L’esperienza del dolore e la difficoltà di viverla:divenire soggetti
Il panel come richiesto è composto di tre relazioni di circa 15.000 battute l’una.
1.L’esperienza del dolore e il dolore che non c’è
Maria Adelaide Lupinacci Tonia Cancrini
Accanto alla preoccupazione per i fenomeni psichici inconsci Freud aveva sempre manifestato un grande interesse per il problema del passaggio, che sembrava piuttosto misterioso, dal somatico allo psichico che qualifica l’essere umano.
“L’attività mentale primaria è alimentata essenzialmente da esperienze corporee” scriveva Gaddini (1976, 392) che si riferiva essenzialmente nel neonato ad esperienze dal e nel proprio corpo. Oggi siamo propensi a pensare che l’attività mentale si alimenti fin dall’inizio dalle esperienze di contatto e dalla qualità del contatto con il corpo “altro” della madre. Percezione dell’altro e autopercezione si alimentano reciprocamente. Un momento cardine di questo passaggio dal corporeo al mentale sembra quello dell’emergere e del costituirsi della coscienza, come organo per la percezione qualitativa dell’esperienza (Freud, 1911).
Bion (1961) aveva poi ipotizzato che una funzione specifica della personalità umana (funzione α) dovesse essere necessaria fin dall’origine della vita per convertire i dati sensoriali in elementi dotati di un barlume di qualità mentale (elementi α). Che possono rimanere inconsci, originariamente riposti in quei luoghi del funzionamento mentale che oggi chiamiamo memoria implicita, scorrere come un flusso di pensiero sognante o diventare coscienti.
Citando ancora Bion: “Secondo questa teoria la coscienza dipende dalla funzione α ed è logicamente necessario supporre l’esistenza di una simile funzione, se dobbiamo presumere che il Sé sia in grado di essere consapevole di se stesso, nel senso di avere una coscienza di sé attraverso la esperienza che ha di se stesso” (p 201).
E’ così che mi pare di cogliere la essenza del tema del Congresso. Diventare soggetto, essere soggetto, si costituisce in questa esperienza che il Sé ha di se stesso e delle sue emozioni. Non è importante che sia conscia nel senso comune del termine: l’esperienza di sé, inserita in un flusso continuo di trasformazioni in α, di significazione emotiva, può diventare inconscia o cosciente, formare una pellicola di pensiero/sogno o diventare pensiero vigile. Ma il senso dell’esperienza per l’individuo è acquisito e con il senso è acquisita la potenziale tollerabilità dell’esperienza e del suo significato. Si è diventati soggetti nel duplice significato di soggetto psichico/detentore di un apparato psichico e di soggetto del proprio essere, con una padronanza della propria esperienza che, per quanto dolorosa e involontariamente subita, è vissuta consapevolmente e non è distruttiva dell’Essere, del Sé.
Questo non può avvenire che nel rapporto. Nella relazione primaria la potenzialità del bambino si nutre dell’accoglimento all’unisono, della comprensione della madre che sta emotivamente con lui nell’esperienza, la riconosce, conferma e potenzia o la attenua, secondo necessità.
La funzione α lavora infatti su due fronti; potenzialmente innata nella personalità, in un’ottica longitudinale è una funzione che un individuo maturo, la madre mette al servizio del piccolo immaturo perché la utilizzi e nell’utilizzarla la apprenda e sviluppi per sé (Lupinacci 2008). Così nell’esperienza somatopsichica della relazione che fonda la vita emotiva, la copresenza di Soggetto e Oggetto altro-da-sé assicura autenticità al vulnerabile Sé infantile in formazione, fornisce una funzione para-stimolo e ne costruisce introiettivamente la forza.
Ma nel caso in cui l’esperienza vuol dire “dolore”?
Quando l’esperienza psichica del Sé nascente, l’esperienza nascente del Sé sono di dolore? Il momento in cui essere e significato dell’essere si intercettano può essere tremendamente insopportabile, se il significato è “dolore”.
“Il mio nome è <dolore>” canta Butterfly alla fine dell’opera quando ha cessato di illudersi di potere conservare l’oggetto amato e tutta lei stessa altro non è che dolore. E ne muore. Ma si può sopravvivere fisicamente e morire psichicamente. Sono quelle persone che “sperimentano” il dolore ma non lo “soffrono” (Bion, 1963). Così impastate di dolore che non lo sperimentano neanche più. Muore una parte di sé, una parte della propria sensibilità è soppressa, ma non possono neanche sperimentare pienamente la vita né il piacere. Oppure lo trasferiscono altrove, il dolore (negli altri, nel corpo) in effetti perpetuandolo. In ogni caso la soggettività è lesa, menomata.
Purtroppo il dolore è un fatto della vita e la capacità di “soffrirlo” è indispensabile alla vita. Soffriamo perché siamo vivi e sensibili, perciò anche consolabili e capaci di piacere, desiderio, tenerezza, di ricevere e dare amore. Allora è necessario che nello sviluppo si strutturi nell’individuo un sistema per la gestione del dolore. Originariamente fra mamma e bambino solo se il dolore è accompagnato (attraverso il contenimento bonificato, modulato, soprattutto sottratto alla solitudine) può essere tollerato e si può formare col tempo la capacità di “soffrirlo”, una conquista che può avvenire solo nella relazione.
Inevitabilmente questa evenienza si ripresenta in analisi e coinvolge profondamente l’analista che deve potere stare col dolore del paziente, nel luogo del suo dolore. Dicevo prima del dolore sottratto alla solitudine; il dolore a volte non si può toglierlo, ma se ci stiamo si può sottrarlo alla solitudine e allora cambia la qualità del dolore.
Il dolore va anche riconosciuto, nominato; il dolore non nominato (accoglierlo veramente è nominarlo), rimane lì incistato, incapsulato, sentito in altre forme, frainteso. Nell’analisi è necessario trovare spazio e tempo per il dolore (Cancrini 2002) se si vuole affrontare “una delle ragioni centrali per le quali il paziente è lì” (Bion, 1963, 77).
La considerazione che per la gestione del dolore sia fondamentale la presenza dell’altro fa comprendere come anche per l’analista, quando nell’analisi si giunge a toccare temi di intenso o traumatico dolore del paziente, talvolta può essere necessario l’apporto di un altro collega o di un gruppo che, a fronte di scoramento, disorientamento, insofferenza reimmetta l’analista nel circuito vivo della relazione e gli permetta di assumere l’elemento “dolore” del paziente.
Si è più propensi a parlare dei successi, casi difficili finiti bene. Ma ci sono situazioni incomplete, in cui la capsula di dolore del paziente non si scioglie; occasioni di dolore per l’analista; di disagio e forse rancore per il paziente.
Un dolore che non può essere toccato può essere legato ad un segreto intoccabile. L’intensità della paura e del rifiuto inconsci alzano una barriera fortissima; può cogliere l’analista impreparato, forse anche intimidirlo, quando il doloroso segreto è avvicinato. Sono possibili interruzioni improvvise.
Dopo diversi anni di analisi Lia non aveva più attacchi di panico, molte aree della sua vita emotiva si erano riequilibrate, aveva raggiunto notevoli traguardi nel lavoro. C’erano momenti in cui si sentiva libera di muoversi, vivere, essere se stessa. Stava tornando ad esser “soggetto”, padrona di sé e della propria vita. E però… una angoscia di fondo persisteva e prendeva la forma del dubbio tormentoso: Possibile che sto bene, che non mi sentirò male? Non sono una che può stare bene! Lia, con una struttura caratteriale ossessiva, non si era mai affidata completamente al rapporto con me; poteva essere fredda, talvolta scostante. Sempre controllata e controllante, di fatto non riusciva a “sentirsi” vivere, ma si “guardava” vivere, fuori da se stessa. Ora invece le capitava di lasciarsi andare con se stessa e con me e respirava; ma si bloccava subito, inconsciamente distruggendo tutto: visto che non era possibile stare bene?
All’inizio dell’analisi aveva accennato di avere abortito una volta da adolescente come una cosa razionale, senza conseguenze, bloccando violentemente ogni mio commento. L’esperienza era poi scomparsa dalla scena analitica, sentita ma non sofferta. Alla fine dell’ultima seduta prima dell’estate, Lia parla del figlio adolescente innamorato di una ragazza. Dormono insieme, lui sostiene che sanno quello che fanno; non vuole parlare, non ha bisogno di consigli. Speriamo che sappia davvero quello che fa, sospira Lia, non oso pensare. C’è una vibrazione intensa, dolorosa, vera nelle sue parole che mi colpisce.
Ho un pensiero improvviso, vivido: l’aborto! Ecco il dolore, intoccabile forse perché fin ora avvertito piuttosto come colpa. L’amore per il figlio le permette di avvicinare il dolore inavvicinabile, nascosto nella capsula del segreto. Sfiora il dolore proprio attraverso il pensiero dell’esperienza che teme possa farne il figlio.
Ho in me la percezione di enorme, potenziale dolore per il potenziale bambino di allora, per il rischio che corre il figlio amato di adesso. Come se ora, attraverso il figlio, potesse giungere alle soglie del dolore non vissuto di allora; quello che forse sta bloccando la sua vita e l’analisi.
Ma la seduta è finita. Non c’è tempo per una cosa così grossa. Penso: a settembre. A settembre Lia non riprende l’analisi.
Possiamo dunque considerare il dolore come una prima esperienza di soggettivazione. La possibilità di vivere il dolore, o anche il piacere rappresentano infatti la nascita psichica. Accade a volte che il trauma o l’assenza dell’altro in momenti significativi impedisca che si riesca a sentire il dolore o il piacere. E’ importante capire come si arriva alla possibilità di vivere il dolore. E’ infatti fondamentale per lo sviluppo psichico poter vivere il dolore: un dolore non vissuto rimane come un peso enorme nella vita emotiva: un malessere indefinito e confuso che blocca la vita affettiva e mentale. Come ha mostrato Adelaide Lupinacci, nello sviluppo del bambino la partecipazione affettiva alla vita è strettamente legata al modo in cui la relazione con l’altro viene vissuta e sentita.
Pur consapevoli che la vita dei sentimenti è comunque il valore da raggiungere, non possiamo non vedere che ci sono delle situazioni in cui l’esperienza del dolore mentale è particolarmente difficile da sperimentare. Accade infatti, in situazioni traumatiche e difficili, che la vita dei sentimenti sia sentita come una minaccia tremenda e insostenibile e allora appare preferibile chiudersi a delle possibilità vitali e addormentare dentro di sé ogni emozione. Il che comporta però un impoverimento della vita psichica e dei rapporti affettivi. Quando non si vive, non si riesce a vivere il dolore si può determinare un vuoto mentale e affettivo (lo vedremo nel lavoro di Mirella Galeota). Oppure il corpo diviene il luogo in cui il dolore viene scaricato, e allora si è oppressi da disagi fisici che tormentano ma che in qualche modo allontanano dal dolore mentale (come ci mostra il caso di Daniele Biondo).
Melanie Klein ci mostra come l’odio e il senso di colpa impedisce che si viva il dolore e quindi diviene impossibile l’elaborazione della perdita. Il senso di colpa è indubbiamente un fattore molto importante nel rendere invivibile il dolore, ma a rendere a volte impossibile l’esperienza del dolore c’è anche l’impossibilità di condividerlo. Da soli infatti è molto difficile vivere il dolore, che diventa allora invivibile: per poter tollerare la sofferenza è fondamentale la relazione con l’altro e la condivisione. Credo sia anche importante capire la stretta connessione che c’è tra l’intensità del dolore e la struttura contenitiva: il dolore può essere di per sé invivibile perché troppo forte o perché il contenitore non è adeguato. Questo ci rimanda al tema della morte improvvisa, ai lutti precoci: traumi così difficili da tollerare, oppure alle strutture mentali dei bambini incapaci di contenere situazioni emotive troppo violente e coinvolgenti soprattutto dove viene meno una vicinanza affettiva adeguata da parte degli adulti.
Perché si possa vivere il dolore è fondamentale che prevalga l’amore. Freud (1929) sottolinea come “mai come quando amiamo prestiamo il fianco alla sofferenza”, ma potremmo dire anche che mai come quando amiamo siamo in grado di vivere il dolore. Se non c’è l’amore non ci può essere il dolore.
Nella situazione della elaborazione del lutto vediamo quanto sia stretto il legame tra amore e dolore. Se di fronte alla morte o alla perdita della persona che amiamo siamo travolti dal dolore e il dolore può anche portarci al limite della follia per la sua invivibilità (Cancrini 2002), nel momento in cui invece c’è stato un rapporto ambivalente e carico di aggressività è difficile provare il dolore e quindi elaborare il lutto. Infatti quando prevale il risentimento, il fastidio allora è difficile vivere il dolore. Mentre, come nota la Klein (1940): “La riduzione dell’odio e della paura permette al dolore di erompere con tutta la sua forza” (342)
In quest’ultimo periodo ho potuto seguire molto da vicino come sono state vissute da una paziente la malattia e la morte del marito. Pensando al Natale dello scorso anno con Alfredo malato mi dice: ” Gli sono stata sempre vicina e non ho condiviso niente”. Un sogno sembra esprimere bene questa situazione interna:Alfredo malato, quasi non lo vedo, c’è con lui Santa (che però nel sogno è una donna) che deve dare da mangiare a Alfredo. C’è un uovo. Non riesce né a vedere, né a nutrire Alfredo, c’è un blocco fatto di risentimento, di rabbia, di fastidio, di sensi di colpa che impedisce l’amore e il desiderio di dare. E questo mi sembra il dramma del non-amore che impedisce di provare il dolore. Ripensa al giorno del compleanno in cui il marito non ha detto nulla di affettuoso nei suoi confronti e in cui si è sentita messa da parte, non considerata, in qualche modo disprezzata. “È tutto molto ingarbugliato, c’è tanto risentimento dentro di me è allora non viene fuori né l’affetto, né il dolore. Mi manca il compagno della mia vita, a momenti ne avverto l’assenza, perché mi sento sola. Però non posso provare dolore perché c’è in me troppo risentimento, troppa rabbia. Nell’antro oscuro del mio cuore non riesce a nascere l’amore. Avverto confusione, impotenza, non ci capisco niente. E allora c’è l’emicrania, la pressione che scende e sale.”
Qualche seduta dopo si sente un po’ riconciliata con Alfredo anche se si sente sempre in colpa per non averlo capito di più. E allora può sognare qualcosa che porta un po’ di luce su quanto prima viveva soltanto fisicamente.Io e Alfredo in una casa di cura, nel soffitto ci sono dei fili tutti ingarbugliati. E l’infermiere dice: adesso ve la dovete vedere voi. Parliamo dei fili da sbrogliare nella sua testa e nel loro rapporto che riguardano i sentimenti complessi e ambivalenti che sta vivendo dentro di sé. Commenta: quando è morto papà piangevo sempre, per Alfredo a tratti. E questo ci rimanda a un rapporto molto intenso anche se molto idealizzato con il padre, spesso lontano per lavoro. Ma sappiamo entrambe – e lo abbiamo visto ampiamente nella lunga e intensa relazione analitica – che pesa su di lei soprattutto un rapporto molto disturbato con la madre, distante affettivamente e poco amorevole. Dove il rapporto primario è molto disturbato è difficile vivere il dolore. Spesso ci si trova ad avere a che fare con sensazioni di disintegrazione, di panico, di caduta nel nulla, ma non con il dolore.
2.L’analista e il dolore del paziente: come si arriva a vivere il dolore nel rapporto psicoanalitico
Tonia Cancrini Tito Baldini Mirella Galeota
Come deve operare l’analista per aiutare il paziente a vivere il dolore? E’ importante innanzi tutto che l’analista riesca a tollerare in sé la sofferenza e quello che questa comporta. Nell’esperienza psicoanalitica noi cerchiamo di riattivare la vita affettiva e quelle parti della personalità che sono rimaste soffocate e chiuse per paura della sofferenza e cerchiamo di rendere vivibili ed esprimibili quei sentimenti più profondi che non riescono a emergere. Sappiamo altresì che, per poter riuscire in questo compito così importante, dobbiamo essere dentro l’analisi con tutta la nostra sensibilità e personalità, arricchendo il rapporto analitico anche con il frutto delle nostre personali esperienze e con la disponibilità a metterle in qualche modo in gioco con coinvolgimento e sofferenza. E questa disponibilità è possibile se anche l’analista è aperto a vivere con amore la situazione che si trova ad affrontare e se il suo assetto interno gli permette di vivere il dolore e l’elaborazione della perdita. Solo così potrà aiutare il paziente a fare altrettanto.
Inclini a considerare una situazione di invivibilità del dolore sono tanto Bion, quanto Meltzer. In Attenzione e interpretazione, Bion scrive: “I pazienti per curare i quali mi sento spinto a formulare delle teorie esperimentano il dolore, ma non lo soffrono. Agli occhi dell’analista essi possono sembrare sofferenti perché l’analista può, ed anzi deve, soffrire il dolore” (1970, 30). La loro esperienza è dolorosa, ma il loro apparato percettivo e mentale non è in grado di sperimentarla. La sofferenza prende però forma nel rapporto analitico: c’è qualcuno che comprende la sofferenza e questo instaura quello scambio affettivo che porta all’interno della relazione alla nascita e alla crescita della vita emotiva. Meltzer, citando Bion, nota nel Processo analitico, come la prima funzione dell’analista sia quella di contenere le proiezioni della sofferenza psichica del paziente. Con il che si presuppone che tale dolore sia per il paziente – in determinate fasi – invivibile e perciò venga proiettato nell’analista. La modulazione della sofferenza nella relazione è il perno del complesso rapporto transferale tra paziente e analista: proiezione del dolore nell’analista, restituzione rendendolo vivibile (rêverie) ecc. Di ostacolo a questa elaborazione può esserci perciò, oltre alla situazione emotiva del paziente, descritta da Meltzer, che tende a fermare l’analisi al punto di minore sofferenza possibile, anche la paura di soffrire da parte dell’analista o la paura di far soffrire il paziente. Vediamo come tale modulazione del dolore sia a volte molto difficile e richieda da parte dell’analista un grande lavoro su stesso rispetto a cui diviene a volte fondamentale anche l’apporto di un gruppo di colleghi che aiuta a tollerare il dolore. Un esempio molto interessante in questo senso è l’esperienza che ci racconta ora Tito Baldini con una bambina vissuta a lungo in comunità e ora adottata.
Simona, oggi tredici anni e mezzo, a quasi sei è stata collocata in comunità di tipo familiare dal Servizio sociale con decreto del Tribunale per i minorenni e divieto di frequentazione per i genitori tossicodipendenti da eroina coi quali la bambina viveva in una sorta di clan senza frequentare la scuola e il mondo esterno. Verso gli otto anni l’ho presa in analisi a tre sedute la settimana per integrare l’azione di cura svolta dalla casa famiglia, data l’intensità dei segnali di sofferenza psichica della piccola.
La bambina era inizialmente allegra, stimolante e compiacente, con abilità nell’intuire i miei stati d’animo. Percepivo tuttavia in me un malessere (inquietudine profonda, sintomi somatici) che sono riuscito nel tempo a connettere al dolore psichico della paziente, di entità tale da essere, in un primo momento, escluso dalla sua e dalla mia coscienza. Nel tempo mi andavo accorgendo che, se dopo averla percepita su di me a tali livelli proto-simbolici riuscivo a significare a me stesso tale condizione e quindi a pensarla, la paziente, in quelle occasioni, riusciva gradualmente a sua volta a prendere contatto col suo dolore, prima sul corpo, come me, e poi, via via, nella mente. La questione centrale era di far accedere Simona alla pensabilità del suo dolore e tuttavia mi avvedevo che la difficoltà consisteva nel mio involontario ‘agire’ nel lavoro interpretativo una difesa della bambina contro il suo dolore e di me stesso contro il mio. Lupinacci e Cancrini, in questo Panel, con ampio sostegno della letteratura individuano la condizione in cui l’analista, al cospetto dei pazienti che “sperimentano” il dolore ma non l’“affrontano” (Bion 1963), deve trovare risorse per stare nel “luogo” (Lupinacci), nello “spazio” e nel “tempo” (Cancrini) di tale dolore, e lavorare per connetterlo alle funzioni psichiche del linguaggio inconscio e conscio. Tali risorse si fondano a mio avviso primariamente sulla capacità dell’analista di reggere il proprio dolore (Chianese 2006, pp. 23, 64), condizione che renderà l’analista stesso capace di stare empaticamente (Bolognini 2002) nel dolore del paziente, di sottrarre il paziente stesso alla “solitudine” (Lupinacci) e, dato ciò, di farlo accedere alla pensabilità, alla dicibilità e, a seguito, alla trasformabilità di una condizione che così diviene esperienza di dolore.
In tale mio percorso sono stato aiutato dal Gruppo di lavoro che Cancrini ha realizzato nel Perfezionamento b-a, contesto che mi ha incoraggiato e rassicurato sulla mia forza mentre condivideva con me il dolore e lo “scoramento” (Lupinacci) che mi pervadevano. Quando sono stato in grado di tollerare il mio dolore, la paziente, parallelamente, ha iniziato ad accedere al proprio. Il poter vivere il dolore ha prodotto in Simona significative trasformazioni intra e interpsichiche, con miglioramenti apprezzabili della qualità della vita.
Ma quando già pensavo di averla ‘sfangata’ ecco apparire un livello di dolore che non era previsto nella mia mente. Esso era intollerabile, orrido e spaventoso, e mi spingeva alla sua negazione proteggendo la paziente e me attraverso l’assunzione di una condotta ‘cavalleresca’. Nella sequenza clinica che segue v’è traccia di quanto espresso.
Un lunedì (12.6 anni).
S.: “A scuola va molto meglio. Le compagne non mi prendono più in giro, con loro ho chiarito, ci ho parlato, mi sono scusata e hanno capito. Ora sono di nuovo ammessa nel gruppo, facciamo le cose insieme”.
T.: “Mi fa piacere, ci stavi soffrendo molto”.
S.. “Sono abituata a soffrire. Ora è come se ho scoperto che soffro tanto, prima non me ne accorgevo. Veniva, poi andava via, non ci pensavo più, poi riveniva e via discorrendo. Ora soffro tante volte, alle volte che sto a casa e mi viene da stare proprio male, e magari nessuno mi ha fatto niente. Prima pensavo che era sempre colpa di qualcuno e me la prendevo sempre con questo o con quello, cioè anche oggi ci sono quelli che ti fanno soffrire ma io soffro molto anche senza, senza di quelli voglio dire”.
T.: “E’ come se tanta sofferenza oggi potesse uscire e ne vuoi parlare. Forse oggi ce la fai a non nasconderla e per questo ti senti meglio”.
S.: “Sai, oggi sento che ne voglio parlare, è come se tutta la vita non ne ho parlato, è strano. Non la sentivo, la sofferenza, eppure oggi sono sicura che stavo peggio, quando non la sentivo. Oggi la sento, sto meglio e ne voglio, ne devo parlare con te perché sento che dopo sto bene”.
Questo è a mio avviso il momento in cui in analisi la paziente inizia a “divenire soggetto” come espressione della presenza e del contatto di sé con se stessa e con le proprie emozioni; condizione finora irraggiungibile perché lei per difendersi doveva forcludere l’esperienza del dolore (Pontalis 1977, pp. 245-250). Quando la paziente riconosce il sistema che aveva adottato per proteggersi dal dolore (“Prima pensavo che era sempre colpa di qualcuno”), inizia ad usare proprio il dolore come modalità per conoscere se stessa e soggettivarvi. L’ipotesi è che proprio il condividere l’esperienza del dolore aiuti il processo di appropriazione del Sé della coppia analista-paziente.
L’identificazione dell’organizzazione adottata per difendersi dal dolore permette quindi alla paziente l’accesso (grazie alla nuova consapevolezza sui suoi meccanismi proiettivi) all’uso del proprio dolore come modalità per il riconoscimento di sé e per divenire soggetto. Tale opportunità è resa possibile grazie al riconoscimento stesso da parte dell’analista del dolore della paziente attraverso il proprio e quindi alla possibilità di poterne parlare.
T.: “Alle volte abbiamo pesi così grandi che non ce la facciamo a portarli, e poi, dopo, se si abbassano un po’, li possiamo portare, e allora li sentiamo e sentiamo pure che essi c’erano già”.
S.. “Io quando venivo qui da piccola non lo sapevo di avere dei pesi, cioè io stavo male, e ci stavo perché qualcuno mi faceva qualcosa, cioè ne ero convinta, ci avrei messo la mano sul fuoco. Non so se mi capisci (io annuisco partecipe). Non stavo mai male, dentro, voglio dire, ma solo per qualcuno che mi aveva fatto una cosa. Oggi per esempio io lo so che le mie amiche non sono stronze e che spesso sono io che esagero, faccio la stronza io, cioè oggi non la faccio più tanto, ogni tanto. Però poi ne parliamo – riferendosi a noi due – e io mi rendo conto che ero stata io, che avevo esagerato – Silenzio.
Grazie al fatto di poter fare riferimento alla continuità della relazione analitica, la ragazza può anche recuperare la continuità del Sé, alla base del processo d’integrazione psichica.
S.: “Vedi, delle volte mi sento così male, ora, che non so come fare perché è come se non capisco cosa mi succede. Allora ci penso e poi ti penso e poi ti racconto come sto, e poi mi sento meglio. Ma che sono matta?”.
T.: “Ma no che non sei matta – sorrido, anche lei sorride -, ti accade che, un po’ come dicevi anche tu, stai sentendo quello che avevi dentro e che non riuscivi a fare uscire, e così sul fuori eri un po’ …”
S.: “Finta?!”
T.: “Per me eri sempre tu come ora, solo una te che non riusciva a stare bene così come era e allora si metteva un sacco di cose sopra”.
S.: “Però quella ragazza a casa non poteva fare come dal suo amico, che con lui era fuori come era dentro, a casa non poteva perché loro – i genitori adottivi – la volevano che studiava bene, che nuotava bene, che andava bene al corso d’inglese, e lei studiava anche dopocena per farli contenti – ma io non ce la faccio a studiare, Tito, studio sempre e vado malissimo – e insomma lei diventava sempre più quella che volevano loro, però così non era felice. Invece dal suo amico grande – si riferisce all’età – era come era ed era felice e triste come ‘gli’ pareva”.
T.: “Forse tutta la vita la ragazza non ha potuto ‘stare serena ed essere serena’, perché si doveva preoccupare di essere quella che volevano i genitori”.
S.: “Sì, anche se non è che glielo chiedevano direttamente”.
Rabbrividisco di quest’ultima comunicazione che mi pareva arrivasse dal profondo, come se mi lasciasse addosso l’orrido della violenza subita. Dico: “Bisogna dire alla ragazza che col suo ‘amico con cui parla’ supererà i vari blocchi”. Poi rimaniamo in silenzio, mentre vado pensando che col mio ultimo intervento l’ho difesa attraverso la rassicurazione. Mi autoanalizzo, già nel corso della seduta: ho nuovamente agito un difenderla per difendermi dal dolore impensabile. Probabilmente quella sua frase che riscontravo ad alta risonanza emotiva mi ha messo in contatto con aree psichiche di entrambi connotate da ‘non tenuta’. In conseguenza di ciò sono divenuto rassicurante e non più analitico, evitante e non attraversante il dolore.
S.: “Ti devo poi parlare di mamma e papà – riferendosi alla coppia adottiva -.
Il mercoledì successivo.
S.: “Dovevamo parlare dei miei genitori – faccio un gesto di assenso partecipe col capo -. Mamma e papà mi vogliono tanto bene, però sono sempre nervosi, tra di loro e con me. Secondo me litigano pure, per me. Lo vedi che è vero che io non vado mai bene a nessuno, neanche a loro? Lo vedi che io non valgo niente? che non sono buona a niente? – sta un po’ in silenzio mentre le scendono lacrime -. Io non andavo bene ai genitori che mi hanno nata e non vado bene a questi. Quelli ‘veri’ tante volte erano allegrissimi e poi per una cosa subito diventavano cattivi con me e mi rimproveravano. Si facevano la droga e io dovevo fare delle cose per aiutarli e erano tantissimo nervosissimi e c’era il sangue e altre cose, tutte quelle cose strane che non capisco, accendini e i cucchiaini e le siringhe e questo e quello e erano nervosissimi e io dovevo ubbidire, e poi dovevo fare le cose, anche certe cose che non si devono fare”.
Simona ha dei brividi, come delle scosse, poi sopraggiungono i conati di vomito. Mi alzo, la raggiungo e la abbraccio e lei mi abbraccia e piange. Ero emozionato e commosso. Consideravo che avrei dovuto realizzare in me e induttivamente in lei una sorta di trasformazione da beta in alfa; ma così lo direi oggi, mentre sulla scena dell’emozione e del dolore ho pensato che avrei dovuto darle l’idea che questa cosa pesantissima l’avrei retta. E invece, mentre la coccolavo e carezzavo, e mentre le asciugavo gli occhi col fazzoletto, l’ho ‘solo’ protetta dicendole sottovoce: “Questa mia ragazza bella e tanto brava per me, per me speciale, che ha tanto sofferto, ma ora mettiamo tutto a posto, tutte le cose brutte le facciamo uscire e poi se le prende Tito e le getta via”.
S.: “E poi le schiacciamo nel secchione e ci balliamo sopra, ci facciamo una festa sopra con tutti gli amici” – lei andava ritrovando una certa sua ironia.
T.: “E a tutti diciamo che questa ragazza ha una forza da leone, e se ora la vedono un po’ moggia è solo perché è stanca, che ha sempre fatto tantissime cose difficili che quasi nessuno fa, neanche da grande”.
Nel passaggio riportato, credo di essere entrato controtranferalmente a contatto col trauma e col dolore, immerso nella tensione atta a mantenere, perdere e recuperare la mia “soggettività analitica”, in analogia con l’esperienza della paziente (Baldini 2013, Russo 1996, p. 31; 2005, p. 120).
Nella supervisione successiva a quest’ultima seduta, con molta vicinanza e partecipazione affettiva ma anche con altrettanta fermezza, Tonia e gli amici del Gruppo mi hanno fatto cogliere il punto esatto ove avevo smesso di sostenere Simona nel suo approccio al dolore rifugiando me stesso e poi lei nella rassicurazione. Il Gruppo riconosceva fino in fondo che quel dolore in seduta fosse per entrambi intensissimo, da “vomitarlo fuori”, ma anche che sarei stato in grado di reggerlo, rendendolo di conseguenza un pensiero sopportabile anche per la paziente. E’ difficile spiegare a parole la forza che ti danno simili vissuti e valori gruppali ma il risultato è stato ed è tuttora riscontrabile nella clinica. Di nuovo quindi il ‘mio’ Gruppo analitico ha lavorato ‘per’ me e sono riuscito sempre più a reggere il dolore della paziente potendolo così pensare, e la paziente ha potuto accogliere il proprio dolore ed è stata progressivamente meglio. Nella Simona di oggi, ancora in analisi, è irriconoscibile la bambina deformata dall’impensabilità del dolore che fu. Oggi – primo-adolescente, un filo di verde sotto gli occhi e WhatsApp sempre attivo – attraverso l’esperienza del dolore accettata, attraversata, “sofferta” (Bion 1963) e significata, Simona ha raggiunto un livello di soggettivazione che le permette di studiare in fretta e con profitto, di avere trasformato le tante incomprensioni tra pari in amicizie intime, e di accedere alla prima esperienza, ricambiata, d’innamoramento adolescenziale; è quindi una persona soggettivata, un individuo con un sentimento di sé (De Benedetti Gaddini R. 1990, pp. XIII-XIV).
Vediamo dunque quanto bambini, adolescenti e adulti con una notevole quota di sofferenza, ci convocano su affetti di angoscia, di sfida, di inquietante estraneità che toccano le nostre corde profonde e che rimandano a nostre tematiche più o meno risolte. Sono affetti che, attaccando la disponibilità soggettiva dell’analista, attaccano la sua capacità di accogliere profondamente il paziente. A volte, proprio per l’intensità delle immagini transferali del paziente, l’analista si trova ad affrontare incertezza e sensi di colpa per l’ambivalenza verso il paziente e ciò può indurre in lui varie difficoltà. Ci confrontiamo con negazione, ritiro, adesività ai contenuti del paziente, finzione, anche con risposte somatiche quali sonnolenza, apatia, insofferenza.
Il dolore del paziente si manifesta poi sotto varie forme: dalla rabbia alla pedanteria, alle lamentazioni sul corpo, al risentimento e al desiderio di ritorsione e ciò convoca oltremodo l’analista con i suoi conflitti inconsci. Invece è importante vivere il dolore, come mostrato dai colleghi. Però a volte accade che la mancanza di responsività sintonica o l’eccesso di dolore nella storia del paziente, generano l’eruzione di stati traumatici che non consentono l’evolversi naturale del soggetto, ma rendono inaccessibile l’esperienza emotiva e minano profondamente la costituzione dell’identità/soggetto. L’inaccessibilità è percepita nel controtransfert con stati somatici che disorientano l’analista che, preda delle proiezioni tossiche del paziente, sperimenta stati di non integrazione e blocco della capacità ideativa. La difficoltà di affrontare in solitudine nuclei profondi tragici, mai elaborati, sensazioni di pietrificazione e uno stato quasi ipnotico mi indussero a cercare un terzo, un supervisore e un gruppo, che mi aiutasse a dar senso alla relazione analitica ristagnante con Patrizia, una giovane donna di cui dirò successivamente, che colpiva per un eloquio veloce e per il timbro metallico della voce, da cui non trasparivano affetti. Piuttosto sembrava che avesse timore ad avvicinarsi o fosse preda di un blocco inducendomi una sensazione di gelo come in assenza di vitalità, o un attacco alla vitalità. Forse tra noi c’era un vero e proprio congelamento per qualcosa di inavvicinabile. Forse percepivo un affetto non alfabetizzato che non sapevo identificare né nominare, ma che mi induceva come aspetto difensivo un sonno ipnotico che dovevo contrastare per l’intera seduta.
3.Il dolore e il trauma: dal buco nero all’uragano
Mirella Galeota e Daniele Biondo
Intendiamo mettere in luce in questo parte del nostro intervento le difficoltà del paziente e dell’analista di pensare il dolore quando esso è conseguente ad un’esperienza traumatica. Declineremo il tema del trauma in una duplice modalità: quando esso è così vivo da rendere ipersensibile il soggetto, così intenso da travolgere con la violenza di un uragano ogni possibilità di funzionamento psichico e quando al contrario esso produce un vuoto, un buco nero che inghiotte la vita psichica a causa dell’incapacità di sentire le emozioni e quindi il dolore stesso.
La modulazione del dolore in una relazione è fondamentale per lo sviluppo della mente ed è necessario un oggetto che possa attribuire senso e promuovere l’alfabetizzazione di vissuti emotivi. L’assenza di tale oggetto può indurre zone difettuali, mute, soffocate in un buco nero per un carico di dolore inesprimibile, oppure uragani di violenza travolgente in cui il dolore potrà essere urlato e agito inibendo lo sviluppo psichico.
Patrizia, la paziente che congelava e con la voce metallica, che appariva come una bambola di pezza senza vita, mi impressionava per il profondo risentimento che avvertivo nelle sue parole e che investiva tutti gli ambiti della sua vita: i genitori e le loro famiglie di origine, i fidanzati di cui nessuno era degno di sposarla, i colleghi di lavoro, le amicizie in generale e, per quanto negato, anche l’analisi e l’analista: per lei è facile essere comprensiva, ma che ne sa cosa c’è in giro?.Si concedeva un’unica relazione solo per contatti sessuali con un nordafricano. Con lui avvertiva molta eccitazione e affermò: “almeno mi sento viva in questa piattezza emotiva intollerabile, non si può vivere come una bambola di pezza senza emozioni”. Avvertivo al suo interno una parte avida, invidiosa, molto bisognosa di comprensione come se, in quanto analista, dovessi fornirle la possibilità di bonificare la sua famiglia interna, mostruosa, per essere aiutata a vivere meglio, a sentirsi meno impoverita. Per molto tempo sarà costante un’espressione: “sono vecchia e decadente, incapace”.
Nonostante avvertissi una forte ambivalenza da parte della paziente nei confronti dell’analisi e dell’analista, sentivo che Patrizia era alla ricerca un oggetto che non solo potesse riconoscerla ma che le fornisse un risarcimento.
I contenuti, nel corso di circa 4 anni di analisi, sono stati sempre gli stessi: la coppia genitoriale conflittuale e la rabbia per le dinamiche familiari patologiche che sentiva riprodursi in vari ambiti della sua vita. Un accadimento ha occupato costantemente le sedute di circa quattro anni di analisi: lei e la sorella di 6 e 8 anni, abbracciate o meglio aggrappate l’una all’altra, sole. La madre usciva continuamente lasciandole sole perché aveva un’altra storia d’amore. Col tempo ho compreso come tale ricordo fosse l’unico modo di rappresentare un assenza ed un vuoto molto più arcaico della funzione materna. La “bambina” Patrizia in assenza di rêverie materna è rimasta vittima di una pietrificazione che quasi come un sortilegio ne ha pervaso la mente ma soprattutto al momento pervadeva anche la relazione analitica rendendo talvolta inerme e inerte anche la mente dell’analista e ciò nel controtransfert corrispondeva ad espressioni della paziente “sono come una bambola di pezza senza emozioni”. Ero in presenza di un blocco della capacità ideativa ed emotiva e l’unica emozione era la collera che occupava la mente e occupava anche la stanza d’analisi, soffocandomi. Collera che evidentemente stava al posto di qualcosa di inesprimibile e irragiungibile, di un arcaico che forse avrebbe rischiato di farle provare angosce di annichilimento o forse di riportarla ad un crollo già sperimentato e lentamente mi faceva precipitare, insieme a Patrizia, in un buco nero dove il pensiero era prigioniero, sommerso da elementi β in cerca di un contenitore e di una significazione. Dopo 3-4 incontri con il supervisore e il gruppo di colleghi è stato possibile avvicinarmi a qualcosa che evidentemente avvertivo come pericoloso: c’era dolore o incapacità a soffrire il dolore negato della paziente, insieme alla paziente. Il dolore che provavo quando stavo male o combattevo con il sonno o con la mia irritazione e non potevo soffrire, era l’attacco che sentivo al mio pensiero per il travasamento del suo dolore nel mio corpo attraverso la sua frammentazione e che per me non era ancora identificabile.
Fu sorprendente ripensare alla rabbia, alle sofferenze del e nel corpo, mio e della paziente, ripensare a come il dolore prima di “prendere mente” “prenda corpo”, al sonno come analgesia dal dolore psichico.
“…Io sono sempre l’ultima…Come se nella testa avessi costantemente un freno, che frena l’ingranaggio, niente va avanti in maniera liscia, c’è sempre un intoppo che non so quale sia. …Alle elementari…arrivavo tardi e consegnavo in ritardo, andavo a letto tardi”. …Al liceo imparavo e dimenticavo: come una spugna che si riempie e si svuota subito…lentezza per dire mancanza di intelligenza.”
Come se fosse in un coagulo indifferenziato di parti, “senza riferimenti….” e si dibattesse per comprendere chi essere.
La condivisione con un’altra mente (gruppale) aveva consentito di contenere e bonificare contenuti incomprensibili ed elementi beta della relazione paziente-analista. Avvertivo che al mio interno si era modificato il vertice di ascolto, sentivo la corda del dolore che mi risuonava e così prendeva forma una nuova danza tra me e la paziente, tanto che era possibile un cambio di passo, una traduzione di affetti prima incomprensibili: la paziente parlava di invidia io la riportavo sul registro del dolore e del rimpianto.
La terza mente ha inserito livelli edipici nella relazione e quindi la possibilità di accedere alla differenziazione. Si è creato uno spazio potenziale di creatività.
La modulazione del dolore mentale in una relazione è fondamentale per lo sviluppo della mente e fondamentale appare un oggetto che possa attribuire senso e promuovere l’alfabetizzazione di vissuti emotivi.
Nel caso in cui un’esperienza originaria traumatica ha compromesso il rapporto interno con gli oggetti d’amore, come per Emilio (18 anni), il processo di soggettivazione promosso dall’adolescenza è fortemente ostacolato. Per questo paziente il breakdown evolutivo (Laufer e Eglè 1984) fu inevitabile nel momento in cui in tarda adolescenza le difese relative alla perdita dell’oggetto si rivelarono inadeguate. Quando lo vidi subito dopo il crollo mi trovai di fronte più che un giovane adulto un giovane-vecchio deformato dalla sofferenza; una “Pietà”: l’immagine del dolore estremo di un figlio torturato. Non riusciva più ad andare a scuola a causa di una serie di idee fisse che si presentavano con una voce interna ordinante di uccidere la madre, torturandolo incessantemente impedendogli di dormire. Trovava un po’ di pace solo quando si ubriacava o faceva uso di sostanze stupefacenti. Grazie all’intenso lavoro analitico avviato riuscimmo a ricostruire una delle principali esperienze traumatiche: a tre anni aveva subito un intervento chirurgico e il decorso post-operatorio fu complicato dal fatto che gli era stato messo male un catetere nell’uretra, provocandogli tre giorni di sofferenza inaudita. La rabbia contro il medico e i genitori che non gli avevano creduto, rimasta poi un peso mai sciolto nella sua esperienza infantile, aveva radicato in lui la presenza di un oggetto che non presta soccorso. In seguito Emilio mi parlò di come la situazione familiare conflittuale avesse perpetuato il suo dolore nella sua infanzia e prima adolescenza. Gli scoppi di violenza verbale e fisica fra la madre e il fratello adolescente, non mediati dal padre, insieme alla conflittualità sorda all’interno della coppia genitoriale, avevano caratterizzato la sua esperienza infantile in termini di terza guerra mondiale, spingendolo a rifugiarsi maggiormente fra le braccia della madre. La traumatica separazione-cesura dalla madre, realizzata a tappe forzate in adolescenza attraverso un gruppo antisociale prima e la relazione fusionale con una ragazza dopo, aveva avviato la crisi anche per l’assenza di un oggetto terzo che promuovesse una buona separazione. L’inevitabile rottura interiore con il passato (Blos 1961) era esplosa acutamente a causa della esperienza traumatica infantile, riattualizzata attraverso continui problemi somatici (nuove dolorose operazioni chirurgiche: alla spalla, al pene, alla mano) e psicosomatici (anoressia, insonnia, ansie ipocondriache). Il dolore nel corpo rinviava al pubertario (Gutton 2000) per lui non ancora raggiungibile. Il trauma era diventato una specie di “scena simbolo” che sintetizzava la relazione non protettiva con gli oggetti dell’infanzia, nonché dell’adolescenza. Emilio descriveva la sua vita come una tortura perenne: una condizione insopportabile che adesso infliggeva rabbioso a suoi genitori, attaccati con violente crisi di rabbia con cui vomitava loro tutto il rancore per averlo ridotto in fin di vita. Un Tornado implacabile che spazzava ogni legame con l’altro, ogni funzione dell’Io e ogni tentativo di soggettivazione fino a quel momento abbozzato. La dimensione dolorosa del Sè, dominata dalla rabbia e dalla tortura, doveva essere inflitta anche all’oggetto. Pontalis (1977) a tal proposito propone l’enunciato “Sono dolore” per descrivere la capacità di pensiero di se stessi che attiva il dolore: possiamo ipotizzare che proprio grazie alla sua capacità introspettiva, acquisita nella relazione di confidenza con la madre, il paziente avesse mantenuto un nucleo segreto soggettivante e fosse riuscito grazie ad esso a sfuggire al suicidio ed alla psicosi franca. Progressivamente Emilio e io riuscimmo a mettere a fuoco alcuni elementi centrali della sua sofferenza inerenti ad esempio al cortocircuito rabbia/dolore che lui provocava inconsciamente per distanziare l’esperienza autentica del dolore. Questa comprensione produsse un viraggio significativo nell’analisi perché contribuì al processo di soggettivazione del paziente, nel senso di responsabilizzarsi meglio rispetto al proprio funzionamento psichico, come si può vedere nel frammento di seduta (terzo anno d’analisi) che segue:
P. “Ci sono certi quartieri che il sole del buon Dio non dà i suoi raggi.” C’è unica grande parte dentro di me che si fa sentire che è negativa/depressa/omicida.
A. E’ interessante che vuoi illuminare questa parte di te. Il problema è che uso fai di quella parte?
P. Per quanto riguarda la provenienza posso dire che ci sono delle ferite nelle relazioni che si sviluppano dentro la famiglia. Poi per l’uso è come se una parte di me sia cresciuta pensando che si diventa adulti combattendo contro tutto e tutti. Come se i problemi o le sofferenze si risolvono con la forza e non in altri modi.
A. E oggi affermeresti che non ci sono altri modi?
P. Beh io ho cambiato concretamente tutto nella mia vita, ho cambiato amici, ho cambiato attività, ho cambiato abitudini.
A. Però non hai cambiato l’attitudine all’odio.
P. No, purtroppo non sono riuscito a cambiarla.
A. E perché?
P. Perché è una cosa automatica, spontanea.
A. Forse perché risponde ad una motivazione interna?
P. Per esempio emotivamente i miei sistemi per imparare la rabbia (a partire dalle smorfie cattive per finire all’alcool e alle droghe) non ci sono più, non ho più sistemi. Da due anni e mezzo è come se sono stato rigenerato. Per anni ho visto delle cose e le ho assorbite. A partire dal crollo non riesco più a controllare la rabbia. E’ attivata o dal ricordo di cose del passato, ma la sorgente non riesco a controllarla.
A. Mi viene in mente che tu oggi sei dipendente della rabbia così come prima lo eri della droga o dalla violenza. Come se la rabbia ti serve per rafforzarti, sollecitando il dolore.
P. A proposito di questo penso che la rabbia mi serve per non sentirmi vulnerabile e non soffrire.
A. Mi sembra che questo sia il punto: tu usi il dolore per alimentare la rabbia, e la rabbia per non soffrire, per non sentirti vulnerabile a causa della tua sensibilità. Insomma con la rabbia eviti di incontrare le tue parti più sensibili e più amorevoli.
P. Infatti proprio per questo fatto che non sento intimamente mie le parti negative, le parti violente. E’ a causa delle parti sensibili che ci sto male. Se non ce li avessi farei come il capo del mio branco che se ne va a dormire tranquillamente dopo aver realizzato certe cose. Se facessi come lui attaccherei le mie parti sensibili.
A. Lo fai ancora oggi con i tuoi attacchi di rabbia?
P. lui (il capo branco) è diventato così violento perché aveva una situazione familiare assurda. Io penso se io sto male è perché ho avuto la stessa situazione, sennò starei bene.
Chiusi la seduta parlandogli del fatto che lui per fare un’equivalenza fra la sua situazione familiare e quella del capo branco doveva eliminare gli aspetti amorevoli del rapporto con i suoi genitori e dentro di lui. A conferma dell’accettazione di quest’interpretazione nella seduta successiva Emilio portò questo sogno:
Alessandro, un mio amico un po’ viscido, mi diceva che io avevo gli occhi verdi e aggiungeva: ‘l’azzurro sul tuo viso ti stava bene’. Commentò che l’amico si riferiva a qualcosa che stava nel suo volto: “Tipo una luce: ho pensato a due poesie che ho letto ieri (una era di Garcia Lorca) che diceva “dalle labbra gli spiega l’azzurro della ninna nanna.
A seguito delle associazioni del paziente gli parlai del bisogno di leggerezza espresso dal sogno come bisogno di lasciarsi andare a parti di sé prima negate.
Il riferimento alla ninna nanna sembrava rimandare un’area sensoriale primitiva sedante, attivata dall’analista e dalla sua voce, dalle cui labbra il paziente incominciava ad accettare di prendere nutrimento. Effettivamente grazie alla musica e alla comune passione per il poeta del dolore, De Andrè, eravamo riusciti a trovare un linguaggio comune per parlare del dolore, che mi dava la sensazione, nella relazione analitica con questo paziente, di un‘intimità speciale. Grazie a questo passaggio soggettivante Emilio riuscì per la prima volta dopo anni a dormire tutta la notte, trascorrendo la maggior parte delle ore della giornata a studiare musica; i suoi attacchi di angoscia diminuirono, presentandosi soprattutto nei week end. La speranza di fare nascere la soggettività di Emilio sembrava concretizzarsi realizzando l’aspirazione dell’analista al lavoro di far nascere l’altro a se stesso (Pontalis 1977, p. 225), complementare e in contrapposizione con quello che il ragazzo sembrava aver vissuto nella relazione con i genitori.
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