Centro Milanese di Psicoanalisi- Casa della Cultura – 12 gennaio 2013
Il primo colloquio e il dialogo analitico- Giornata in onore di Enzo Morpurgo
Anna Ferruta
Enzo Morpurgo- Dialogo analitico e dialogo mondano
Il pensiero di Enzo Morpurgo presenta caratteristiche di estrema complessità. Non può essere affrontato attraverso semplificazioni. Colpisce la sua straordinaria ricchezza di interessi per la vita (il mare, la musica, l’arte, il cibo, l’amore) e la costante interrogazione sul limite dell’esistenza, con tonalità metafisiche.
Il punto in cui si incontrano e si incrociano la sua pratica clinica, filosofica, sociale, il trivio fatale, inevitabile, è quello del dolore. Lo sforzo per dare una fondazione epistemologica alla psicoanalisi ha come punto di partenza e di arrivo l’incontro con la sofferenza del soggetto umano, conosciuta e esplorata attraverso il modo di essere dell’analista nella stanza di analisi.
Conoscenza e dolore muovono intimamente il percorso di M, sospinto da un’inesausta curiosità/interesse per l’altro, per quello che lui non è, e da una profonda consapevolezza della mancanza da cui nasce il soggetto, da quello che il soggetto non è, trasformata attraverso il metodo analitico da punto di debolezza in punto di forza. Lavora per una continua risoggettivazione del soggetto reificato (Voltolin,1996). L’altro lo abita e lo interroga, come elemento di incrinatura della compattezza del soggetto, storico e metastorico, e del sapere “oggettivo”. Quando l’analista si interroga sull’operare clinico incontra un “proprio nucleo profondo di tensione morale, inevitabilmente legata al dolore, dell’altro e di sé: ”Dolore del paziente che non sa come fare per non soffrire e dolore latente dell’analista nell’ipotesi che il progetto di cura non si realizzi, “un silenzioso lutto permanente e doloroso” (1981, 90), in quanto ogni progetto contiene la maiuscola del Progetto onnipotente”, e l’analista si ritrova nel dolore di non riuscire a raggiungere il paziente al di là dell’io, al di là dell’es, nel “luogo storico che costituisce il male del soggetto”. “ (1981, 91).
Anche la cultura religiosa ebraica è un “altro”: una lingua da apprendere, un mondo interno-esterno da assimilare e da cui differenziarsi. La cultura filosofica ebraica, soprattutto nella seconda parte della vita, è un elemento importante del suo pensiero: lo feconda con la tradizione ermeneutica, attenta al valore plurale della parola e con l’interesse per una logica che non utilizza l’aristotelico principio di non contraddizione, ma propone asserzioni che vanno oltre, aprono altri sviluppi di pensiero.
La sua esperienza di vita conosce profondamente la pratica medica a contatto con i pazienti e la dialettica filosofica in dialogo con filosofi e scienziati: Morpurgo osserva che la pratica freudiana trova la sua specificità, rispetto a medicina e filosofia, come “esigenza di ascoltare la voce inarticolata, il bisogno muto, il desiderio impossibile, e, soprattutto, il dolore inesprimibile della Vienna ‘negativa’ e della società attuale falsamente aperta alle voci plurali“.(1981, 88). Il suo tratto fondamentale sta nell’ascolto dell’altro, in quello che ama definire come il dialogo analitico, contrapposto al dialogo mondano.
Nella ricchezza e intensità delle sue esperienze professionali e culturali (neurologia, narcoanaliis, neurochimica, neuroscienze, terapia del sonno, filosofia fenomenologica, francofortese, analitica,ecc.), il centro gravitazionale che le organizza è l’attività clinica: la scelta di stare a contatto con la sofferenza indicibile e incomprensibile del paziente psichico, invece che diventare filosofo o scienziato, è l’ancoraggio e insieme il vento che gonfia le vele di un uomo così interessato alla vita, ma anche così capace di utilizzarla per affrontare quesiti che fanno tremare le basi su cui questa poggia: le pratiche mediche oggettivanti e parzializzanti, la negazione della realtà psichica, l’emarginazione sociale come falsificazione diagnostica e ostacolo alla cura, il rapporto tra individuo e massa, il dialogo tra chi ascolta e chi parla, il dubbio e la verità, la solitudine e il bisogno di contatto.
Fondamentale è la differenziazione fatta e praticata tra dialogo mondano, attento all’interazione media comune, ritenuta patogena, e la peculiarità del dialogo analitico, aperto all’ascolto della sofferenza dell’altro come portatore di un bisogno, quello di mettere il male nell’altro e di apparire come un individuo diverso dal se stesso abituale:
“ Se già il porsi il problema dell’altro è per tutti filosoficamente complesso e esistenzialmente altrettanto complesso, credo che tutto cambi radicalmente quando l’accettazione dell’altro diventa accettazione del dolore dell’altro e del suo bisogno di trovare conforto. Credo che in una coppia o in un gruppo l’espressione del disagio interiore crei nell’ascoltatore un’immagine sostanzialmente destabilizzante dell’idea preconscia della identità del soggetto nel tempo. Io credo che questa alterità dell’altro sofferente sia la fonte del carattere patogeno della risposta. (…) Che magari è il partner della coppia analitica, cioè lo psicoanalista. Che è meglio attrezzato del partner di vita, e protetto dal setting per affrontare l’espressione di dolore, ma è esposto comunque alla tentazione di respingerla. Magari con teorie raffinate, come spesso mi sembra sia accaduto anche in autori che hanno teorizzato l’empatia con il paziente. (…) [lo psicoanalista] utilizzava così la sua teoria -quale che fosse- per difendersi anziché più semplicemente, ma quanto più faticosamente, accettare, ricevere e tollerare il dolore del paziente. Dando al paziente e a se stesso tutto il tempo necessario per capire o magari per non capire mai; o per capire e non potere fare niente per il disagio o della sofferenza espressi; ché anche questo significa accettare ‘orizzonte della morte in seduta, come segno del limite, del non esserci garanzia certa di riuscita dell’impresa psicoanalitica”. (1998, 202-04)
Sviluppa questa distinzione tra dialogo analitico e dialogo mondano in diverse direzioni:
Nella cura
Ispirato al desiderio di curare la sofferenza del soggetto umano senza reificarlo, sviluppa la pratica sociale del suo famoso Consultorio Popolare di Niguarda (1969-74) volto a fornire alle classi disagiate un’assistenza psicoterapeutica gratuita, per riaffermare la singolarità della sofferenza psichica di ogni soggetto, vista non come conseguenza del disagio sociale, e per qualificare il lavoro psicoterapeutico come costitutivamente sociale, non nel senso di un’applicazione impropria della psicoanalisi fuori dalla stanza d’analisi, ma nel senso che l’individuo non è riducibile al gruppo sociale, così come le leggi sovrastrutturali non sono riducibili a un’estensione delle leggi dell’intrapsichico.
Nella psicoanalisi
Dopo l’analisi con Veltri, si dedica alla pratica analitica nel suo studio, e opera un lento avvicinamento alla psicoanalisi come istituzione. Il suo rapporto con l’istituzione psicoanalitica è stato di intensa partecipazione e adesione, e di pacata e tranquilla indipendenza di pensiero. E’ sempre stato critico e ortodosso: il legante di questa posizione mentale è ancora la clinica, il contatto con il paziente in stanza di analisi, come esperienza che sollecita lo sviluppo della ricerca e del pensiero, l’esigenza di avere un collega psicoanalista con cui confrontarsi e dialogare, una volta uscito da quella condizione che ha splendidamente teorizzato: il tempo dell’analisi come neotempo nel quale si dispiega la neomicrostoria con il paziente. Molte teorizzazioni psicoanalitiche attuali sono state da M anticipate: lo spazio per l’altro, i personaggi, la narrazione, le trasformazioni, attraversano la sua produzione teorica analitica, sempre ancorata alla clinica. Forse i contributi più notevoli sono quelli sullo statuto della parola in analisi, con la sua alta capacità di differenziare dialogo analitico e narrazione letteraria, contro le derive solo ermeneutiche, e quella dell’analisi come neomicrostoria che si svolge nel neotempo. Descrive le configurazioni della parola che qualificano la comunicazione umana: il dialogo mondano che mette in mora l’immagine della morte, il dialogo interno della parola con se stessa nella scrittura, il monologo interiore e il dialogo analitico. La disposizione ad essere analista richiede la sospensione del tempo medio della vita quotidiana, una condizione del tempo nella quale “sembra che il tempo si rattrappisca, si congeli, si condensi, acquisti delle valenze di straordinaria intensità e straordinaria rarefazione; in ogni caso è un momento che segna un distacco totale per le possibilità attenzionali.” (1998, 163). L’attività interpretativa che si svolge in questo neotempo porta alla costruzione di una neomicrostoria della coppia analitica: “Il segmento di neostoria che si costruisce polarizza intorno a sé, come un magnete la limatura di ferro, il tempo che si ritaglia in modo autonomo rispetto ad altri tempi, per l’analizzando e per l’analista”.(1981, 84).
Nella filosofia
L’interesse di M per il confronto tra psicoanalisi e filosofia parte proprio dal fatto che non può essere pensato in termini accademici, ma solo a partire dalla inclusione della malattia e della morte, che fanno della psicoanalisi nel campo della scienza un’anomalia che impedisce la ricerca di coincidenze e pacificazioni.
“L’incontro psicoanalisti-filosofi è destinato, in linea di principio, al non accordo, o a un particolare non accordo obliquo e non frontale. (…) la non-comunicabilità dell’esperienza analitica in quanto tale, cioè completa del ciò che accade nella diade, costituisce un luogo aporetico tra i più affascinanti che la storia del pensiero potesse produrre. (1981 , 13).
L’analista in stanza di analisi tenta di colmare il passaggio mancante con l’interpretazione, con la dinamica del transfert, chiarendo l‘oscuro fantasma non verbale. Fuori dalla stanza di analisi non può usare lo stesso metodo, non può suggerire il passaggio mancante e attendere in silenzio, perché altre sono le regole del gioco. Ma questa difficoltà per M può diventare punto di forza perché l’indicibilità della psicoanalisi, che mai attinge a una comunicazione intera, le permette di mettere in questione ogni altra possibilità di comunicazione:
“ E l’analista, per l’appunto, sa che il suo metodo consiste di parlare dell’indicibile e per certo di ascoltare l’indicibile categoria che viene dunque a perdere, ma non del tutto, un connotato mistico, e ad acquistare ma non del tutto, un connotato di positività trasmissibile.” (1981, 14)
La psicoanalisi che non può fornire una comunicazione completa è anche quella che così può garantire il prodursi di una nuova conoscenza. Lo strumento psicoanalitico fuori dalla stanza di analisi resta giustapposto ad altri strumenti tecnici, ma mantiene il suo potere dereificante.
Nella musica
La configurazione del campo percettivo in analisi è l’ascolto, simile a quello musicale, con le sue pause, silenzi, ricco di piani intersecati, simile alle modalità di ingresso sensoriale notturne: è l’ascolto del bisogno muto, del desiderio impossibile, del dolore inesprimibile, delle voci plurali, che allargano il mondo reale del soggetto.
Nella vita
Negli ultimi vent’anni di vita M ha scritto e raccolto le sue elaborazioni più profonde sulla psicoanalisi. Il libro “Chi racconta a chi?”(1998) ne è la più sorprendente testimonianza: si affaccia su temi “radicali”, a partire da “Al di là del principio del piacere”: coazione a ripetere, situazione della parola, il rifiuto dell’altro. Morpurgo ha attraversato con il suo pensiero e la sua pratica psicoanalitica e sociale territori di grande difficoltà, riuscendo a non semplificare, ad essere radicale e misurato, laico ed eticamente religioso, critico e ortodosso. Soprattutto ha esplorato il modo di essere dell’analista nel suo lavoro.
Nello scritto La solitudine dell’analista (1995) parla della solitudine specifica dell’analista, che inizia la sua giornata con un risveglio al mondo esterno, accompagnato da un monologo interiore che è già a contatto con gli oggetti del mondo esterno che avverte che esiste. Ma poi, per passare allo stato di pre-lavoro analitico, l’analista deve stabilire una radicale epoché, una sospensione del mondo esterno: rimane privo di mondo, solo, anche rispetto a se stesso, al proprio mondo esterno-interno. Questa solitudine prepara uno spazio libero per l’accoglienza dell’altro, dell’analizzando: la sua solitudine si popola del “desiderio di cogliere il desiderio dell’altro di essere colto”. (1995,59). E’ il desiderio fondante che lo fa analista, quello di aprire il proprio sé perché la comunicazione possa stabilirsi. Questo conduce a un indebolimento della soggettività dell’analista. In una condizione di attenzione crepuscolare, di solitudine rispetto al proprio mondo interno-esterno, l’analista è rivolto a cogliere “l’impercettibile, il non detto, il nascosto, la pluralità”. Talvolta la comunicazione non si stabilisce e nella stanza c’è un paziente muto e un analista muto, una solitudine desolante e avvilente; talvolta invece riesce a dare voce e forma al desiderio del paziente. Alla fine della giornata analitica l’analista deve reintrodursi nel mondo esterno e esterno-interno che aveva sospeso, e la solitudine perdura. E alla fine c’è la solitudine della fine dell’analisi: il paziente scompare dopo il lungo cammino fatto insieme:
“Questo dà all’analista un senso di desolata incapacità di contenere dentro di sé tutta l’umana progenie…, di non essere Dio.”(1995, 66)
Si tratta di una descrizione particolarmente profonda di come lavora la mente dell’analista: tende a scomparire nel momento in cui si propone come disponibile strumento per fare risuonare e rappresentare la pluralità nascosta dell’analizzando.
Da questo esercizio terapeutico, filosofico, sociale, estetico, l’analista riemerge non senza difficoltà: sente il bisogno del gruppo di colleghi con cui dialogare, per riprendere consistenza individuale e sociale. La vita sociale di Morpurgo è sempre stata intensa e piacevole, in una convivialità colta che rappresenta la realizzazione del bisogno di alterità che lo caratterizzava.
Oltre ai suoi libri, ci resta il suo studio, quello che Fornari definiva il più bello studio di analista.
Quando vi entrai, la scena percettiva che mi si aprì era fin troppo ricca: mobili antichi carichi di storie di famiglia, quadri e incisioni preziose che segnalavano l’interesse per l’arte, piatti e ceramiche di grande bellezza, segno di un occhio attento al nobile artigianato italiano; oggetti antichi, ebraici, appoggiati come per caso. Numerose pipe sul tavolo diffondevano il profumo di tabacco che impregnava i mobili e la stanza. Ma dopo essermi distesa sul lettino, la scena cambia, la folla di oggetti si dissipa, e si fa spazio, si avverte un respiro della mente, modulato da silenzi profondi e da qualche caldo e breve commento. All’interno di questo ambiente mentale, M fa sentire l’interesse umano profondo, la nobile curiosità per la nuova persona che si è distesa sul lettino. Fa capire che ama veramente gli oggetti. No, quelli che ha già conosciuto non gli sono bastati, la nuova persona gli parla di qualcosa che lo appassiona e gli suscita una dolente partecipazione alla sua sofferenza. Il filosofo che cerca di comprendere e il medico che cerca di curare si animano nella stanza e fanno pensare che forse anche questa neomicrostoria potrà essere un oggetto da conservare nello studio, nella sua qualità artigianale che porta la traccia del lavoro umano. Paradossalmente, visitando oggi lo studio di M, intatto, si ha l’impressione della sua percettibile presenza ‘altra’, finalmente.
Bibliografia
Barale F.(1998). Prefazione. In: Morpurgo E. (1998). Chi racconta a chi? Angeli, Milano
Micheli N. (1996). Enzo Morpurgo: senso e valore di una psicoanalisi ‘inattuale’. Tesi di laurea non pubblicata, Università degli Studi di Pavia.
Morpurgo E. (a cura di) (1981). La psicoanalisi tra scienza e filosofia. Loescher, Torino.
Morpurgo E. 1985). I territori della psicoterapia. Angeli, Milano.
Morpurgo E. (1988). Fra tempo e parola. Angeli, Milano.
Morpurgo E. (1994). Rifiuto della morte, rifiuto dei valori, rifiuto della vita. Psiche, 3, 384-395.
Morpurgo E., Egidi Morpurgo V. (a cura di) (1995). La solitudine. Forme di un sentimento. Angeli, Milano.
Morpurgo E. (1998). Chi racconta a chi? Angeli, Milano