Michele Bezoari (Discussant del Panel: “ Divenire soggetti.Teorie in campo”
Relazioni di Giorgio Sassanelli, Alessandro Garella, Nicolino Rossi)
Esporrò alcune idee suscitate dalla lettura e dall’ascolto delle tre relazioni, facendo leva sulle intersezioni che mi è parso di cogliere – da un punto di vista ovviamente soggettivo – fra le linee di pensiero sviluppate dagli autori.
Il tema del soggetto e dell’intersoggettività non compare esplicitamente nell’opera di Freud, ma ne costituisce un presupposto implicito.
Come già notava Ricoeur, la tecnica psicoanalitica nasce dall’audace scelta di attribuire alla relazione intersoggettiva nuove potenzialità di indagine e insieme di cura.
Quanto al soggetto, si può dire che sul piano della teoria, della clinica e, più in generale, della cultura la psicoanalisi freudiana ha operato una radicale critica e decostruzione del soggetto fenomenologico, inteso come centro di autocoscienza riflessiva e di intenzionalità consapevole, svelandone lo statuto illusorio rispetto alla realtà psichica inconscia che lo sottende e lo determina.
Anche nei principali sviluppi del pensiero psicoanalitico postfreudiano in senso relazionale, l’enfasi lessicale e teorica era posta sull’oggetto e sulla centralità delle relazioni definite – appunto – “oggettuali” nello sviluppo infantile e in tutta la vita psichica. Il versante soggettivo della relazione rimaneva in ombra, lasciando supporre che la soggettività fosse un epifenomeno emergente in un processo evolutivo scandito dalle alterne vicende di presenza/assenza dell’oggetto.
La tendenza a portare in primo piano la soggettivazione come processo specifico da indagare e a cui fare posto nella teoria proviene da almeno due direzioni convergenti.
La prima, interna al campo analitico, è riconducibile al lavoro clinico con pazienti cosiddetti “gravi”, che sempre più ha messo gli analisti di fronte a condizioni di vita psichica dove l’esistenza di un soggetto (e delle relative funzioni) non può essere presupposta, ma deve ancora costituirsi prima di diventare accessibile a un’analisi secondo il modello classico, poiché si tratta di esperienze emotive la cui inscrizione nell’inconscio rimosso non è mai avvenuta.
La seconda origine va ricercata nelle sempre più accurate osservazioni extra-analitiche delle prime fasi dello sviluppo infantile e, in particolare, delle fini interazioni madre-neonato.
Ne è scaturita l’ipotesi, oggi largamente condivisa, che perché si sviluppi la soggettività (o “soggettualità”, come preferisce chiamarla Sassanelli) è necessaria la relazione con un altro soggetto che la riconosca fin dall’inizio, ancora in nuce, vicariandone alcune funzioni e anticipandone, avant-coup, la piena espressione.
Se l’enfasi sul ruolo essenziale svolto dalla mente materna nella vita psichica originaria del bambino non è certo una novità per la psicoanalisi (basti pensare ad autori come Bion e Winnicott), l’uso crescente di termini come soggetto, soggettività, soggettivazione, in assenza di un quadro concettuale definito, solleva non poche questioni teoriche, con ricadute anche sul piano clinico.
La diversità di risposte a tali questioni nel panorama psicoanalitico attuale è ben esemplificata da due linee di pensiero, geograficamente e culturalmente situate sulle opposte sponde dell’Atlantico. Da un lato c’è la tendenza, emersa nell’ambito del cosiddetto intersoggettivismo americano, a considerare l’intersoggettività come una categoria su cui rifondare ex novo l’edificio teorico della psicoanalisi.
Dall’altro lato, sulla sponda europea, le nuove prospettive aperte intorno al soggetto e alla sua matrice relazionale sono accolte come uno stimolo ad espandere, ristrutturandola, la metapsicologia freudiana e post-freudiana, per far posto a quella che alcuni autori francesi (sia pure con varietà di accenti) qualificano come una auspicabile “terza topica”.
Notando che i tre relatori di questo panel sembrano collocarsi, più o meno esplicitamente, in questa seconda area di ricerca, proverò a indicare, ai fini della discussione, alcuni effetti che l’entrata in scena del personaggio “soggetto” (secondo la felice metafora di Garella) potrebbe avere sulla riformulazione (ri-narrazione) della teoria della cura analitica.
Le caratteristiche del metodo e del dispositivo analitico mirano, sottolinea Garella, a “indebolire la funzione dell’autoconsapevolezza, la funzione soggetto” per favorire l’osservazione di attività psichiche inconsapevoli riconducibili a processi inconsci. In analisi, dunque, si rivela “l’illusione dell’attività e la realtà della passività del soggetto”. Un’illusione che, tuttavia, è necessaria per poter essere analizzata. La direzione implicita della cura analitica è lo sviluppo di un soggetto un po’ più autoconsapevole e un po’ più svincolato dalle coazioni a ripetere.
Ma cosa accade in analisi alla soggettività dell’analista?
L’analista in seduta dovrebbe, secondo Sassanelli, “desoggettualizzarsi” (nel senso indicato, ad esempio, dalla bioniana sospensione di memoria e desiderio) per occupare il posto dell’oggetto che il paziente ha bisogno di attribuirgli. Solo così si configurerà quel “campo relazionale” in cui il paziente, grazie al lavoro analitico, potrà diventare consapevole del suo inconscio “assoggettamento” e svilupparsi come soggetto più libero e creativo, con accresciute capacità di “pensiero mitico-metaforico”.
Sappiamo, tuttavia, che anche l’analista meglio preparato e disponibile non può evitare di trovarsi coinvolto nelle dinamiche inconsce di transfert-controtransfert a cui la sua stessa soggettività si scoprirà assoggettata, prima di potere ogni volta riguadagnare, grazie al buon funzionamento del dispositivo analitico, un maggior grado di pensabilità e consapevolezza per sé e per il paziente.
Il soggetto dell’analisi è un soggetto sempre in divenire, ben oltre il periodo dell’età evolutiva. Le vicissitudini della soggettivazione nelle relazioni primarie, su cui Rossi apre un’agile prospettiva dinamica libera da ipoteche nosografiche, forniscono anche un modello di comprensione per le vicissitudini nelle relazioni di coppia tra adulti. Avendo ascoltato con interesse il racconto di Rossi su alcune esperienze cliniche di applicazione del metodo analitico al trattamento delle coppie, mi sembra suggestivo considerare l’impegno dell’analista in tali condizioni anche come metafora della dialettica che si instaura nel setting abituale, dove l’analista oscilla tra il coinvolgimento – conscio e inconscio – in una relazione di coppia e l’osservazione della coppia da un punto di vista terzo.
A differenza di quanto avveniva in epoche passate, oggi non sarebbe più sostenibile il modello ideale di un analista che occupa in permanenza e di diritto la posizione di soggetto terzo, sempre e subito consapevole di tutto ciò che accade in seduta.
La funzione di terzietà, come capacità di rendere soggettivamente pensabile ciò che prima era soltanto patito e agito, andrà ogni volta realizzata nel vivo dello scambio interpsichico tra analista e paziente, in una dimensione a sua volta configurabile come terza rispetto ai due soggetti dell’analisi (quella che, ad esempio, Ogden denomina “terzo analitico intersoggettivo”).