A proposito del Convegno IL SOGGETTO NEI CONTESTI TRAUMATICI: AFFETTI E DIFESE DEL TRAUMA. CENTRO DI PSICOANALISI ROMANO
Roma, 29 -30 novembre 2008
Un concetto clinico “descrittivo, sbilanciato ed impreciso”, sempre meno chiaro nella sua applicazione: così, più di quarant’anni fa, Sandler (1967) giudicava il concetto di trauma. Ed aggiungeva che, se si prescinde dagli elementi di nevrosi traumatica rilevabili nei bambini, ci troviamo in un territorio in cui “siamo così costretti a parlare di trauma parziale, di traumi da sforzo e di traumi cumulativi, di traumi schermo e retrospettivi, di traumi in fantasia e di traumi provocati. Ci troviamo a trattare con il problema di differenziare risposte alla minaccia del trauma da reazioni al trauma stesso; e dobbiamo distinguere tra traumi riattivati e traumi sperimentati per la prima volta”. Lamentava cioè una perdita di specificità del termine ed un suo slittamento concettuale che rendeva dubbia la sua stessa utilizzazione.
Non molto diversamente, circa vent’anni dopo, Baranger, Baranger e Mom (1988), in un altro celebre lavoro, facevano risalire l’amplificazione concettuale del termine al passaggio, nella teoria del trauma generalizzato contenuta in “Inibizione, sintomo ed angoscia”, da ciò che può definirsi “trauma” in senso ristretto a quella che da quel momento in poi sarà piuttosto la “situazione traumatica”, che implica non solo la presenza di un soggetto e di un’effrazione nella barriera antistimoli che lo protegge, ma anche una situazione vitale (quella caratterizzata dalla Hilflosikeit) in cui è implicitamente coinvolto un mondo di relazionalità interumana.
E’ per l’appunto con lo sviluppo delle teorie delle relazioni d’oggetto che il punto di vista economico, che in ogni caso costituiva un elemento di specificità all’interno del concetto di trauma, sembra venire ulteriormente depotenziato come elemento discriminativo principe e la relazione d’oggetto diventa la base della teoria del trauma. Il fatto che un evento o una situazione abbia un effetto traumatico dipende dall’esistenza o meno di una relazione significativa tra il bambino e l’oggetto traumatogeno. La relazione d’oggetto in sé assume un carattere traumatico (Bohleber, 2008).
In realtà, ciò che si rende evidente come peculiare del trauma è il suo rapporto con la memoria e non tanto in relazione a ciò che è rimosso o che è scisso, quanto nel senso di ciò che “non è inscritto”. Come già affermavano i Baranger (lavoro citato), in termini psicoanalitici, ciò che va preso in considerazione è il trauma “puro”, quello legato ad una esperienza di angoscia (“automatica”) estrema e primitiva che non è stato possibile “storicizzare” in alcun modo (e che è compito del processo analitico portare dalla ripetizione alla “storicizzazione”, Lacan, 1973). E questo si pone esattamente sulla linea di quel Freud che, dal 1920 in poi (ma in realtà sin da “Ricordare, ripetere, rielaborare”) non si interroga più tanto sulla rappresentazione (termine stesso che ricorrerà sempre meno nei suoi lavori teorici a partire dal 1920) bensì sull’atto, sull’agire che la sostituisce (nella ripetizione appunto) in prima istanza in conseguenza del trauma. Da ciò stesso si possono comprendere però gli interrogativi che nascono relativamente ai termini in cui vada concepita quella “non-iscrizione”, come essa interessi il dominio verbale o la stessa dimensione della figurabilità onirica ma non comprenda altri domini. Ed è su questo (sulle diverse modalità di registrazione della traccia mnestica e sulle loro conseguenze nell’organizzazione -o la disorganizzazione- complessiva dello psichico) che si è concentrata la ricerca più recente che spesso -a volte troppo spesso- ha teso ad abolire i confini tra psicoanalisi ed altre discipline di carattere osservativo.
Ritorna per questa strada il rischio che una eccessiva amplificazione concettuale “adulteri” il concetto di trauma e sfumi in tal modo eccessivamente i limiti tra ciò che è “traumatico” e ciò che è “patogeno”.
Le eventuali considerazioni pessimistiche sulla “tenuta” del concetto in termini di specificità e significatività, sembrano però completamente smentite dall’estremo interesse che la tematica del trauma sembra attualmente rivestire in campo psicoanalitico, il che testimonierebbe di una sua vitalità ed utilizzabilità in campo clinico e teorico. Di questo rinnovato interesse sarebbe forse interessante cogliere appieno le ragioni nella attualità della cultura e della storia contemporanea in cui però è piuttosto la violenza dell’evento traumatico esterno ad essere in primo piano in una molteplicità di accadimenti che segnano il nostro tempo. Ma, per rimanere in un contesto più a noi vicino, ne fanno fede, e per questo ne parliamo, i due convegni che i due Centri psicoanalitici romani hanno dedicato a questo tema ad appena due settimane di distanza l’uno dall’altro (facendo peraltro seguito ad un convegno su “Psicosi e trauma”, organizzato dal Centro milanese nel giugno scorso).
E’ dunque interessante verificare da quale angolazione i due convegni abbiano affrontato la problematica del trauma e quali elementi eventualmente apportino ad una migliore definizione della sua area concettuale ed alla sua utilizzazione clinica.
Ci occuperemo dunque in questa sede del primo dei due, che si è svolto nella sede di Via Panama, stracolma di partecipanti. L’interesse era qui puntato sui processi di soggettivazione, grazie anche al fatto che l’ospite straniero del convegno era Stephen Seligman. Seligman, come segnala il testo di presentazione del convegno, è esponente di spicco di quella componente del pensiero psicoanalitico nord-americano conosciuta come psicoanalisi a orientamento relazionale la cui caratteristica peculiare è l’enfasi posta sulla matrice relazionale nella generazione delle strutture psichiche, sull’importanza cioè della dialettica fra interazioni precoci, fantasia e dispositivo costituzionale nei processi di soggettivazione. Il contributo di Seligman, dal titolo “Identificazione proiettiva e asimmetrie coercitive nella interazione bambino-genitore: una applicazione concordante dell’approccio kleiniano ed intersoggettivo”, si proponeva di illustrare la tesi secondo la quale alcuni problemi legati al concetto di identificazione proiettiva possono essere chiariti integrando l’approccio kleiniano orientato sulla fantasia con le prospettive osservazionali derivate dallo studio della interazione bambino-genitore. In questo senso, il lavoro cerca di dimostrare come l’identificazione proiettiva, piuttosto che in relazione ad una teoria della fantasia inferita ricostruttivamente, possa essere vista come una particolare forma di costruzione intersoggettiva, nella psiche ed in ambito interpersonale.
La parte più viva dell’intervento di Seligman è ruotata intorno al racconto di due episodi di interazione tra un genitore (in ambedue i casi il padre) e due bambini dell’età di sei mesi e di tre giorni. Gli scambi, emotivamente molto diversi nei due casi ma sempre molto vivaci, e resi particolarmente “parlanti” da una narrazione molto attenta e puntuale da parte dell’autore (non è stato possibile visionare il materiale audiovisivo in sede di convegno per ragioni tecniche) sono risultati particolarmente efficaci nell’illustrare come, secondo l’autore, possano costituirsi molto precocemente nella relazione genitore-bambino delle esperienze di tipo procedurale e non-riflessivo, inconsapevoli, ma non rimosse, e localizzate in registri fisici ed affettivi piuttosto che in forme verbali narrativamente coerenti. La costituzione di tale strutture interattive preriflessive non verbali avrebbero una sicura importanza nella costituzione degli elementi precoci di soggettivazione dell’individuo, risultando, ancorché non consapevoli, particolarmente determinanti nel definirne le caratteristiche emotive e comportamentali, ed importando eventualmente nella mente del soggetto la stessa patologia relazionale del genitore. Ciò è quanto Seligman affianca al concetto kleiniano di identificazione proiettiva come se si potesse ipotizzare che si tratti di due diverse descrizioni di fenomeni mentali corrispondenti e nell’assunto che da tale accostamento risulti una reciproca chiarificazione ed una feconda correlazione nell’uso clinico dei due dispositivi mentali ipotizzati. Su questa base Seligman sviluppa la tesi di una sostanziale convergenza tra alcune proposizioni proprie della scuola kleiniana (e di Bion cui è dedicata grande attenzione) e quelle proprie della ricerca osservativa genitore-bambino di stampo intersoggettivista.
Chi scrive ha l’impressione che un tale sforzo di correlazione teorico-clinico vada senz’altro apprezzato, anche perché si oppone ad una crescente “dispersione” e segmentazione teorica (quando non concorrenza) delle discipline che si occupano del mentale, ma certamente quanto proposto da Seligman suscita alcune perplessità e richiederebbe alcuni chiarimenti che sono poi quelli che si rendono necessari allorchè si cerca di avvicinare, se non di sovrapporre, ambiti teorici o di ricerca concettualmente (ed operativamente) non omogenei (e Seligman sembra tutt’altro che inconsapevole di tale disomogeneità). In questa sede ci limiteremo ad osservare che non solo sono diversi i dispositivi di osservazione e di elaborazione concettuale ma è diversa anche la vettorializzazione stessa soggetto-oggetto dei fenomeni descritti.
Di tutt’altro tenore il lavoro (“Concezione dell’uomo e teorie del trauma”) letto nella stessa mattinata da Giovanna Goretti. In esso il discorso parte dalle sue premesse prime. L’umano si struttura nell’incontro dell’uomo con il mondo ma questo incontro può essere letto secondo direttrici diverse a seconda della concezione implicita della natura umana che anima chi lo interpreta. Le premesse del modello pulsionale istituiscono il rapporto dell’uomo con il mondo (con l’oggetto che del neonato è il mondo) come un rapporto di necessità, attivato e condizionato dalle “imperiose esigenze dei bisogni interni”. L’oggetto è necessità, e proprio perché necessità, “disturbo”. Si capisce presto, ascoltandola, che l’autrice si pone dalla parte di chi pensa che nell’individuo viva “una contraddizione originaria radicata nel funzionamento corporeo, fondamento biologico dell’io diviso” e che questa “lotta per la ripartizione della libido tra l’io e gli oggetti” (è il Freud del Disagio) possa renderlo insieme oggetto (vittima) ma anche soggetto (attore) del trauma nei confronti di se stesso. Ed anche qui due vignette di interazioni precoci mettono vivamente in gioco il rapporto potenzialmente “traumatizzante” tra sadismo orale (necessariamente precoce perché dalla parte dell’autoconservazione) e quel super-io anch’esso precoce, struttura arcaica “inventata” da M. Klein per dar conto di una potenziale autoaggressività che potrebbe pensarsi come naturale.
E qui il discorso va necessariamente alla pulsione di morte, prospettiva esplicativa se non concetto che -sembra di capire- Giovanna Goretti considera fin troppo frettolosamente accantonato da alcuni, e comunque non entità mitologica ma rappresentativa di quella interna distruttività che può avere un impatto traumatico tale da trasformare in situazioni mortali quelle che altrimenti apparirebbero come pericoli generatori di un’ansia addomesticabile.
Il lavoro diventa quindi una profonda riflessione sulla natura umana, ancorata strutturalmente alla mancanza ed alla perdita, al senso insopportabile dell’impossibilità, del limite e del non sapere, ad una dimensione temporale che scandisce la rinuncia a ciò che è stato e non è più. “Mancanza a essere” (o pulsione di morte) che non basta la presenza dell’oggetto a controbilanciare, attraendo verso la vita e la relazione. “Che poi -cito dal testo- anche per arrivare ad accettare la mancanza fondativa dell’essere, l’oggetto e la sua funzione siano fondamentali, non fa che confermare la complessità della condizione umana e l’impossibilità che una sola teoria possa esaurirne le domande”. L’essere umano è dunque segnato da una falla, da una spaccatura che l’autrice si chiede se non venga prima di qualsivoglia traumatica esperienza.
Dalla visione classica, e perciò pessimistica, dell’uomo che Strenger (1989) riprende da Hulme (1924) ed a cui Giovanna Goretti – che la cita- sembra ispirarsi, con il lavoro di Vittorio Lingiardi (“La terapia come processo di umanizzazione: sogno e memoria nell’analisi di una paziente traumatizzata”) si torna ad una visione sostanzialmente romantica: quella secondo la quale, l’uomo, intrinsecamente buono, viene danneggiato dalle circostanze. Il processo di umanizzazione che avviene nel bambino attraverso lo sviluppo della capacità riflessiva trova nelle gravi esperienze traumatiche e/o di perdita legate alle prime vicissitudine relazionali (nel caso presentato da Lingiardi a partire da un anno di età e nel corso di diversi anni a seguire) un ostacolo non superabile. I fenomeni dissociativi che ne conseguono compromettono in primo luogo quella funzione autobiografica che permette al soggetto di collocarsi in una propria dimensione di continuità storica ed emozionale. I processi di soggettivazione risultano in tal modo fragili e incerti e lasciano spazio a fratture nella stessa organizzazione de Sé. Su questo si concentra la terapia.
Viene in tal modo meno, come afferma nel suo lavoro (“I vincoli delle esperienze traumatiche alla costruzione della soggettività”) Basilio Bonfiglio, l’esistenza stessa di un soggetto in grado di mediare tra se stesso e la realtà e, quindi capace di pensare, valutare, reagire, esprimere un proprio punto di vista. Al centro della situazione del soggetto traumatizzato vi è perciò l’interruzione della capacità di funzionare in modo unitario ed integrato. “Il trauma – Bonfiglio cita Ogden (2000)- è l’esperienza del mondo esterno che si impone all’individuo prima che l’individuo abbia avuto l’opportunità di crearlo a sua propria immagine”, prima che il soggetto possa dunque costituirsi come tale di fronte alla realtà esterna.
“Il trauma dell’Io diviene perciò trauma dello sviluppo”: si inserisce bene in questo contesto questa sintetica ma efficace affermazione di Arnaldo Novelletto (1995), valida al di là dei confini (l’adolescenza) per il quale il suo autore l’aveva concepita: la ricorda Anna Nicolò nel suo intervento (“Il destino degli esordi psicotici. Come sopravvivere ai legami traumatici?”). Nel trattare del break-down adolescenziale, Nicolò sottolinea come i processi di soggettivazione e di ristrutturazione dell’identità siano in adolescenza particolarmente turbolenti e di vasta portata e come per tale ragione questa fase della vita sia da considerarsi di per sé traumatofilica. Tanto più quanto essa possa essere esposta in ambito familiare, ed eventualmente intergenerazionale, a quelle “organizzazioni traumatiche di legami”, come le definisce l’Autrice, che caratterizzano i rapporti dell’ambiente con il soggetto fin dalla sua età infantile o addirittura ne precedono la nascita.
E’ toccato a Mario Rossi Monti (“Trauma e deliri transitori borderline”) ricordare infine la particolare vicinanza tra la problematica del trauma e la patologia borderline, attraverso una accurata descrizione dei deliri transitori propri di questa condizione. Il delirio borderline -afferma Rossi Monti, autore di un bel volume su “Forme del delirio e psicopatologia”, uscito recentemente per Cortina (2008)- non risponde alla funzione di ristrutturare stabilmente l’identità: non rappresenta il tentativo di risolvere un problema che riguarda la fondazione stessa dell’identità. E’ qualcosa di più limitato. E’ una strategia di risoluzione parcellare che mantiene stretti legami con la configurazione e l’atmosfera relazionale in cui origina. In questo senso il delirio borderline sta dentro la relazione (traumatogena ?) assai più di quanto non vi siano i “veri” deliri, che rapidamente diventano entità autonome che si automantengono. Esso parla di quella particolare relazione in quel particolare momento, o comunque di quella particolare atmosfera che connota la relazione in quel momento. In questa logica verrebbe detto che pertanto esso ha con il trauma un duplice legame: originario e causale da una parte, attuale e riparativo (seppure nel solo modo parziale di arrestare una falla emorragica del Sé) dall’altra.
Come commentare l’insieme di questi lavori? Che apporti danno alla problematica del trauma? E’ riduttivo dire che il trauma compare in essi come organizzatore, peraltro non occasionale, di discorsi che hanno altrove il loro asse principale di equilibrio? Quale distinzione emerge in questi lavori tra un concetto (“puro”, vedi sopra) di trauma e quanto è riferibile piuttosto ad una pluralità di modalità di relazione patogene (distinzione che non ha solo interesse teorico ma anche incidenza sulla tecnica)? In questo senso, l’evidente polisemia acquisita dal termine ne costituisce un limite e produce confusioni oppure ha un effetto di attivazione e di arricchimento del discorso? L’intrinseca qualità di questi contributi, seppure riferentesi ad un ambito composito di situazioni osservative, contesti clinici, fasi evolutive e riferimenti teorici, farebbe propendere per la seconda ipotesi. Ma è forse utile lasciare aperto il discorso.
Un’ultima osservazione a margine. Il convegno, che ha avuto un notevolissimo successo ed è stato certamente vissuto da chi vi ha partecipato come stimolo e fonte di informazione e di idee, ha però -nell’opinione di chi scrive- sofferto del peso eccessivo della lettura dei lavori rispetto al tempo disponibile per la loro assimilazione e per un’adeguata discussione. Forse potrebbe essere utile un qualche ripensamento nelle nostre modalità di organizzazione di questi momenti di lavoro comune.
Giuseppe Squitieri
Bibliografia Baranger, M., Baranger, W. and Mom, J. M. (1988). The Infantile Psychic Trauma from Us to Freud: Pure Trauma, Retroactivity and Reconstruction. Int. J. Psycho-Anal., 69:113-128Hulme, T. S. (1924) Classicism and Romanticism in Speculations. London: routledge&Kegan PaulLacan, J. (1963-64) Le séminaire-Livre XI, Les Quatre Concepts fondamentaux de la psychanalyse. Paris, Le Seuil, “Champ freudien”,1973Novelletto, A. (1995) Introduzione. In: A. Novelletto (a cura di), Adolescenza e trauma. Roma: BorlaSandler, J. (1967) Trauma, strain and development In: S. S. Furst (ed.), Psychic Trauma. New York and London: Basic Books.Strenger, C. (1989) The Classic and Romantic Vision in Psychoanalysis. Int. J. Psychoan., 70:593-610