ORI GERSHT
Still Life. Ai confini tra il vivere e il morire.
Geografie della Psicoanalisi, Giornata Nazionale della Ricerca della SPI.
Roma, 26 e 27 novembre 2022
Report a cura di Daniela Scotto di Fasano
Giugno 2020, riunione – on line, imperversa il Covid – del gruppo di studio e ricerca Geografie della Psicoanalisi, coordinato da Lorena Preta.
Si ipotizza di organizzare in autunno un seminario di due giornate sul tema della morte, ne siamo convinti per quanto va accadendo nel mondo da alcuni mesi. Ma una volta di più il Covid ci mette il bastone tra le ruote e si rimanda.
Rimandare dal 2020 al 2022 ha però, da un certo punto di vista, permesso, a Lorena Preta in particolare, di ‘lavorare’ il tema, individuando, tra gli psicoanalisti e gli esponenti di altri vertici disciplinari, menti tra loro assortite per gli specifici interessi di ciascuno. Ne è emerso un convegno dalle tonalità musicali di una jam session, davvero frutto e esito di un fertile incontro della mente del gruppo riunito il 26 e il 27 novembre a Roma nella sede della SPI in via Panama 48.
Una tonalità musicale che tenterò di restituire nella forma data a questo report, che scelgo di impostare – se mi si consente il paragone – sull’esempio delle Sinfonie di Beethoven, dove la germinazione di brevi motivi va a comporre in un crescendo il tema principale, creando una tessitura continua di brevissimi temi ripresi e ripetuti.
Durante il convegno si è creata l’esperienza di un lavoro di gruppo tra tutti i relatori e tra questi e il pubblico presente in sala e online, un vero segno del cambiamento rispetto ad altri incontri, quello che nel congedo dai lavori Lorena Preta ha chiamato il piacere di pensare, un vero Eros rispetto al Thanatos del blocco o dell’istituzionalizzazione del pensiero.
Nella speranza di rendere questa calda atmosfera musicale, scelgo dunque di correre il rischio di dare l’impressione – nella parte conclusiva del report – di ‘ricominciare da capo’, quando, in fondo, riprendo le singole relazioni da punti di vista che mi auguro mettano in luce la sintonia dei discorsi tra loro con il discorso inaugurale di Lorena Preta. Che appositamente scelgo di illustrare in conclusione.
Dobbiamo a Cristiano Rocchi il titolo Still Life, poi integrato dalla frase Ai confini fra il vivere e il morire, a ‘immobilizzare’, per così dire, il momento del fra, come bene illustrato dall’immagine scelta come logo dell’incontro, dell’artista israeliano Ori Ghersht, la foto di una brocca che l’artista fa esplodere e fotografa mentre va in frantumi spargendo pezzi di porcellana e gocce d’acqua immobilizzati eternamente nel fra: non più solido contenitore con il suo contenuto liquido, in frantumi la relazione contenitore-contenuto. Ai piedi, solide, rosse, brillanti, un tappeto di mele rosse: vive. L’indifferenza del mondo naturale che fa da scenario al nostro – nascendo – essere esposti all’orlo del baratro, la morte?
Questa l’illustrazione di ciò che l’astrofisico Brian Greene, in collegamento video dagli Stati Uniti, ipotizza con il suo team di colleghi sul percorso dell’universo verso la propria fine. Discorso, quello di Greene, che ha generato sconcerto (tra gli interventi dal pubblico, Marco Sarno si è e gli ha chiesto: “Come ci torno lunedì in studio? Con che stato mentale con i miei pazienti? Ora che so cosa ci aspetta….”; Roberto Musella, riferendosi al salto dall’infinitamente piccolo della soggettività umana all’infinitamente grande dell’universo, si è e gli ha chiesto se si possa trasporre il valore che la vita ha per l’uomo alla vasta scala dell’universo, e, se sì, in che termini), ma ha a mio parere anche messo molto bene in luce, con le parole di ‘questa’ scienza (che non è ‘tutte’ le scienze), come le mele restano indifferenti rosse e vive mentre le nostre relazioni contenitore-contenuto vanno in frantumi, come accadrà, secondo le ipotesi dal valore di ‘evidenze’ illustrate da Greene, tra molte migliaia di anni all’universo.
Controcanto al suo intervento, quello della psicoanalista attenta agli studi delle neuroscienze Rosa Spagnolo, che ha messo in evidenza che, se non pensiamo alla vita come materia, con una quantità di energia finita che dissipa per mantenersi in equilibrio, ma come una struttura capace di evolversi in qualunque incarnazione materiale si adatti meglio ai suoi scopi, allora anche la sua durata potrebbe variare attraverso nuove forme adattive al contesto ambientale.
Anche la vita dell’universo?
Molte le ipotesi gemmate nel corso dell’incontro intorno ai bordi del morire.
Sudhir Kakar (fin dall’origine prezioso protagonista, con Gohar Homayounpour e Mariano Horenstein, di Geografie della Psicoanalisi) ha proposto nel suo contributo (ricorrendo, per farlo, all’esperienza tra il vivere e il morire realmente vissuta dal poeta indiano Tagore) un al di là, un oltre che ci rende vivi nella morte, grazie alla morte. C’è nel suo contributo (tradotto da Simonetta Diena) l’idea di una prossima vita (parole con cui conclude la sua relazione), c’è la proposta che gli attaccamenti umani che aderiscono e appaiono costituire il Sé siano transitori. Ancora con i versi di Tagore: “Questa vita è l’attraversamento di un mare dove ci incontriamo nella stessa stretta nave. Nella morte raggiungiamo la riva e andiamo verso mondi differenti”.
Tutt’altri il taglio e la conclusione del toccante contributo della studiosa della civiltà bizantina Silvia Ronchey. La sua relazione, con il sostegno di immagini ritraenti aree della vita di James Hillman (il suo studio, la sua casa, il giardino nello splendore di un tiepido autunno, il gatto che lo ha accompagnato fino alla morte e che è a sua volta morto immediatamente dopo), è invece drasticamente impregnata di ‘mai più’, un ‘mai più’ di cui è metafora la foto di un gigantesco albero del giardino di Hillman colpito da un fulmine e crollato a terra. Un ‘mai più’ però ‘trasfigurato’ nella toccante testimonianza dell’accompagnamento alla morte che la studiosa ha garantito a James Hillman, il quale gliel’ha chiesto al preciso scopo di pubblicare in un libro postumo le loro riflessioni, avviate due anni prima nella città simbolo vivo della morte dell’Impero d’Oriente, Ravenna, su quale possa essere l’ultima immagine.
Ma con Andrea Baldassarro di nuovo si profila un rilancio del discorso, e del suo, di conseguenza, ‘ingarbugliarsi’: intestazione del suo intervento è ‘vita morte’, a indicare la non opposizione, il non conflitto tra la vita e la morte. Anzi, c’è di più: addirittura, dice, se la natura del piacere è ambigua, tesa all’aumento quanto alla diminuzione delle tensioni, ed è complicata dalla tendenza del piacere stesso ad estinguersi nel momento in cui si esercita, è questo che il soggetto ritrova al cuore di se stesso quando scopre che alberga un vuoto, un luogo di non-esistenza, cui desidera in fondo solo ritornare. Il vuoto (che si ritrova a diversi livelli anche nel pensiero dell’Oriente) dell’aspirazione a ‘fare il vuoto’. Al di là del principio di piacere c’è il piacere stesso allora, un vuoto sempre incompiuto ed enigmatico.
Ma Nadia Fusini rilancia. Il piacere non è l’aspirazione a ‘fare il vuoto’, anzi: nel dipinto di Hans Holbein, ai piedi dei due potenti, giovani, ricchi ambasciatori, immersi nelle insegne del potere e del sapere (libri, mappamondi, strumenti scientifici), un teschio in anamorfosi. Nessuno scampo: nel pieno del fulgore della vita, ci sorprenderà la morte, che cancellerà ogni possanza vitale, così ben espressa mentre sono in vita dai due ambasciatori. Ambasciatori, dunque – si chiede Nadia Fusini – di Mr. Death, mentre a un primo sguardo superficiale sembravano al servizio di Lady Life?
In effetti, nell’apertura dei lavori del convegno, il presidente della SPI Sarantis Thanopulos si è chiesto: cos’è la rappresentazione pittorica chiamata ‘natura morta’? Rappresenta la vita o la morte? Un piatto vuoto sul tavolo, un vaso di fiori, una mela, dipinti sulla tela, sono fuori dal corso della vita quotidiana, astratti dalla loro esistenza naturale, o di questa vita sono, invece, testimonianza persistente che la sottrae alla caducità? Egli è incline a pensare che la ‘natura morta’ rappresenti cose che sono vive perché hanno fatto esperienza di morte: essendo morte sul piano concreto (del loro uso, della loro funzione, della loro sensorialità immediata) possono rivivere senza limiti spazio-temporali, persistere oltre la loro effimera esistenza.
Non si può barare, così, sull’onda lunga di tale dato di realtà, qualcuno dal pubblico, nella seconda giornata, ha evocato il discorso di Pirandello con la madre morta, di cui si vede una brillante trascrizione in immagini nel film del 1984 Kaos dei fratelli Taviani. Luigi Pirandello nei “Colloqui coi personaggi – II” (dalle Novelle), pubblicato sul “Giornale di Sicilia” (11 – 12 settembre 1915) scrive: “…. ma tu, Mamma? Proprio in questo momento lasciarmi, partirti da quel tuo cantuccio laggiù, ove io venivo col pensiero a trovarti ogni giorno […] Perché tu non puoi più pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io ti sento! È ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi […] piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati […] ma che sono io, che sono più io, ora, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io? Io, figlio, fui e non sono più, non sarò più…”.
Bion, ricorda nel suo intervento il segretario scientifico della SPI Elena Molinari, tenne a Parigi un seminario che rappresenta, in una certa misura, il testamento del suo lavoro scientifico. Bion in quest’ultimo seminario sfidò la convenzione che le parole siano l’unico mezzo per trasmettere delle idee. Coerentemente con le sue ultime opere fece sì che per il pubblico presente – e per il lettore successivamente – la parola non fosse separabile dalle emozioni così da produrre un’esperienza. Inoltre aggiunse che per essere un’esperienza trasformativa, cioè un’esperienza di cura, è necessario che essa sia una ‘bella’ esperienza.
Mariano Horenstein tratta nel suo intervento di un artista vicino tanto a lui quanto a noi, Lucio Fontana, che, tra l’Italia e l’Argentina, ha inventato il Movimento Spazialista. Lo Spazialismo, con il forte desiderio di allontanare l’arte dal cavalletto per catturare il tempo, il movimento, potrebbe essere – ha detto Horenstein – uno dei nomi del progetto Geografie e il forte desiderio di catturare, dalle spalle di Bion per come lo ha evocato Molinari, ciò che sfugge agli approcci più tradizionali. La tela strappata, il taglio, lo spazio spezzato sono la cifra di Fontana… e della nostra prorompente contemporaneità. Questi artisti ci indicano una nuova zona di frontiera, tra geografia e psicoanalisi, ma anche tra vita e morte, tra clinica e cultura, che nel suo intervento Horenstein ha saputo esplorare con profondo calore e profonda umanità.
Lo stesso calore, la stessa dolente umanità nel testo della psicoanalista iraniana Gohar Homayounpour (tradotto da Viola Petrella e Vanna Berlincioni), che aveva inizialmente programmato di parlare di morte e decadence, esemplificate dal crollo dell’edificio Metropol ad Abadan, nella provincia iraniana del Khuzestan, il 23 maggio 2022. Metropol dal greco metropolis, cioè città madre, patria, mentre la provenienza di decadente è da ricercare nella parola decay, ed è per questo che Homayounpour propone un significato più appropriato di decadence come collasso. Collasso – come quello dell’edificio di dieci piani ad Abadan. Legalmente autorizzato ad avere solo sei piani, durante la costruzione ne furono aggiunti quattro; il crollo ha avuto conseguenze letali per molti. Homayounpour riesce a mostrare che il collasso è il destino inevitabile del soggetto colto in un non-discorso di decadenza, ed è il collasso sociale, politico e culturale destinato a seguire il soggetto caduto. Nel prosieguo della sua relazione, però, la psicoanalista si sente ‘costretta’, per così dire, dai fatti in corso in Iran, a raccontare una storia diversa, perché – ha detto, commuovendo l’uditorio – se non ne fosse stata turbata, non avrebbe potuto essere considerata un soggetto pensante – e – ha affermato – ne è stata decisamente turbata. Quindi, l’enfasi del suo discorso, dalla morte e dalla decadenza, si è spostato verso un’etica della vita: forse, ha detto, un giorno racconterà ciò che avrebbe voluto dire, influenzata da ciò che è successo, turbata e trasformata da esso. Ma non è questo il giorno; ora è il momento di parlare di qualcosa di nuovo… dell’antidoto alla morte e alla decadenza che abbiamo osservato nell’attuale rivolta sovversiva femminile in Iran, con quella che ha definito la nascita di una nuova eroina epica femminile.
Anche Francesconi e Scotto di Fasano, nel loro contributo, da un vertice opposto ma complementare, si sono occupati di ciò che può accadere al soggetto e, per ricaduta inevitabile, al soggetto sociale, politico e culturale se si trasforma l’angoscia di morte in morte dell’angoscia. Angoscia della propria morte, angoscia della morte di parti di sé soggette, nell’invecchiare, a morire, angoscia di individuarsi come soggetti, sporgendosi sul baratro dell’identità, dal momento che, come ha detto James Hillman (2008) Si muore in vita.
Mi piace, come anticipato, chiudere questo report con il discorso di apertura di Lorena Preta, mostrandone l’intreccio con i contributi dei vari relatori.
Lorena Preta coordina fin dal 2008 Geografie della Psicoanalisi, gruppo di studio internazionale nato dal titolo di uno dei numeri di Psiche di cui è stata direttrice dal 2003 al 2009.
Essere eterni è sconveniente, così Lorena Preta nel suo intervento di apertura del convegno.
E in effetti che Essere eterni sia sconveniente è in fondo la conclusione alla quale, con le dovute differenze di approccio disciplinare, sono arrivati tutti i relatori: Nadia Fusini, letterata, parla dei due ambasciatori del dipinto di Holbein come degli ambasciatori, per anamorfosi, di Mr. Death; Greene, astrofisico, ci ha sorpresi e sconcertati nell’illustrare il destino – nondimeno – dell’universo; Baldassarro, psicoanalista, ha mostrato, nella sua dotta disamina del controverso concetto freudiano di pulsione di morte, come questa aspiri ad una sorta di omeostasi definitiva, di annullamento delle tensioni, di raggiungimento di uno stato di equilibrio senza spinte né aspirazioni. Essa lavora silenziosamente, apparentemente sottomessa al suo padrone, il principio di piacere, che è in realtà al suo servizio. E conclude che la pulsione di morte non è solo una spinta alla (auto)distruttività, come viene spesso pensata, ma va considerata come “desiderio di non desiderio” (Aulagnier, 1975).
Paradossalmente, anche Sudhir Kakar, nel descrivere un al di là della vita terrena, illustra la necessità che la vita terrena giunga a compimento, proprio per accedere all’al di là del reale. E Gohar Homayounpour eleva un’accorata critica alla torre di Babele rappresentata dal Metropol. Il cui collasso – dovuto alla pretesa dell’innalzarsi ben oltre il consentito dal principio di realtà, in una pretesa di onnipotente prevaricazione delle leggi della fisica – mostra a cosa si è destinati – il collasso – se si pretende la propria sconveniente eternità. Tutt’altro rispetto alla morte cercata dalle nuove eroine epiche iraniane, cercata per innalzare un inno alla vita libera e buona qui e ora.
Anche Rosa Spagnolo afferma che la morte vincola la vita, ma ipotizza che la sua durata e la sua persistenza possono arricchirsi e implementarsi con l’evolvere degli organismi intelligenti. Anche in tal caso, insomma, si parla di durata e persistenza, non di eternità.
Eternità tenacemente perseguita dall’uomo, come espressione di strapotere sulla propria finitezza espressa dal principio di realtà. Lo mette molto bene in luce Lorena Preta citando la soluzione (cui sono ricorsi personaggi estremamente ricchi) di trasformare le proprie ceneri in diamanti oppure in coralli, con lo scopo di venire poi trapiantati in una barriera corallina in uno degli oceani del pianeta. Oppure evocando un’altra tecnologia riguardante il corpo, la Criogenesi, cioè la conservazione mediante tecniche di congelamento del proprio corpo fino a quando non sia possibile un risveglio da questa forma di ibernazione che lo riporti in vita nel momento in cui vengano trovate le tecniche adatte ad assicurare la cura della malattia che lo stava portando alla morte naturale (esistono al momento, ha detto, 2 siti per la criogenesi negli Stati Uniti e 1 nelle Repubbliche Sovietiche, dove sono già conservati alcuni corpi trattati con questo procedimento). O ancora, infine, riflettendo sulle nuove forme di sopravvivenza consentite dall’identità digitale e interattiva che permette al sistema di adoperare tutti i contenuti che la persona scomparsa ha pubblicato sui social, le chat, le mail e che possono essere evocati in ogni momento con una fisicità diversa da quella naturale del corpo ma sufficiente ad illudersi che permanga una presenza perpetua, dilazionando l’elaborazione del lutto o facendo in modo che non avvenga mai.
Insomma, tornando a Francesconi e Scotto di Fasano, un’angoscia di morte intollerabile, che i relatori collegano, sulla scia del pensiero di Bleger, a relazioni simbiotiche immobilizzate, dove, dato il carattere arcaico dei processi, il persecutore non può scomparire davvero e persiste sotto forma di una parte alienata di sé in uno spazio altro per poter continuare a vivere, un Sé alieno ‘nemico’, da attaccare come in un processo autoimmune e, tuttavia, conservato come elemento clivato del sé. Ne deriva un patto tra parti vive e morte; ancora con Bleger, la mente, pur rischiando di soccombere, ponendosi come spettatrice esclusa, se vuole vivere, deve riparare e far vivere anche i suoi oggetti morti, accanto al più ‘ovvio’ far morire continuamente gli oggetti vivi. Si crea così un cadavere vivente, conservato, controllato e immobilizzato.
Ben diverso il modo di far fronte a tale angoscia, evocato da Silvia Ronchey, escogitato da Hillman; un modo che affonda – nel cercare l’ultima immagine – nella relazionalità: l’ultima immagine va cercata assieme a chi sappia sintonizzarsi, come Ronchey con lui, sulla tua stessa lunghezza d’onda.
Infatti, non a caso nel suo intervento Mariano Horenstein sottolinea come, affascinati dagli spazi delimitati – dei corpi biologici o sociali, delle geografie identitarie, delle menti – perdiamo di vista che siamo fatti di interstizi. Siamo abitanti – forse gli analisti più di chiunque altro – di uno spazio interstiziale. L’interstizio è uno spazio dove ciò che viene privilegiato sono le relazioni – tra significanti, tra soggetti, tra mondi, tra discipline – e dove la presenza dell’assenza è ineludibile.
Ma la presenza dell’assenza sappiamo, con Bion, essere persecutoria, e infatti nel prosieguo del suo discorso Horenstein ricorda che per Lacan quella zona è lo spazio della tragedia e che Badiou ha parlato di un entre-deux, di un luogo fuori dal luogo, di uno stato intermedio e vuoto, la parte maledetta di Bataille. E sottolinea come, dove alcuni non sono nominati come vivi, gli altri non possono essere nominati come morti. Dove alcuni non riescono a vivere, gli altri finiscono per non morire. Il limbo per la religione cristiana, l’Ade per i greci.
Così, ancora Lorena Preta richiama della pandemia le scene strazianti delle bare portate via dai camion militari a Bergamo senza che ci potesse essere un rito funerario neanche a distanza. Un episodio, dice, che ci ha riproposto interrogativi basilari riguardo al sentimento individuale e alle ritualità del vivere sociale.
E, continua, troppe sono le immagini che i video ci buttano davanti agli occhi di fosse comuni nelle zone di guerra con corpi accatastati senza nessun segno di riconoscimento se non quello di essere ‘nemici’; o quello che possiamo immaginare di quel ‘cimitero marino’, come è stato chiamato il mare Mediterraneo, dove a migliaia giacciono i corpi senza vita della nuova ‘umanità dei migranti’.
Corpi senza sepoltura rispetto ai quali le fantasie e le realizzazioni sopra citate sono un lusso lontano dalla brutalità della realtà.
Lorena Preta ci ha giustamente ‘esposti’, nel dare il via all’incontro, alla vertigine della mancanza di senso che assume inevitabilmente nel vissuto di noi umani la scoperta dolorosa che niente – nemmeno l’universo – è immortale.
Moltissimi gli interventi, dal pubblico in sala e da coloro che hanno seguito il convegno on line; tutti, a partire dai commenti di Cosimo Schinaia e di Alfredo Lombardozzi, rispettivamente chairmen del pomeriggio il primo e della mattina di domenica il secondo.
Tutti gli interventi, impossibili qui da evocare, sono stati estremamente interessanti, ciascuno capace davvero di rilanciare ogni discorso verso orizzonti imprevisti e ancora da esplorare, perché, come ha detto Lorena Preta, c’è da chiedersi se continuiamo a ‘giocare’ con la morte attraverso le manipolazioni tecnologiche, attraverso la moltiplicazione della conflittualità nel mondo e soprattutto l’incuria ambientale; o se lei gioca con noi, decidendo in maniere inconsuete e arbitrarie di prenderci o lasciarci a seconda dei suoi imperscrutabili disegni, certamente dovuti oltre che alle nostre antropocentriche e inconsulte alterazioni della biosfera, al caso e al caos, che sono sicuramente i veri e unici motori della vita del pianeta e dell’universo. Lorena Preta insomma si chiede, e chiede, se saremo in grado di ‘governare’ in qualche modo il cambiamento e dargli una direzione condivisa, cioè, con Edgar Morin, se sapremo sostenere la sfida per il futuro in pericolo dell’umanità, elaborando la coscienza di una ‘comunità di destino’, che Morin chiama un Umanesimo Planetario.