Discussione relazione di Antonello Correale: “Stato limite e disturbo borderline: differenze e somiglianze. La difficile questione del nucleo psicotico”.
Milano, 24 novembre 2012
Vorrei innanzitutto ringraziare la commissione scientifica che mi ha offerto questa inaspettata e lusinghiera opportunità di essere qui a discutere un lavoro di Antonello Correale. Posso dire senza piaggeria, che molto di quello che credo di aver capito di questa patologia lo devo non solo alla lettura dei lavori di Antonello, che sono ormai un punto di riferimento per chiunque voglia affrontare l’impatto con la complessità borderline, ma soprattutto alle molte volte che ho avuto l’opportunità di ascoltarlo e di fare esperienza di quella sua non comune capacità di “immaginazione guidata”, come penso la chiamerebbe lui, che può portare chi lo ascolta in un contatto profondo con il mondo interno di questi pazienti. Infatti via, via che procedevo nella lettura della relazione, mi prendeva un certo smarrimento e una sensazione di confusione che mi impediva di fare ordine nei pensieri per trovare un filo utile a costruire la mia discussione. Poi ho riletto la frase di apertura di questa bella relazione:“Chiunque si accosti allo studio della letteratura psicoanalitica sul disturbo borderline non può evitare un senso di smarrimento e di disordine” e ho pensato che non sono molti gli autori che senza l’aiuto di una vignetta clinica riescono a immergerti così “somaticamente” nell’atmosfera borderline.
Lungo tutto questo suo lavoro si apprezza la capacità di Correale di cogliere e fotografare quel qualcosa che rende così peculiare questa patologia, quel suo status così indefinito, perennemente sospeso fra due condizioni definite: fra normalità e patologia, fra nevrosi e psicosi, fra integrazione e scissione, ma anche fra interno ed esterno, fra contatto e distanza, fra Sé e non-Sé. Borderline è quel che sta su quella linea sottile che percorre la straordinaria complessità dell’esperienza umana, le sue imprevedibili risorse, ma anche le sue insostenibili angosce, i suoi abissi disperati. Borderline è diventato, a poco a poco, tutto quello che non riusciamo a collocare, a prevedere, a comprendere. Borderline come tutto ciò che è sospeso quindi, quello che sta “tra”, con tutta la complessità ontologica che questo implica; un po’ come il trattino della problematica mente-corpo.
E in sintonia con il focus scelto per questa giornata, Correale comincia dalla madre di tutte le questioni in sospeso, cioè quella della collocazione diagnostica della patologia borderline, sempre, appunto, “tra”. Come scrive Antonello: “La continua necessità di ricollocare, all’interno del quadro borderline, un’area più vicina alla psicosi e una più vicina alla nevrosi, ha finito per rendere oscuro il concetto di borderline, richiedendone al suo interno, continue, più precise, specificazioni.”E sceglie di riassumere la vexata quaestio del rapporto fra patologia Borderline e Psicosi ponendo la prima, ma non l’unica, questione strutturale per diradare un po’ la confusione:“Esiste un nucleo psicotico, operante ma nascosto, che senza dare sintomi psicotici conclamati, produce aree mentali a scarso contenuto di simbolizzazione, in cui il pensiero, o meglio la sua produzione, cadono sotto scacco per l’eccesso di acting e somatizzazioni?” Parafrasando Nietzsche, al posto di una parola obesa Correale ci offre un punto interrogativo secco come un chiodo. E subito dopo ce ne pianta un altro, di chiodi:“ L’eccessivo uso di questo concetto, attraente ma confuso, di nucleo psicotico, non corre il rischio di oscurare le differenze tra borderline e psicosi e di far catalogare sotto il termine psicosi fenomeni che psicotici non sono?” mi sembra abbastanza evidente che già nel porre la domanda Correale ci inviti a diffidare dal fare un uso eccessivo di questo concetto, attraente, ma appunto confuso e confondente.
La struttura del discorso, il filo che Correale ci fornisce per seguirlo nella sua riflessione “on the border” è tutto costruito sulla identificazione di due aree di convergenza di pensiero, “due posizioni che tengono il campo con una certa continuità”. La prima posizione, che in termini di geografie psicoanalitiche potremmo definire di area francese, che tende a far rientrare “il concetto borderline nella categoria più ampia e definita del concetto di stato limite” e che ha Green e il suo libro sulla psicoanalisi degli stati limite come punto di riferimento, e un’altra, di area più marcatamente anglosassone, Gunderson ne è il capofila, “secondo cui non ‘c’è stato limite, ma solo disturbo borderline di personalità”.
Ma Correale ci invita subito a non metterci comodi perché, come capita sempre quando si parla di borderline, appena sembra di aver trovato un criterio se non organizzatore, almeno ordinatore, spunta fuori subito un elemento che non pare proprio starci dentro. E’ l’effetto di disorganizzatore nosografico di cui parla Rossi Monti.
Si chiede e ci chiede Correale:Ma “Che rapporto c’è tra stato limite e disturbo borderline? Sono due modi, in fondo, di descrivere quadri simili? O si può considerare che parlare di disturbo borderline sia un modo di delimitare, all’interno del grande quadro concettuale offerto dal concetto di stato limite, un tipo più preciso e riconoscibile, utilizzando il concetto di trauma, come chiave di lettura o filo conduttore del discorso e della ricerca?” Correale ci dice chiaramente di essere “personalmente favorevole a quest’ultima risposta” perché il concetto di stato limite gli sembra “troppo vasto e comprendente in fondo quadri anche molto diversi fra loro, che si potrebbero ascrivere forse più all’area narcisistica, con forti sfumature perverse, che a quella che in psichiatria viene adesso chiamata configurazione borderline” e inoltre, il famoso e onnipresente discorso sul nucleo psicotico, acquista, a suo modo di vedere con cui io mi trovo d’accordo, più riconoscibilità se affrontato nell’area borderline, mentre nel quadro stato limite rischia di mantenere un alto tasso di ambiguità.
Ma quali sono le differenze sostanziali fra queste due posizioni? O meglio, a quali differenti strutture psicopatologiche si riferiscono?
Cercherò brevemente di mettere a fuoco le caratteristiche salienti dello stato limite, così come le identifica Correale nella sua relazione, per proporre solo alcuni dei molti spunti di discussione e lasciare poi la parola a Paolo Chiari che discuterà la seconda parte.Per una prima messa a fuoco delle differenze fra stato limite e disturbo borderline Antonello isola due macro-elementi emotivi: l’apatia come epifenomeno del vuoto interiore nello stato limite, con la sua indeterminatezza, assenza di confini e ricorso alle sostanze e la disforia come marker dell’esistenza borderline, crogiuolo emotivo ad alto tasso di turbolenza in cui si mescolano rabbia, dolore, disperazione e protesta. Propone anche di definire, con un termine usato da Stoppa, borderless il quadro costituito dallo stato limite, che esprimerebbe il limite in termini della sua assenza, e borderline il quadro al quale la disforia conferisce la caratteristica di una specie di stabile instabilità.
Come dire che nel primo caso il limite è un problema essenzialmente perché manca, nel secondo caso perché la vita sembra possibile solo in bilico sul (primo quesito da offrire alla discussione)?
E all’interno di quale contesto evolutivo ci possiamo immaginare che si strutturi il funzionamento della mente descritto dallo stato limite? Un contesto, ci spiega Correale, in cui l’oggetto accudente manca alla sua funzione primaria di regolazione degli stati interni del bambino; quella funzione modulatrice che permette un armonico transitare dal principio di piacere al principio di realtà o, detto in altri termini, dal giudizio di attribuzione che include solo categorie di opposti buono/cattivo, bene/male, si ancora/no-basta, al giudizio di esistenza che comporta l’acquisizione della realtà dell’oggetto intero, esistente fuori di Sé, altro da Sé. Se l’oggetto accudente espone al contrario a una pervasiva discontinuità dell’esperienza (non può quindi essere ritrovato), se è troppo frustrante, assente o imprevedibile, il bambino ricorrerà a meccanismi di proiezione massicci, cioè a espellere tutto quello che non può essere elaborato e trasformato.
E che conseguenze comporta il prevalere della proiezione?
Intanto che l’interno e l’esterno saranno mal definiti, il limite fra i due molto fluido e instabile e l’interno fragile e precario perché continuamente svuotato dalla necessità di espellere la persecutorietà degli oggetti.
Che la mancanza di continuità dell’esperienza e in particolare di un oggetto capace di contenere e trasformare, impedirà il graduale instaurarsi del meccanismo della rimozione. Qui ci potrebbe essere un punto rilevante per la discussione perché mi pare che Correale identifichi la rimozione non soltanto come un meccanismo di difesa, ma quasi come una funzione primaria della mente, quel chiasma, come direbbe Green, fra conscio e inconscio, interno ed esterno, che sarebbe massimamente responsabile della stabilità, appunto, del limite e che crea inconscio.
Poi, ad opera della massiccia proiezione, l’esperienza soggettiva sfugge alle maglie del linguaggio, dice Correale: potremmo anche dire che l’insufficiente funzione immaginativa dell’ambiente impedisce la trasformazione simbolica dell’esperienza e relega i pensieri al rango di cose. Nello stato limite allora è danneggiato il pensiero ed è danneggiato anche l’inconscio e questo inconscio danneggiato, sostiene Correale, potrebbe essere parte del cosiddetto inconscio non-rimosso. Anch’io, come lui, penso che l’inconscio cosiddetto non–rimosso non si caratterizzi tanto per il fatto di non essere l’esilio della parte sconfitta di un conflitto, ma che la caratteristica potente di questo inconscio sia quella della mancanza di una rappresentazione di parola. In altri termini mi sembra che il modo più convincente di leggere l’inconscio non-rimosso sia quello di pensarlo come il serbatoio di ogni esperienza che non ha potuto essere trasformata dal potere metaforizzante della mente dell’altro, messa in parole e condivisa. Questo significa che l’inconscio con cui avremo a che fare nel trattamento degli stati limite sarà impregnato di un’emotività diffusa, Bauman direbbe liquida, incontrollata, un “malessere assorbente” come lo chiama Green che non si può dire, ma solo sentire o, soprattutto, far sentire col ricorso dell’identificazione proiettiva, che come Bion ci ha insegnato, non serve solo a liberarsi di qualcosa, ma serve a rendere quel qualcosa comunicabile quando mancano le parole per dirlo.
L’ultima conseguenza rilevante della proiezione, nella riflessione di Correale, sta nel significato da attribuire alla scissione. Antonello ipotizza che in questo caso la scissione non sia un fenomeno primario che precede la proiezione, ma che svolga la funzione di “salvare il salvabile”, di stabilire, per il tramite dell’idealizzazione, un ordine possibile del mondo; come se la relazione con l’altro fosse così disperatamente riempita di distruttività che il solo modo per tentare di opporvisi rimanesse quello di costruire una relazione oggettuale narcisisticamente idealizzata. In un certo senso allucinare un oggetto totalmente buono ed eternamente presente che permetta finalmente di stare con Sé e con l’altro in uno stato di riposo, di fiducia tranquilla. Ma come sappiamo anche questa strategia è destinata al fallimento. Gli aspetti scissi ritorneranno, analogamente al ritorno del rimosso, ma carichi della qualità persecutoriamente intrusiva che si lega al meccanismo dell’identificazione proiettiva. E’ così che il soggetto sembra condannato ad oscillare fra perdita e intrusione: non può mai esser completamente separato, ma non è mai stabilmente con. Né l’Io, né l’oggetto hanno stabilità: da qui la dipendenza affamata e il rifiuto esasperato, la turbolenza indifferenziata fatta di grandi passioni e di scarsi giudizi, come ci dice Correale, in un presente che divora tutto.
Concluderei questa mia discussione solo accennando al capitolo relativo al rapporto fra psicosi e rappresentazione , non perché mi sembri meno rilevante, ma perché al contrario, mi pare così denso di interrogativi teorici così ben espressi e argomentati da Antonello che mi sembrerebbe ridondante aggiungerci troppo del mio togliendo così al tempo stesso spazio alla discussione che sono certa ne seguirà. Potrei riassumere così le questioni su cui siamo chiamati a riflettere:Basta la presenza dell’esteriorizzazione massiccia di contenuti mentali per parlare di meccanismi psicotici? Cioè è convincente l’idea che la psicosi possa consistere semplicemente in una massificazione di movimenti espulsivi senza quella peculiare seconda fase in cui alla proiezione segue la trasformazione dell’oggetto proiettato e il suo violento ritorno pieno di estraneità, misteriosità e magia?Si può legare il concetto di psicosi alla sola mancanza di simbolizzazione che la proiezione implica, senza che rigetto e forclusione condannino l’oggetto ad un esilio dal simbolico e dal mondo stesso delle parole che lo trasformi in un totalmente altro troppo reificato, ma poco esistente? In altri termini, come dice Antonello in un altro suo lavoro su psicosi e area traumatica: si può parlare di perdita della realtà senza che nel processo compaia quel qualcosa di inevitabile, che sorprende il soggetto, lo lascia alle prese con qualcosa che non riesce a decifrare, a inserire nel comprensibile e nel concreto; senza cioè che i momenti di perdita della realtà, che nella psicosi sono più drammatici e tragici di una semplice denegazione della realtà stessa, portino a un processo di estraniazione, che rende il momento che si sta vivendo, lontano, inaccessibile e misterioso? Senza cioè quella profonda rifondazione di Sé e del mondo che è propria delle psicosi schizofreniche?