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Report “Psicoanalisi italiana. Da Cesare Musatti ai giorni nostri” di M. Marchionni, 21 ottobre 2017

17/11/17

La giornata è stata un’occasione per ripercorrere la nostra storia, il cammino dei nostri maestri attraverso i racconti delle esperienze e degli incontri. Un po’ come rivedere le foto di famiglia delle madri, dei padri e dei nonni della Psicoanalisi Italiana. Esiste una specificità della psicoanalisi italiana dalle origini ai giorni nostri? Su questo interrogativo hanno dialogato in mattinata Anna Ferruta e Franco Borgogno – Temi e sviluppi del pensiero psicoanalitico in Italia –  ripercorrendo un lungo percorso tra posizioni teoriche, contrapposizioni ed evoluzioni.  Il pomeriggio è stato dedicato alla originalità e innovazione di Luciana Nissim ed Eugenio Gaburri, Protagonisti, teorie e clinica nella psicoanalisi italiana.

Tonia Cancrini, chair della mattinata, presenta l’iniziativa come una risposta alle richieste degli allievi e che si è dunque costruita grazie alla collaborazione tra il Centro di Psicoanalisi Romano e la sezione del Training. La giornata si è focalizzata sugli analisti del nord Italia, mentre il 14 aprile 2018 una seconda giornata sarà dedicata alla storia del centro-sud.

Molte le vicissitudini che hanno accompagnato la nascita e lo sviluppo della SPI. Fondata a Teramo il 7 giugno 1925 da Marco Levi Bianchini, viene poi trasferita da Edoardo Weiss  nel 1932 a Roma, anno in cui Weiss fonda anche la Rivista di Psicoanalisi. Nel periodo che va dal 1932 al 1938 la Società continua ad essere presieduta da Weiss passando, non senza problemi, attraverso gli anni del fascismo, fino a riprendere vita nel 1945 e con il primo Congresso Nazionale a Roma nel 1946 con la presidenza di Nicola Perrotti.  Imprescindibile per la giornata è il riferimento all’importante iniziativa editoriale condotta da Franco Borgogno – con l’aiuto di Alberto Lucchetti, Luisa Marino Coe e il supporto della SPI – di pubblicare un libro in inglese sul pensiero psicoanalitico italiano immettendolo così in un confronto internazionale tra culture psicoanalitiche[1]. Questo testo ci aiuta a riscoprire gli scritti dei maestri e dei pionieri della psicoanalisi italiana, da Weiss a Fornari, nonché le attuali tendenze psicoanalitiche. Il pensiero kleiniano ha avuto un forte impatto sul trattamento dei pazienti gravi e sulla psicoanalisi infantile. Dobbiamo la sua diffusione in Italia alle esperienze londinesi di analisti quali Franco Fornari, Adda Corti, Pierandrea Lussana e Generali Clemens, nonché a Eugenio e Renata Gaddini che hanno largamente contribuito a far conoscere il pensiero winnicottiano, ai contatti con la psicoanalisi francese (Lebovici, Laplanche, Green) e infine a Borgogno che ha svolto un ruolo cruciale di promozione e diffusione del pensiero di Ferenczi.

Franco Borgogno pone al centro del suo intervento i temi della relazione analitica e dell’alterità: “Cos’è la psicoanalisi se non un approccio scientifico che ha come fine capire la lingua dell’altro?”. Prerogativa dello psicoanalista è capire la lingua del paziente. Il concetto di alterità, come valore aggiunto, appare caratteristica distintiva dell’approccio italiano al mondo della psicoanalisi. “Ancora negli anni 2000 – ricorda Borgogno – negli ambienti americani si percepiva una strana curiosità rispetto al nostro approccio metodologico. La psicoanalisi italiana era vista infatti come intrigante, legata all’insolita intimità del nostro linguaggio e all’accostamento coraggioso di termini e teorie assai diversi tra loro”. Sua peculiare caratteristica è l’apertura alla diversità, alle altre tradizioni metodologiche, nel tentativo di mettere insieme indirizzi diversi e tendenze psicoanalitiche eterogenee. “Questa apertura si manifesta – continua Borgogno – nella capacità di combinare i pensieri in modo insolito. Questa tendenza tutta italiana deriva dall’isolamento linguistico che per molto tempo non garantiva o meglio non permetteva l’accesso ai congressi e la possibilità di pubblicazioni su riviste internazionali”.

Anna Ferruta sottolinea il legame diretto di Weiss e Musatti con Freud e i suoi scritti come caratteristica fondante della psicoanalisi italiana. Un secondo elemento caratterizzante la nostra psicoanalisi riguarda il mondo ebraico e la centralità del libro come strumento di conoscenza nella tradizione e cultura ebraica, dove esso è percepito come sorgente viva senza troppe mediazioni. Le origini della psicoanalisi italiana coincidono infatti con alcuni esponenti della cultura ebraica. In particolare nella fase embrionale di questa disciplina si può individuare un duopolio: a Trieste ritroviamo i coniugi Edoardo e Vanda Weiss, pionieri della psicoanalisi italiana, mentre a Venezia c’è Cesare Musatti. Edoardo nasce a Vienna, studia e si forma a Trieste, città dove, dopo la Prima guerra mondiale, aprirà il primo studio di psicoanalisi in Italia. Vanda è l’unica donna membro della SPI ed è la prima a praticare la psicoanalisi in Italia. Dal ‘32 al ‘38 Edoardo ricopre la carica di presidente della Società poi sciolta nel ’38 con l’inasprirsi del fascismo. L’atteggiamento laico verso la psicoanalisi, considerata appartenente alle scienze, è stato merito di Musatti, laureato in matematica, professore universitario, presidente due volte della SPI, e dei Weiss che a Trieste erano il canale di contatto con la cultura Mitteleuropea. Conoscitori del tedesco potevano riflettere direttamente sui testi in lingua originale. Musatti ha tradotto in italiano le Opere di Freud in 12 volumi, operazione culturale di grande rilievo che ha contribuito a rendere la psicoanalisi un elemento della cultura diffusa, non ristretto al campo   specialistico.
La questione della lingua è per Anna Ferruta il terzo fattore cruciale. La psicoanalisi sviluppata in Italia è rimasta a lungo poco conosciuta dalla comunità scientifica internazionale, in quanto l’italiano è parlato soltanto nel nostro Paese. Qui nasce un forte interesse e una frequentazione in particolare con la psicoanalisi inglese e con i suoi più importanti maestri (Anna Freud, Klein, Bion, Winnicott), ma anche con la psicoanalisi francese (Lebovici, Green, Laplanche) e Latino-Americana (Bleger, Pichon Rivière, i Baranger). La psicoanalisi in Italia pertanto non assume caratteristiche prevalenti, “unitarie”, ma sviluppa diversi orientamenti, a seconda dei contatti personali che via via costruisce. Diventa un contesto multiculturale e multilinguistico, capace di ospitare diversi approcci all’inconscio.  Il quarto elemento distintivo è il concetto di relazione analitica[2]. La scelta e concettualizzazione del termine “relazione”, invece di quello consueto “rapporto”, indica un cambiamento teorico clinico che rappresenta anche un nuovo inizio per ricerche e sviluppi originali della psicoanalisi italiana.  Un quinto elemento individuato da Anna Ferruta è l’approfondimento teorico e clinico della prime fasi dello sviluppo psichico. Punti di riferimento fondamentali sono stati Eugenio Gaddini all’istituto di Neuropsichiatria Infantile dell’Università La Sapienza diretto da Giovanni Bollea, in un clima culturale dinamico e aperto agli apporti della psicoanalisi infantile internazionale (soprattutto del Middle Group inglese), introdotto da Andreas Giannakoulas, Vincenzo Bonaminio, Anna Maria Nicolò e Armando Novelletto. Naturalmente la cultura italiana è segnata da uno stretto legame con l’arte. A Firenze la psicoanalista Graziella Magherini definisce “la sindrome di Stendhal”, ovvero la crisi di panico e depersonalizzazione osservata in molti visitatori sopraffatti dalle emozioni provate di fronte ai capolavori del Rinascimento. Lungi dallo sviluppare studi didascalici di psicoanalisi applicata all’arte, gli interessi per il fenomeno artistico piuttosto studiano la categoria emozionale dell’estetica per esplorare le funzioni mentali. Infine non si può prescindere da ciò che ha costituito una rivoluzione culturale italiana studiata in tutto il mondo: la Riforma Basaglia che nel 1978 a Trieste stabilisce la chiusura dei manicomi e l’inizio dell’assistenza psichiatrica territoriale. A quei tempi molti psicoanalisti che lavoravano negli istituti psichiatrici avviano processi di umanizzazione e riforma.

Borgogno riprende il discorso di Ferruta per parlare della relazione analitica dal punto di vista personale, tramite un piccolo “amarcord” intorno ad alcuni personaggi rilevanti della psicoanalisi milanese: “la relazione analitica nel senso di come l’ho intesa e progressivamente appresa”. Ripercorre il suo percorso a partire dalle emozioni provate con i suoi primi pazienti, ai momenti miliari e agli incontri significativi durante il training. Le supervisioni con Lina Generali Clements, kleiniana che “veniva a Milano due giorni ogni mese offrendoci una maratona psicoanalitica organizzata da Dina Vallino”, e le supervisioni a Londra con Betty Joseph, delle quali ricorda anche alcuni aspetti di rigidità.  Il percorso di Borgogno parte dalla posizione kleiniana per poi metterne in crisi alcuni limiti traghettando verso la centralità della relazione analitica, in un cammino che passa anche attraverso le supervisioni con Di Chiara e Nissim. Riscopre i principali insegnamenti di cui ha fatto tesoro in quegli incontri. Ad esempio di Di Chiara ricorda l’esortazione a rimanere molto vigile a ciò che si immette nel discorso con il paziente e a monitorare la storia e le trasformazioni del rapporto analitico, andando oltre il focus kleiniano sull’hic et nunc. I diversi insegnamenti e supervisioni fanno emergere una fertile molteplicità di vertici di osservazione. Mentre il punto di vista kleiniano si focalizza sulla singola seduta, Borgogno, con Luciana Nissim, si sente convocato a osservare l’andamento delle quattro sedute della settimana. Il relatore ci rende partecipi del suo processo di riflessione sul proprio essere al lavoro con il paziente. Considera le sedute nella specificità di “quella” coppia paziente-analista e ci narra il percorso personale che lo ha portato alla consapevolezza di essere per il paziente non solo un oggetto del passato, ma anche un oggetto nuovo e diverso che apre alla possibilità di una nuova vita.

Giuseppe Moccia – discussant – rilegge il dialogo della mattinata come “una storia delle idee”. L’apertura a molteplici interrogativi che l’analista può proporre a sé stesso di fronte ad una situazione clinica problematica, grazie alla pluralità di modelli teorici, amplia il campo della comprensione.  Nell’evoluzione della psicoanalisi italiana verso la relazione, Moccia ricorda i fondamentali studi sulla fantasia di fusionalità e l’attivazione di transfert fusionali di C. Neri, L. Pallier, G. Petacchi, G.C. Soavi, R. Tagliacozzo.[3]

Alfredo Lombardozzi, chair del pomeriggio, introduce Paolo Chiari con la relazione “la persona, l’analista: Luciana Nissim”. Chiari ci accompagna attraverso le principali pubblicazioni di Nissim che permettono di ripercorrere in profondità il suo percorso umano intrecciato a quello professionale.

Nissim si laurea in medicina, conosce l’orrore dei campi di concentramento, rientra in Italia e scrive sulla propria esperienza. Nel 1946 pubblica Donne contro il mostro e poi, per tanti anni, chiude dentro di sé questa drammatica vicenda. A parlare anche per lei sarà Primo Levi, amico di Luciana, con cui viene deportata dopo il loro arresto con i partigiani in val d’Aosta.[4] Al ritorno dal campo, nel 1946, Nissim si specializza in pediatria e nel ’47 si trasferisce con il marito a Ivrea per fondare un asilo per i figli dei lavoratori. Lascerà Ivrea a metà degli anni ’50, in rotta con Adriano Olivetti, e sappiamo dalle sue interviste che nel ’56 inizia la sua analisi con Franco Fornari, che definirà “freddina e intellettualistica”. Si specializza in Psichiatria e nel ‘60 inizia il training e una nuova analisi con Musatti. Partecipa attivamente alla vita del Centro di Milano, diventando Segretario Scientifico negli anni ’70 e primo Presidente negli anni ’86-’89 dopo la lunga “monarchia” di Musatti (1963-1986).

Il libro L’ascolto rispettoso permette di conoscere quasi interamente il suo percorso; Il Cerchio magico raccoglie i suoi contributi sulla supervisione[5]. Il testo più conosciuto è Due persone che parlano in una stanza, pubblicato sulla Rivista nel 1984, presentato nel 1982 al Centro Milanese con il titolo Analista e paziente al lavoro: una suonata a quattro mani, dove sancisce una presa di distanza rispetto al modello kleiniano. In un’intervista del ’97 racconta: “In quegli anni ci fu un grande innamoramento per la teoria della Klein: il bambino invidioso, il seno buono, il seno cattivo, e pensavamo di spiegare tutto, poi arrivò Brenman che era molto meno famoso e ci fece capire che bisognava abbandonare gli automatismi”. Nessun bambino, nessun paziente è solo una bocca avida, non è detto che sempre ci invidi, può anche darsi che gli abbiamo dato una schifezza”. Grazie alla lettura di Bion, Nissim, con lo scritto Due persone che parlano in una stanza, descrive il passaggio da una prospettiva unipersonale ad una prospettiva bipersonale, a two-way affair per dirla con Bion, all’analisi come una faccenda relazionale che prende forma all’interno dell’incontro. Nissim si domanda: “Ma quando penso che un paziente mi sta attaccando non potrei anche chiedermi che cosa mi impedisce di accoglierlo?  Ciò che mi pare e che vivo come un attacco insopportabile, cosa rappresenta nelle intenzioni consce e inconsce del paziente? Mi attacca o vuole farmi capire qualcosa che proprio non riesco a sentire?” Aggiungerà in seguito che “le interpretazioni possono anche essere delle difese dell’analista” e che “quando definiamo un paziente inanalizzabile è semplicemente che quel paziente non si inserisce nello schema dell’analista”. L’attenzione si accentrerà sempre di più sulla dimensione del dialogo, un dialogo che ha una forma a spirale in cui le comunicazioni del paziente sono anche risposte all’intervento dell’analista. Come sempre le idee circolano e non si sa mai dove nascono e come si propagano. L’ascolto dell’ascolto è divenuto da quegli anni in poi a livello internazionale un’ipotesi fortemente accreditata.

Nissim ritiene che l’analisi sia un’esperienza a due dove è sempre presente un terzo: teoria, colleghi, istituzione, realtà. Negli ultimi anni della sua attività si impegna a individuare le incomprensioni inevitabili in seduta e le condizioni necessarie alla riparazione di queste rotture. Riparazione che deve essere interattiva per offrire a paziente ed analista quel senso di capacità proveniente dall’ “avercela fatta” (oggi noi lo chiameremo agency) che Nissim sapeva molto bene cosa significasse, avendolo sperimentato attraverso l’esperienza drammatica dei campi di sterminio. Gli scritti sono tesi ad esplorare nuovi modelli e affinità teoriche. Solo per citarne alcune: i Baranger, Ferenczi, gli “interpersonali” americani, gli studi sulla sintonizzazione affettiva e sulla relazione mamma bambino. È in questa prospettiva, che vanno visti i suoi contributi disponibili in italiano ne Il cerchio magico sulle risonanze emotive che la relazione e il setting producono e che vanno ad attivare le immagini interne stabilizzate. Nissim ritiene che i fallimenti empatici avvertiti dal paziente (la perdita dell’alleanza) richiamino nella mente del paziente le distorsioni, i fallimenti, le frustrazioni, i tradimenti, le offese vissute nelle relazioni precedenti, a partire da quella con i genitori. Ciò comporta che il transfert può essere anche prodotto dall’analista. Le transazioni reciproche positive all’interno di un sistema diadico rispettoso e risonante generano un’amplificazione di stati di coscienza che vengono registrati come “affetti vitali” che nutrono la speranza.

Segue Laura Ambrosiano con “Il pensiero di Eugenio Gaburri. La non cosa: dall’astinenza alla capacità negativa”. Partendo dalla premessa dell’interesse di Gaburri per le psicosi e la psichiatria e la sua passione per i gruppi come spazio terapeutico e spazio mentale, il discorso si articola su alcuni tre concetti che hanno organizzato il suo percorso: il proto-mentale, la personificazione, il campo. A Milano Gaburri ha trasmesso il contributo di Bion e ha collaborato con Corrao nella fondazione del “Pollaiolo”. Gaburri riteneva che le esperienze con i gruppi fossero fertili in termini metapsicologici. Il vertice osservativo sul gruppo si modifica, ma anche quello sull’individuo – visto come “componente” dell’insieme –  assume risonanze fino ad allora inedite mettendo a fuoco l’intrico psichico tra individuo e gruppo per il tramite della mentalità del gruppo introiettata. Gaburri sottolinea che questo cambiamento prospettico orienta l’interpretazione (nella terapia di gruppo come in quella individuale) non tanto verso le dinamiche affettive e conflittuali (fenomeni di gelosia, conflitti generazionali, emergenze di ambivalenza edipica, ecc.), ma verso emozioni, valenze, personificazioni. Il pensiero che si sviluppa in gruppo viene assunto come prototipo di un pensiero liberamente associativo, multiplo, proponente spiazzamenti e riflessioni sul nuovo.

“Insiemità” non è equivalente di fusionalità o di appartenenza, bensì è un processo di conoscenza che fa uso di “idee in transito” in un approccio conoscitivo multilogico, polisemico. Le ricadute sulla tecnica sono importanti: l’attenzione fluttuante, ritrovata con Bion come un ascolto senza memoria e senza desiderio, come capacità negativa della mente che si dispone a recepire le libere associazioni; la rinuncia in sede clinica al presunto sapere dell’analista; la considerazione di un campo emotivo, sono tutti elementi che investono di novità il trattamento dei gruppi e quello individuale.

Secondo Gaburri, l’angoscia di base non va ricondotta all’ingorgo del rimosso o all’azione coercitiva del trauma o a conflittualità irrisolte, ma ad un’area di “perturbante” che accompagna i processi di conoscenza, l’incongruo e il contraddittorio, l’opaco e il non sensato che fanno parte dei processi di conoscenza, ma da cui possono scaturire altre prospettive sconosciute.  In questa svolta epistemologica un concetto chiave è quello bioniano di “non cosa”. La “non cosa” non si inscrive in un ordine temporale, non è l’assenza dell’oggetto (gioco del rocchetto), ma attiene ad una dimensione spaziale: la “non cosa” è presente nello stesso istante in cui la cosa in sé si presenta, essa indica l’opacità dell’oggetto e la parzialità della nostra conoscenza. Questi limiti non sono ascrivibili all’azione deformante delle resistenze, alla rimozione operata dai conflitti interni, né all’azione del trauma. Essi sono propri della conoscenza che presenta scarti rispetto al reale, noi possiamo solo intravedere qualcosa attraverso le crepe del reale.  La possibilità di tollerare la “non cosa”, lo scarto, è connessa con la qualità dei rapporti primari: quando la relazione primaria è iper-densa (come quando l’analista/ la mamma sa tutto del benessere del paziente/bambino) si incista in essa e nel bambino un’intolleranza verso i limiti della nostra conoscenza e la “non cosa” diventa “niente cosa”, nulla da segnalare, nulla è accaduto che necessiti di lavoro psichico e di dare-costruire -immaginare un significato. Si tratta di rigetto-evacuazione della realtà e della vita psichica insieme.

Gaburri, sulle tracce del pensiero di Bion, ha cercato di osservare e descrivere ciò che viene prima del desiderio, non in ordine temporale ma in ordine al funzionamento della mente. Quando paziente e analista si trovano coinvolti negli strati della mente che sono prima del desiderio e degli affetti, non rappresentati e non verbali, è spesso impossibile distinguere ciò che è attinente all’uno o all’altro dei partner, al funzionamento psicotico (amalgamante e agglutinante) o alla comunicazione. È importante che in questi casi l’analista abbia a disposizione un modello che lo aiuti a sviluppare una visione binoculare capace di considerare le dinamiche del campo emotivo.

Gaburri utilizza il termine “personificazione” per indicare quel fenomeno trasformativo nel quale uno dei due membri della coppia (o di un gruppo) raccoglie su di sé, unificandole, le identificazioni proiettive che circolano nel campo emotivo. Gli stati psichici più arcaici per essere pensabili si fanno vivi transitando sul Sé dell’analista e trasformandolo in qualche modo.  L’analista che “personifica” movimenti emotivi, prima ancora di rappresentarli, favorisce un primo emergere di legame che potrà essere il prototipo del significato degli investimenti affettivi che per il paziente psicotico non sono ancora esistiti. Occorre tollerare che per un certo tempo sulla scena del setting i pensieri non ancora pensabili possano sostare in modo personificato (Gaburri, 1992), senza affrettarsi a dare loro una veste rappresentativa. Ciò li rende presenti e visibili pur mentre il loro senso resta oscuro e appartato.

L’allargamento del senso dell’identità personale, in cui è in vario modo incluso l’Altro come personificazione di notizie sul Sé, espressione figurativa di aspetti emergenti e potenziali del Sé, altrimenti condannati alla scissione e all’isolamento, è la nozione di campo. I due partner dell’analisi diventano coautori dell’esperienza analitica, in una dinamica che si fa inter e trans personale. Il viaggio analitico, come scrive Gaburri in Emozioni e interpretazione, non risulta più padroneggiabile da un analista supposto sapere, ma segue rotte in parte imprevedibili. Senza memoria e desiderio, senza principi di causalità lineare, di coerenza, il campo viene attraversato da correnti marine e venti inaspettati. Secondo Gaburri si può immaginare un campo dove si generano pensieri che possono essere fatti propri dai partners presenti. L’uomo sarebbe un pescatore bisognoso di verità, un pescatore di pensieri pesci che inizialmente appaiono come mostri, fanno paura, l’uomo pescatore dispone di una rete debole e inadeguata, la sua struttura per pensare è talora piena di buchi (le cicatrici psicotiche), talaltra del tutto priva di varchi perché troppo organizzata intorno alla realtà sensoriale o alle teorie come ideologie, come parole addomesticate[6].

Inizialmente l’interesse suscitato dai lavori di Bion tendeva contrapporre le sue idee con la metapsicologia di Freud. Ma nel corso degli anni il pensiero di Gaburri approda ad una visione continuista delle costruzioni di Freud e di quelle di Bion. Mette in contatto il compagno di viaggio prediletto e il padre amato-odiato appassionatamente, perché questo era Freud per lui.  Le nozioni di astinenza, la regola fondamentale, il pensiero liberamente associativo e l’attenzione fluttuante non sono eliminate, ma vivificate dalle formulazioni bioniane. Mettere in continuità Freud e Bion arricchisce le nostre risorse psicoanalitiche, come era accaduto a Bion quando aveva messo in continuità Freud e la Klein, anziché contrapporli.  Contrapporre l’uno all’altro i nostri maestri serve forse a offrirci un senso di specificità personale, a individuarci, a costituire sottogruppi coesi intorno a idee sacralizzate che però non allargano il nostro ascolto psicoanalitico.

Giorgio Corrente conclude l’appassionante giornata proponendo alcune letture sul gruppo e collegando alcuni elementi emersi circa l’esperienza di un oggetto nuovo nella relazione analitica al divenire O, alle trasformazioni in O di Bion, che riguardano la trasformazione del Sé per essere quello che non si è mai stati prima, in un cambiamento profondo.

Nella pluralità dei modelli l’invariante è le responsabilità psicoanalitica.

Note 

[1] Borgogno F., Luchetti A., Marino Coe L. (2016). Reading Italian Psychoanalysis. Routledge, London & N.Y, 2016.  Pubblicato successivamente in Italiano: Borgogno F., Luchetti A., Marino Coe L. (2017). Il pensiero psicoanalitico italiano. Maestri, idee e tendenze dagli anni ’20 ad oggi. Angeli, Milano.

[2] Congresso Nazionale SPI di Taormina, 1980.

[3] Neri, C., Pallier, l., Petacchi, G.C.; Soavi G.C., Tagliacozzo, R. (1990) Fusionalità, scritti di psicoanalisi clinica. Borla, Roma.

[4] Alessandra Chiappano, oltre a scrivere una bellissima biografia – Luciana Nissim Momigliano: una vita. Giuntina, 2010 – ha realizzato una mostra interattiva su otto giovani ebrei, tra cui Nissim e Primo Levi: A noi fu dato in sorte questo tempo.

[5] Contributi di Anna Ferruta e Francesco Barale pubblicati in Luciana Nissim Momigliano. Una vita per la psicoanalisi. Il paziente miglior collega, e quello di Franco Borgogno nel suo scritto Il ruolo dei supervisori, dove mette a confronto Luciana Nissim con un’altra importantissima analista e grande amica, Stefania Manfredi, pubblicato ne La via milanese alla psicoanalisi.

[6] Emozione e interpretazione. Bollati Boringhieri, 1997

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