Congresso FEP Basilea, 2013
Prime impressioni di Claudia Peregrini
Il titolo del Congresso (“Senza Forma”) mi ha fatto pensare, così, di primo acchito, al fatto che noi analisti oggi abbiamo più che mai bisogno di dare forma a una teoria -una cornice teorica- generale comune della psicoanalisi, applicata a terapie specifiche, anche per fare ricerca. Senza ricerca, le scienze non avanzano e non vengono riconosciute o si perdono in mille rivoli. L’idea delle mille teorie e’ bellissima; l’idea che esse nascano e proliferino perché non possiamo tollerare di non saper nulla, rimane affascinante.
Le mille teorie sono espressione dell’esercizio del dubbio, ma possono pure diventare segnale di un pericoloso papocchio in atto, dove coabitano, indisturbati e camuffati, conformismi, mode, stereotipie. E affari.
Quale forma per una cornice teorica generale comune?
I primi due giorni, mentre i palcoscenici erano ancora vuoti, mi sono ritrovata nel mio gruppo (Faimberg), lo stesso da moltissimi anni.
Ciò che mi piace e’ che i gruppi, nei vari congressi FEP, pur essendo in molti sensi poliglotti, si dimostrano a tratti capaci di arrivare a una sorta di lingua unica, con riferimenti teorici che man mano si chiarificano e parlano di concetti familiari, il mondo pulsionale, il transfert e il controtransfert, l’inconscio e naturalmente la relazione.
Il lavoro clinico con un numero esiguo di colleghi davvero di ogni parte del mondo rimane il motivo principale della mia iscrizione: capita, come quest’anno in cui la presentatrice sud americana era tosta e competente, di fare un lavoro di gruppo ‘vero’ attorno a un caso clinico, per un paio di giornate di fila, aiutati da moderatori che generalmente reagiscono ai vari interventi con una funzione coordinatrice leggera, utilizzando il loro controtransfert. Niente sujet supposé savoir, e anche poca impunità totale, l’impunita’ dovuta appunto alla moda delle ipertolleranze reciproche.
Aprendo la cartelletta del Congresso, ho letto per primo il testo di Alexander Moser, una breve storia della società psicoanalitica svizzera (Si era appunto a Basilea).
E’ la storia di grandi nomi della psicoanalisi e dei loro padri, nei tre cantoni.
E’ soprattutto una critica radicale al movimento -“impotente”- della secessione zurighese, e un attacco alle attuali tendenze neo biologiste, causa di tanti mali: anche la tradizionale, solida, psichiatria svizzera di stampo bio-psico-sociale sarebbe stata stata trasformata da queste tendenze in parole vuote.
(Come appartenente alla FEP, mi verrebbe da rispondere a Moser -se l’ho inteso bene-che, per salvarci, non dovremmo immaginare di chiuderci e restaurare la “cure”, basterebbe uscire dalle mode dei guru, dei falsi profeti, dei grandi conformismi dovuti alle poche letture e alla tenace infantilizzazione indotta nelle decadi da molti nostri istituti di training, nonostante il restyling di alcuni, a causa delle regole e della mentalità che affliggono la maggior parte delle società IPA. Basterebbe forse confrontarci con l’esterno, sul serio).
Anche se Moser sottolinea la particolarità e l’indipendenza della ‘via’ seguita negli anni dalla società svizzera e ricorda suoi analisti di fama internazionale quali Paul Parin e Fritz Morghenthaler, schierati con il movimento secessionista e rimasti membri del seminario psicoanalitico di Zurigo, egli non dice dei gravissimi tentativi di diffamazione, anche personale, nei loro confronti…
Ho avuto l’impressione, per un attimo, leggendo Moser, che la società svizzera dove mi sono formata, con regole statutarie allora aperte (niente analisi didattica, normale potere ai supervisori, una forte dimensione internazionale, etc.), ricca del lascito di Raymond De Saussure, sia un po’ mutata.
Le main relations del mattino
Sono rimasta invischiata nel solito dissidio interno, tra il fascino del palcoscenico e la grande difficoltà a seguire relazioni tenute in questo modo, indipendentemente dalla bravura dei relatori. (Straordinariamente coerente e tesa mi e’ parsa la relazione di Laurence Kahn, che avevo potuto leggere in internet, prepubblicata).
Quando poi un ferencziano sempre appassionato e appassionante, Luis Martin Cabre’, ha tradotto in clinica viva l’intervento di Thierry Bokanowski, su “Trauma, il processo analitico e trasformazione”, mi sono rianimata.
Molto, molto interessante mi e’ parsa la relazione del belga Rudi Vermote, la terza mattina: “La zona indifferenziata del funzionamento psichico. Un approccio integrato e le sue implicazioni cliniche.” Aspetto la pubblicazione del testo -che purtroppo non è tra i pre- pubblicati- per approfondire il modello teorico che viene appunto proposto e illustrato anche con power point. In esso appaiono numerosi dati neuroscientifici, che supporterebbero i discorsi psicoanalitici.
La mia domanda: Come possono dati della medicina supportare la psicoanalisi visto che si tratta di totali incompatibilità da un punto di vista logico? A meno di non rispondere, ho detto a Vermote, come fanno Bria e Matte Blanco: l’antinomia non sta nel finito, bensì nel confronto di due modi logici diversi di descrivere la stessa realtà. Perché il pensiero, che avanza distinguendo, al contempo e’ preso dal bisogno di descrivere la realtà (indivisibile) a tutti i livelli possibili (psicologico medico, etc etc…), venendone imbrigliato, confuso -reso senza forma- e gettato nella babele dei paradossi delle antinomie all’infinito. Le antinomie dunque appaiono costitutive del processo stesso del pensiero. Senza di loro, rimaniamo nel campo del “pensicchiare” (Thinkating, lo chiama Matte Blanco).
Il pomeriggio, purtroppo, sono riuscita a seguire solo il toccante lavoro di una collega italiana, Laura Colombi, perché per me c’era come sempre un assoluto troppo pieno.
Ma in tanti mi hanno detto che tutti gli italiani (Nicolò, Saottini, Manica…) sono stati molto bravi e seguiti sul serio.
Alla fine rimane il solito piacere di essere stata con qualche collega amico, che magari non vedevo dall’anno prima, in belle città europee…
Un’ultima considerazione: mi sembra che gli iscritti al Congresso fossero meno di seicento, nonostante la lieve diminuzione delle quote. Poco più di un decimo degli analisti iscritti alla FEP.
Nonostante il -pare- crescente successo dei gruppi Faimberg, Tuckett, etc. e l’enorme, visibile, impegno profuso come al solito dai generosi colleghi che si occupano di noi nei congressi FEP, dovremmo forse chiederci:
dove e’ diretta la FEP?