In conclusione, come vedete, il mio messaggio vuole suggerire di mantenerci aperti al pensare insieme, al non voler cambiare solo per il gusto estetico-narcisistico di “cambiare per cambiare”, ma neppure di essere chiusi “a priori”, per motivi fondamentalmente “teologici”, alle evoluzioni del mondo e della psicoanalisi stessa.
La ragione per cui vi comunico questi pensieri risiede proprio nella dolorosa consapevolezza della potenza e della rigidità dei nostri meccanismi difensivi interiori, da cui nessuno di noi individui è esente, e nemmeno le nostre istituzioni (IPA compresa) lo sono.
Vi auguro un fruttuoso, soddisfacente e non convenzionale lavoro congressuale.