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CdPR – 28 giugno 2014 Graham Music, “The good life: benessere, altruismo, egoismo e immoralità”

21/07/14

Centro di Psicoanalisi Romano

Graham Music(1), “The good life: benessere, altruismo, egoismo e immoralità

28 giugno 2014

Report a cura di:
Ludovica Filippucci e Laura Porzio Giusto

Ci siamo evoluti per essere egoisti o cooperativi? Come si forma il nostro senso morale? Come influiscono sulla nostra moralità le cure genitoriali che abbiamo ricevuto e la famiglia in cui abbiamo vissuto? Qual è il ruolo della nostra biologia o dei nostri geni? Che peso ha la particolare cultura in cui siamo nati? Questi tra i più importanti interrogativi sollevati nella giornata di lavoro con Music.
Il tema affrontato è La vita buona(2)o eudaimonia (concetto aristotelico) intesa come vita vissuta eticamente e in modo piacevole.
Angelo Macchia, Segretario scientifico del Centro di Psicoanalisi Romano, apre l’incontro suggerendo che la proposta di Music potrà aiutarci a ripensare alcuni capisaldi della teoria psicoanalitica mettendo forse in discussione idee e concetti che diamo per assodati.
Carla Busato Barbaglio, Presidente del Centro di Psicoanalisi Romano, pone importanti interrogativi, che costituiranno un filo rosso della giornata: quanto siamo capaci di essere vivi con i nostri pazienti e perciò di comunicare vita, al di là delle interpretazioni? Come e dove stiamo con i nostri pazienti? Quali sono le nostre aree cieche, quali le nostre aree trascurate?
La buona vita è un tema di grande interesse nel difficile momento storico in cui viviamo, definito da Bauman “società liquida”, dove velocità, frenesia e rapidi cambiamenti rendono difficile la sedimentazione di valori e comportamenti. Da ricerche attuali risulta che anche il nostro cervello si è adattato alla frenesia di questi tempi, tanto da far fatica a sopportare uno stile di vita più naturale. D’altra parte l’Infant Research e le ricerche sulla teoria dell’attaccamento, ci mostrano chiaramente che lo sviluppo sano del bambino, necessita di caregivers empatici, capaci di sintonizzarsi con attenzione e cura e di mantenere un contatto con la mente dell’altro in un continuo lavoro di esercizio della funzione riflessiva. Sono queste le caratteristiche che permettono lo sviluppo di un attaccamento sicuro che, come ci mostrerà Music, è condizione necessaria alla buona vita. Come analisti siamo chiamati a rispondere a una grande sfida: come farci carico di tutti questi cambiamenti sociali tenendo conto di quanto emerge dalle ricerche sull’attaccamento?
Music dichiara fin dalle prime battute che il suo interesse è comprendere il modo di vivere e di agire. Perché in alcune circostanze agiamo bene e in altre male? La bontà è innata o acquisita? Potremmo dire con la Klein che introiettiamo la bontà del seno della madre oppure con Winnicott ritenere che l’abbiamo già dentro.
L’intervento di Music, denso di osservazioni cliniche e dati della ricerca empirica, ci coinvolge da subito come spettatori partecipi e vivi. Oscilliamo tra diversi registri in cui le variabili in gioco si intrecciano mostrandoci interessanti correlazioni tra stile di attaccamento, comportamento osservato e attivazione di strutture cerebrali e livelli ormonali (per es. cortisolo e ossitocina). Le ricerche evidenziano che le prime esperienze relazionali sono determinanti ai fini dello sviluppo dell’altruismo e della generosità. I soggetti con attaccamento sicuro tendono a essere più generosi ed empatici. I diversi stili di attaccamento negli adulti permettono poi di prevedere il comportamento in termini morali e altruistici.
Quali sono allora le radici di un attaccamento sicuro? Quali le aree cerebrali interessate? Le funzioni genitoriali di cura e attenzione alla mente (e al corpo) del bambino facilitano lo sviluppo di una buona regolazione emotiva e di capacità empatiche. Per rivolgerci agli altri con empatia è necessario comprendere la nostra mente e quella dell’altro, differire le gratificazioni e regolare le nostre emozioni. I bambini già intorno ai tre mesi di età hanno la capacità di sentirsi tenuti a mente e a sei mesi, sono in grado di avere una comprensione sufficiente della mente dell’altro. Queste competenze interessano il lobo prefrontale del cervello e in genere non si sviluppano in bambini e adulti gravemente traumatizzati. Sembrerebbe dunque esserci un nesso tra il “sentirsi bene” e l’”agire bene”. A conferma di ciò Music ci riporta un famoso esperimento degli anni Settanta (Isen, Levin, 1972) in cui veniva utilizzata una cabina telefonica dove a volte gli sperimentatori lasciavano una moneta. Si osservava il comportamento delle persone prima all’interno della cabina e poi all’uscita, quando incontravano un’attrice che fingeva di lasciar cadere un fascio di carte. Il risultato fu che chi aveva trovato la monetina aveva una probabilità circa otto volte superiore di aiutare la persona in difficoltà (l’attrice).
Molti studi hanno dimostrato che la ricompensa intrinseca derivante dal compiere un atto altruistico e generoso è più gratificante di una ricompensa estrinseca (denaro per gli adulti, giocattoli per i bambini). Questo dato osservativo è sostenuto dalle neuroscienze che mostrano che quando mettiamo in atto un comportamento che ci fa sentire buoni, vengono attivati i circuiti cerebrali della ricompensa.
La domanda che ci poniamo come analisti è se la psicoterapia possa accrescere la propensione all’altruismo. Non abbiamo prove certe al riguardo, ma sicuramente possiamo asserire che parte del lavoro terapeutico mira a sviluppare capacità di contenimento (Bion 1962), holding emotivo (Winnicott, 1966) e mentalizzazione (Fonagy, 2002), funzioni senza le quali non sono possibili generosità spontanea, altruismo ed empatia.
La discussione aperta da Boccanegra e Falci, pone interessanti quesiti e riflessioni. Come far dialogare il concetto di altruismo con i miti fondativi della teorizzazione freudiana? Come inserire un’ottica nuova nella botte vecchia della psicoanalisi? Music allarga la concezione etica della psicoanalisi, proponendo una visione della natura umana che rilancia le componenti generose e altruistiche, pur tenendo in considerazione gli aspetti aggressivi, egoistici e competitivi. Diverse concezioni dell’uomo generano teorie diverse e, non potendo fare affidamento su una realtà oggettiva, troviamo nell’altro ciò che cerchiamo. Nella stanza d’analisi questo si traduce nella possibilità di guardare alle potenzialità del paziente dando spazio a sviluppo e crescita e facilitando aspetti di speranza. Boccanegra sottolinea che l’incontro tra analista e paziente sollecita un continuo lavoro di traduzione, dove “tradurre non significa solo tradire ma bensì riaccostarsi all’oggetto originario perduto di cui ogni singola lingua non può che dire solo una parte”. Nel vivace dibattito tra Music e la sala emerge che tradurre bene significa comprendere non solo cognitivamente ma soprattutto emotivamente e che questo aiuta il paziente a sviluppare narrazioni più ricche in termini emotivi. “Buono” e “cattivo” non sono da intendersi in senso moralistico, ma “buona” è una vita vissuta con autenticità emotiva, dove appare fondamentale il passaggio dall’oggetto al legame con esso. Non sembra, infatti, possibile pensare l’essere umano in termini soltanto individualistici, ma occorre allargare il campo prendendo in considerazione la coppia, il gruppo e il contesto.
Il pomeriggio si apre con un’introduzione di Mondello al caso clinico presentato da Nardi, ricordandoci che l’assetto in cui lavoreremo non sarà quello di una supervisione, bensì quello di considerare il caso trascinandoci quanto la relazione di Music e la discussione con la sala ha via via preso corpo nel corso della mattinata. Questo “corpo” sembra costituito da una “biologia buona” accompagnata dall’intersoggettività. La prima è sostenuta da ricerche che ancorano ciò che Music definisce una propensione innata all’altruismo, alla cooperazione e alla generosità, ad attivazioni cerebrali e ormonali specifiche; la seconda appare una dimensione necessaria alla tessitura del Sé, elemento fondativo dello sviluppo della mente, della relazione tra analista e paziente e parametro sistemico.
Immediatamente dopo la lettura del caso, un paziente trattato prima in età infantile e tornato dall’analista in adolescenza, Music ci sorprende nuovamente alzandosi in piedi, dicendo che vuole sentirsi nel proprio corpo e chiedendosi se tale reazione sia dovuta a un effetto post-prandiale o piuttosto a quanto era stato letto: “Forse a tutti e due, forse dipende dalla natura di ciò che il paziente incorpora e di ciò che non incorpora”. Il corpo emotivo e potremmo dire reattivo (nel contro-transfert) è sotto i nostri occhi, o meglio nel nostro campo esperienziale nel qui ed ora. Il paziente, prosegue, è molto fortunato ad avere incontrato Nardi, un “essere umano sensibile e riflessivo”, dove la scelta della parola -“essere umano”- in un primo tempo passibile di una lettura naif, sembra invece immediatamente collocarci in una prospettiva altra e al tempo stesso profondamente psicoanalitica. Esplicitando il proprio vertice osservativo- le teorie delle relazioni oggettuali e la teoria dell’attaccamento- Music pone l’attenzione sulla necessità in questo caso di considerare e coinvolgere il contesto familiare, in quanto ambiente relazionale che appare incapace di elaborazione emotiva. Questa considerazione introduce la questione per lui più importante: a quale livello lavoriamo? Citando Anne Alvarez, Music sottolinea l’importanza di ascoltare i livelli pre-simbolici, comprendendo e amplificando le emozioni del paziente (livello descrittivo) e lavorando su un aspetto “vitalizzante”, specie con quei pazienti che sono tagliati fuori dalla vita. Ecco che il richiamo all’umanità di Nardi ci appare più chiaro e Music sostiene che per lavorare a questi livelli occorre accorgerci del nostro contro-transfert, specialmente nelle sue reazioni corporee. Un invito che rivolge spesso alla sala, chiedendoci per esempio dopo la proiezione di filmati, come ci siamo sentiti e cosa avremmo voluto fare con questo o quel bambino.
“Se lavoriamo al contenuto e non al processo perdiamo la relazione” o ancora “il pericolo è che facciamo qualcosa che assomigli alla psicoanalisi ma in termini emotivi non lo è”. Queste alcune affermazioni che colpiscono per la capacità di entrare nella vita e nel cuore del lavoro con il paziente e che al tempo stesso possono apparire destabilizzanti rispetto a un modo di intendere psicoanalitico più tradizionale. Così Music ci confessa, non senza una battuta autoironica, che a volte nel suo lavoro di supervisione, chiede ai candidati di immedesimarsi nella posizione del corpo dei propri pazienti e di vestire i loro panni. Questo può aprire grandi prospettive. Appoggiandosi sui concetti winnicottiani di vero e falso Sé insiste in più punti sulla necessità che il paziente possa ascoltare se stesso e vivere in sintonia con i propri sentimenti e non secondo desideri e aspettative degli altri (la famiglia, il gruppo dei pari, e anche l’analista). Occorre, dice, mantenere una tensione continua tra attenzione fluttuante e relazione genuina e concreta con il paziente, perché il nostro lavoro “non è fare ciò che sembra giusto per la psicoanalisi ma raggiungere il paziente”. Il tema che Music vorrebbe discutere con la sala è: a quale livello lavoriamo? E nel darci la parola: “Che cosa ne pensa il pubblico, quello che ho detto appare sacrilego?”
Non sapremmo dire quale sia stata la risposta dei colleghi a quest’ultima domanda, ma certamente abbiamo ascoltato una pluralità di voci in un dibattito acceso e vitale. E questa è forse già una risposta.
La discussione, sempre dialogica tra i relatori e il pubblico, ha colto la capacità di Nardi di aver tenuto a mente e a cuore il paziente non solo durante le due tranches di analisi ma anche negli anni di assenza. Se il paziente torna dall’analista in adolescenza, momento di tormenti e dubbi, ma anche connotato da movimenti e possibilità di crescita, significa che tra i due era accaduto qualcosa di emotivamente significativo. L’ascolto della clinica ha permesso alla sala la realizzazione di quella sintonizzazione con l’esperienza emotiva reale del paziente di cui Music ci aveva parlato. La seduzione a interpretare il contenuto rischia invece di riproporre quella scissione mente-corpo (psiche-soma con Winnicott) foriera della costituzione e dell’irrigidimento di difese intellettuali.
Nell’esperienza di essere sintonizzati è molto importante che l’analista sia separato e interessato e che il paziente possa identificarsi con un oggetto vivo e vero. Ritorna il tema dell’essere vivi e spontanei che s’intreccia con il tipo di linguaggio utilizzato. Il linguaggio non è solo significato ma è vita, prosodia, energia. Quale linguaggio utilizziamo con i nostri pazienti per entrare nella loro mente e uscirne fuori? Come ci accostiamo a loro? Sappiamo camminare sul filo dell’incerto equilibrio tra distanza e vicinanza? Music ci racconta il più importante insegnamento ricevuto da un suo maestro: se il paziente è caduto in un fosso non ha senso rimanere sul bordo offrendo una brillante interpretazione, né tuffarsi con lui, perché a quel punto ci sarebbero due persone nel fosso; bisogna mettere un piede dentro e tenere l’altro, ben saldo, fuori.

Note
(1)Consultant Child Psycotherapist e Associate Clinical Director alla Tavistock Clinic di Londra.
(2)Music, G. (2014), La vita buona, Trad. it. Borla, Roma, 2014.

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