Società Psicoanalitica Italiana
Centro Milanese di Psicoanalisi ”Cesare Musatti”
Giornata della Memoria 2020
Report di Maria Antoncecchi
In occasione del 75esimo anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, in collaborazione con la Casa della Cultura, il Centro Milanese di Psicoanalisi “Cesare Musatti” ha svolto, domenica 26 gennaio 2020 la giornata dal titolo :
TRAUMI STORICI: TRACCE, EREDITA’, SPERANZE
La tazza salvata
Hanno partecipato al mattino: in qualità di chair Anna Ferruta che ha presentato i lavori di Anna Maria Nicolò , diIsabella Merzagora e di Stefano Trinchero. Nel pomeriggio in qualità di chair Ronny Jaffé ha introdotto l’intervento di Alberto Sonnino accompagnato dal commento di Sara Boffito. Hanno condiviso la loro esperienza con il pubblico Giulio Pagano, Sonia De Cristofaro e Marta Pezzati.
Silvia Veggetti Finzi a nome della Casa della Cultura ringrazia il Centro Milanese di Psicoanalisi , in particolare Anna Ferruta e Ronny Jaffè, per l’organizzazione della giornata. Ci tiene a sottolineare che la Casa della Cultura condivide con il Centro “Cesare Musatti” gli stessi valori democratici e gli stessi obiettivi. Entrambe le istituzioni hanno a cuore il tema della memoria, della ricerca della verità e del rispetto della diversità e delle differenze consci che la scelta delle parole incida sulle persone, sulla società e pertanto sulla storia. Ritiene che il riaffacciarsi dell’antisemitismo renda opportuno oggi più che mai occuparsi di questi temi per contrastare la tentazione a dimenticare.
Giuseppe Sabucco nel portare i saluti del centro milanese si collega al pensiero di Emanuele Severino, il filosofo, secondo cui l’essere è eterno, per invitare tutti a considerare la possibilità che il nazifascismo è eterno così come lo è la possibilità di contrastarlo. Come direbbe Primo Levi: “Se è accaduto, può accadere ancora”. Sabucco ritiene importante la memoria ma deve essere accompagnata dall’impegno a riflettere su questi temi al fine di costruire degli anticorpi individuali e collettivi.
Anna Ferruta introduce la giornata sottolineando come ricostruire le tracce lasciate nella psiche dai genocidi del Novecento sia uno degli obiettivi della Giornata della Memoria che , attraverso la pluralità delle voci soppresse dalla violenza e delle voci delle generazioni che hanno continuato a vivere, vuole farsi garante di un passaggio generazionale che non porti con sé la dimenticanza e la cancellazione delle vittime dalla memoria. Trasmettere le tracce, però, non vuole solo dire interrogarsi sui meccanismi che perpetrano la violenza ma anche trovare i segni di una fiducia nella vita e di una speranza nel futuro che nonostante tutto hanno continuato ad esserci e che non sono state soppresse dal male.
Ricorda la collega Valeria Egidi Morpurgo, scomparsa recentemente, con la quale da molti anni condivideva, al Centro Milanese di Psicoanalisi, il gruppo di ricerca sui traumi storici collettivi e le loro tracce, promotore, tra molte altre iniziative, della Giornata della Memoria. La scelta del titolo” La tazza salvata” avvenuta insieme a Valeria Egidi Morpurgo nasce dalla storia di una tazza esposta al museo degli ebrei di Tel Aviv salvata da un ebreo sopravvissuto che l’aveva nascosta a rischio della vita durante l’internamento nel campo. Perché conservare una tazza con impresso i simboli di chi ha seminato morte e distruzione?
Marta Pezzati legge il testo scritto da Valeria Egidi Morpurgo che partendo dall’immagine della tazza cerca di risalire ai sentimenti della persona che l’ha tenuta con sé e riportata intatta dal campo. La forza della storia della tazza salvata dall’ebreo internato sembra essere l’emblema della resistenza della vita di fronte alla distruzione psichica e fisica. La tazza, portatrice di nutrimento, di cura e di calore per sé e per gli altri, mantiene lo spiraglio della speranza, della salvezza del bene, dell’amore e della gratitudine. Salvare la tazza è come salvaguardare l’amore per la vita e la speranza di rimanere umani. Un oggetto semplice, piccolo ma anche fragile che diventa un oggetto interno/esterno di cui prendersi cura per rimanere umani anche quando tutto sembra perduto.
Anna Maria Nicolò osserva come il tema della giornata, la memoria, sia un punto di incontro tra funzionamenti psichici collettivi e quelli individuali. La psicoanalisi ha descritto i molteplici linguaggi attraverso i quali si può manifestare il dolore. Il livello verbale, quello corporeo di cui parla Ferenczi, “frammenti clinici morti” che prendono la strada somatica e si iscrivono nel corpo ma sottolinea come anche l’agire può veicolare un dolore post-traumatico diventando una modalità organizzativa di legami traumatici che si trasmettono da genitori a figli. Quando il trauma supera la capacità del soggetto di elaborarlo si attivano meccanismi complessi ( ad esempio la traslocazione del dolore nell’altro di cui parla Meltzer) che passano da una generazione all’altra. La trasmissione transgenerazionale è un passaggio tra le generazioni di contenuti che non sono stati elaborati e trasformati e di funzionamenti portatori di una memoria traumatica che lega i membri di una famiglia senza che essi ne siano consapevoli, condannando le vittime dei traumi e i loro discendenti. E’ emblematico, continua la Nicolò, a questo proposito il silenzio dei sopravvissuti che temono di non essere creduti ( ricordiamo i sogni narrati da Primo Levi) perdendo ogni speranza di essere ascoltati o di quanti non vogliono rinnovare, attraverso il dolore dei loro cari, il vissuto traumatico. Evidenzia come la difficoltà nel raccontare e raccontarsi deve superare prima di tutto i meccanismi difensivi che sono stati messi in atto per sopravvivere al dolore. Ricorda le ricerche di Amati Sas sulle conseguenze delle torture che ipotizza, basandosi sulle teorie psicoanalitiche di Bleger, l’esistenza di uno stato di ambiguità che permette al torturatore di attuare un’intromissione nel mondo interno determinando un attacco profondo al senso di identità. Diventare testimoni significa, quindi, riprendere il coraggio alla vita e assumere una posizione attiva rispetto al gruppo sociale. La narrazione costruisce l’autobiografia e fonda il sé ma è la risposta dell’altro che dà senso e riconoscimento alla testimonianza. Conclude sottolineando l’importanza della comprensione dei funzionamenti sociali e culturali sostenuti dalla capacità di guardare al futuro senza ignorare la storia passata .
Anna Ferruta, a proposito di tracce, ricorda come Il centro studi Primo Levi, in occasione del centenario della sua morte, ha promosso la ricerca delle copie del libro “primogenito” , come fu definito dello stesso Levi, “Se questo è un uomo” stampato l’11 ottobre 1947. Della prima edizione ne furono stampate 1500 copie. L’esordio di Levi come scrittore, sottolinea Ferruta, non fu immediato né scontato e ci volle molto tempo prima che venne riconosciuto il suo valore umano e letterario, basti pensare che venne inizialmente rifiutato da Einaudi nel 1946. L’idea di mappare e ricostruire la storia delle prime copie, da parte del direttore del centro Fabio Levi, è un tentativo di ricostruire una memoria attraverso le storie di chi l’ha posseduto, dei passaggi di mano, delle note e delle dediche che possono tracciare il percorso di un libro che ha dovuto fare molta strada prima di diventare un caposaldo della nostra storia e della nostra cultura.
Isabella Merzagora si interroga su come si può spiegare il coinvolgimento di centinaia di migliaia di persone “comuni” in azioni così violente contro altri popoli. L’antisemitismo ha una storia millenaria e sembra essere l’emblema di ogni razzismo. Invita il pubblico a considerare il numero delle persone coinvolte direttamente o indirettamente dello sterminio degli ebrei: coloro che lavoravano nei campi di sterminio, nei convogli, nei reparti speciali impiegati nei massacri degli ebrei o che erano funzionari, industriali che avevano stabilimenti nei campi di sterminio e usufruivano di manodopera gratuita. Il numero delle persone che hanno partecipato allo sterminio è molto alto. La spiegazione di come questo sia potuto accadere porta a pensare ad una molteplicità di cause oltre a quelle economiche, politiche e sociali. Merzagora individui tre gruppi di cause: l’autoritarismo, conformismo e deresponsabilizzazione, la sordità della coscienza e negligenza per autonomia di giudizio e, infine l’”altrismo”. Si sofferma su quest’ultimo che si basa sulla distinzione tra “noi” e “loro” mettendo in discussione l’unità dell’essere umano; una “non identificazione” con l’umanità nel suo complesso, il rifiuto dell’universale. In questa visione gli “altri” non sono considerati come individui ma come gruppi, tipi o stereotipi. Ricorda inoltre come prima dei campi di sterminio la Germania aveva già cominciato un programma di eutanasia dei bambini disabili con la collaborazione dei medici. A questo riguardo ritiene che sia stata determinante la presenza di un idealismo pervertito che non ha risparmiato la scienza medica coinvolta a piene mani nei programmi di distruzione di massa.
Anna Ferruta osserva come i numeri dello sterminio sono impressionanti e avendo fondato la nostra identità di psicoanalisti sul prenderci cura oggi ci chiediamo come sia potuto accadere che alcuni abbiano messo la loro vita al servizio della distruzione. Si chiede se i testimoni sono coloro che erano presenti al tempo dei genocidi o se non siamo diventati testimoni tutti noi nel momento in cui siamo venuti a conoscenza di ciò che è accaduto.
Stefano Trinchero, psicoanalista, referente del gruppo PER (psicoanalisti europei per i rifugiati) collega la memoria al tenere dentro, al ricordo, al lutto, a ciò che è stato e che non è più. Secondo Trinchero la tazza salvata suggerisce una memoria che parla del bisogno di prenderci cura di un oggetto interno ed esterno anche nelle situazioni più disperate così come succede al protagonista del film “Il figlio di Saul” che va alla ricerca di una sepoltura per il figlio per poter accedere al lutto. Allo stesso modo il libro di Primo Levi affronta il dolore del ricordo, per sopravvivere all’oblio, per superare l’angoscia di non essere creduto. Oggi esiste un malessere diffuso dovuto alla difficoltà di gestire una globalizzazione che minaccia l’ identità e alimenta un sentimento di solitudine. La presenza di questi disagi possono spingere a modalità di funzionamento arcaici nelle quali la paura dell’altro può portare a un “razzismo senza razza” ossia a comportamenti espulsivi nei confronti del diverso. Trinchero ci invita a non dimenticare che la Shoah non è responsabilità di poche persone ma ha visto la partecipazione di molti .
Ronny Jaffè : sottolinea l’importanza dei nomi e di come oggi, a differenza di un tempo, si fanno i nomi dei carnefici , delle vittime e dei Giusti dando corpo e spessore a ciò che è accaduto. Primo Levi è stato il primo a parlare in un momento in cui i sopravvissuti vivevano in estrema solitudine perché sentivano il pericolo di non essere creduti. Jaffè ritiene che ciò che ha permesso la parola ai sopravvissuti è stata la coralità e che oggi sia sempre più importante accostare la memoria del passato agli eventi attuali. Concorda che la specificità del nazismo è il concetto supremo di purezza razziale, un’ideologia supportata anche da una parte della classe medica. Aggiunge che c’è stato un destino diverso degli ebrei occidentali, che dopo l’illuminismo sono usciti dal ghetto, a differenza di quelli orientali, creando un elemento perturbante.
Giuseppe Sabucco sottolinea il rischio di considerare il nazismo un evento specifico. A questo proposito vuole ricordare come, ad esempio, molto prima dell’avvento del nazismo, l’Inghilterra fu il primo stato ad aver realizzato uno studio su quanto sarebbe costata una famiglia di pazzi, mentre in Svezia si praticava da tempo la sterilizzazione dei disabili. Ricorda come la dottoressa Nissim rifiutava l’idea che il nazismo fosse una forma di follia e lo considerava una possibilità esistente, e proprio per questo è indispensabile la funzione della memoria.
Alberto Sonnino ringrazia il centro milanese perché affronta da tanti anni con grande passione e competenza il problema della testimonianza e della memoria. Ritiene che la memoria della Shoah sia importante, non per gli ebrei ma per tutta la società civile. Secondo Sonnino il percorso di elaborazione è appena iniziato e deve riguardare i carnefici, coloro che tendono a cancellare la memoria perché senza un movimento collettivo non ci può essere la testimonianza del singolo che ha bisogno di trovare un ambiente in grado di accogliere le sue parole. Sonnino parla di “un mondo intorno ad Auschwitz”, che in virtù di una controidentificazione collettiva tende a mantenere le distanze e rende difficile la condivisione delle esperienze. La testimonianza porta con sé un atto di accusa che non può essere raccolto senza un processo di elaborazione collettiva. I sopravvissuti, infatti, per un lungo periodo, non sono riusciti a rompere il silenzio se non quando la presenza delle nuove generazioni, figli e nipoti, hanno mobilitato nuove energie rendendo possibile il ricordo e avviando un processo trasformativo dell’esperienze traumatiche. La memoria del passato ha bisogno di speranza nel futuro. E’ importante avere presente che il negazionismo è purtroppo, ancora molto presente basti pensare all’atteggiamento della Turchia nei confronti del genocidio del popolo armeno, alla persecuzione dei cristiani in molti paesi o dei migranti che muoiono nel mediterraneo. Sonnino fa un lungo elenco di responsabilità di chi sapeva e non è intervenuto, di chi ha voluto le amnistie, dopo la guerra, per i tanti che erano implicati con il regime in Francia, in Germania e in Italia, per chi ha aiutato la fuga dei gerarchi nazisti. In Germania il processo di elaborazione riguarda i tedeschi, basta pensare che prima dell’avvento del nazismo, avevano già avviato lo sterminio delle “vite non degne di essere vissute”( il progetto T4) Sonnino ritiene che bisogna avere il coraggio di prendere atto della complicità di buona parte della popolazione.
Sara Boffito si collega al trauma come esperienza impensabile e in particolare ai traumi collettivi che possono avere bisogno di alcune generazioni per essere elaborati e trovare parola. Boffito riprende il pensiero di Thomas Ogden che definisce il trauma come un evento che è “troppo”; troppo inquietante, troppo da pensare e troppo da sentire. Ogden ritiene che alcuni traumi possono essere elaborati solo in un contesto di gruppo perché il singolo individuo ha una capacità limitata di poter pensare e sognare gli eventi. Un limite oltre il quale si sviluppano sintomi che hanno il compito di segnalare la presenza di pensieri impensabili. E’ il terzo soggetto inconscio a poter creare ciò che ai singoli è impedito. Boffito ricollegandosi ad Ogden sottolinea la funzione della poesia e della letteratura che hanno reso pensabile, attraverso la narrazione e la creatività, le esperienze traumatiche. Ricorda come Levi ne “La tregua” descrive come anche all’interno dei campi c’era l’esigenza profonda di sognare e fa riferimento all’importanza di essere e sognare insieme. Nancy Smith riprendendo la concezione di Ferenczi ha descritto “Orpha”, uno stato mentale, nel quale un frammento del sé funziona come un angelo custode ,in grado di anestetizzare la coscienza in un ultimo disperato tentativo di sopravvivenza psichica. Il sacrificio di sè diventa un atto estremo per salvarsi.
Ronny Jaffè introduce la seconda parte del pomeriggio dedicata ai discendenti di persone sfuggite ai campi di stermino che hanno raccolto la testimonianza dei loro cari e condividono la loro esperienza di testimoni di terza generazione.
Giulio Pagano ,nipote di una donna scampata alle persecuzioni, oggi vive e studia nel Regno Unito. Laureato in scienze politiche e interessato alla criminologia e ai diritti umani descrive come sin da bambino ha sentito il legame con il passato che aveva colpito la sua famiglia. Pagano descrive la responsabilità che i discendenti sentono, anche in modo inconsapevole, di custodire la memoria della famiglia. Una necessità che l’ha portato da adulto a raccogliere la storia della sua famiglia in un libro. Nel raccontare la fuga di sua nonna, avvenuta insieme alla sorella e i suoi genitori, all’età di 19 anni, nel febbraio del 1944, si chiede quanto coraggio bisognava avere per prendere questa decisione e andare verso un futuro incerto. La fuga in Svizzera potè avvenire grazie a Salvatore Corrias, un finanziere sardo, partigiano che aiutò centinaia di ebrei, e non solo, a mettersi in salvo. Venne poi catturato e fucilato nel 1945 all’età di 39 anni. Salvatore Corrias ricevette in seguito la Medaglia d’oro al merito civile ed è stato riconosciuto dallo stato d’Israele nel 2006, Giusto tra le nazioni.
Marta Pezzati è interessata in modo particolare ai pazienti con traumi precoci. La sua testimonianza riguarda la vicenda dei suoi nonni. Un nonno ebreo che fuggito a Casablanca durante le leggi razziali fu, in seguito, fatto prigioniero dall’esercito alleato e un nonno greco che , molto giovane, si trovò a far fronte alla perdita di tutta la sua famiglia per mano dei nazionalisti turchi di Kemal Ataturc. Pezzati come discendente di perseguitati e come psicoanalista vuole condividere il sentimento di rispetto per coloro che all’interno della sua famiglia e non solo, sono andati incontro a sofferenze e perdite terribili. Ci tiene a sottolineare che la loro salvezza ha permesso alle generazioni successive di esserci oggi e di poter raccontare la loro storia. Ritiene che le vicende personali siano il luogo “universale” entro cui si compie quell’identificazione umana e morale con le vittime, senza la quale il dibattito sulla Shoah diventerebbe accademico e difensivo. Conclude con l’invito di Grossman, uno dei massimi esponenti della letteratura ebraica, a preoccuparci della mancanza di senso di vergogna di coloro che oggi esprimono atteggiamenti antisemiti e ritiene sempre più necessario mantenere viva la memoria di questa terribile esperienza umana.
Sonia De Cristoforo contribuisce ai lavori della Giornata sulla memoria raccontando la storia dello zio materno di origine slovacca che, a causa del suo impegno nella resistenza, ha subito, tra le tante traversie, esperienze di prigionia e di internamento. La traccia lasciata da questa vicenda all’interno del gruppo familiare, sembra essere quella di una capacità di resistenza e di resilienza nonostante le condizioni disumane nelle quali è stato costretto a vivere. De Cristoforo ci tiene a sottolineare come sia difficile ricordare la Shoah, perché è difficile trovare le parole per descriverla. Parole che sembrano non bastare ma che tuttavia bisogna pronunciare. E’ la coralità delle voci, il racconto delle storie a lasciare il segno dell’indistruttibilità dell’essere umano. E’ la tazza salvata o il piccolo dizionario dello zio posseduto durante la prigionia a testimoniare la presenza di un’umanità che non si lascia annientare. La Giornata della Memoria, pensa De Cristofaro, ha la funzione di creare un antidoto, di tenere uno spazio aperto contro l’angoscia della ripetizione.
Anna Ferruta conclude la giornata mettendo in risalto alcuni punti emersi dagli interventi e dal dibattito: l’importanza di sviluppare un ascolto partecipativo per poter creare un ambiente ricettivo alle testimonianze (Sonnino); la presenza di una polifonia di voci, le storie personali (Pagano, Pezzati, De Cristoforo) si sono intrecciate a riflessioni teoriche psicoanalitiche (Nicolò) ma anche di carattere numerico(Merzagora) restituendoci una visione sicuramente più integrata; l’evidenza di come il trauma individuale va inscritto nel dramma collettivo e di come l’arte e la letteratura(Boffito) hanno contribuito all’elaborazione collettiva dei traumi attraverso il racconto degli eventi drammatici aiutandoci a trovare una dimensione umana lì dove sembrava perduta. Infine la Giornata ha permesso alle persone presenti di vivere emozioni intense facendoci diventare tutti dei testimoni partecipi e rendendo possibile la conservazione della memoria e il passaggio del testimone attraverso le generazioni.