ORGANIZZAZIONI DIFENSIVE NEI BREAKDOWN
Anna Maria Nicolò
Questo lavoro si riferisce alla mia esperienza con adolescenti psicotici in trattamento o in supervisione e alla mia esperienza di supervisore di una comunità terapeutica di giovani adulti psicotici o gravemente borderline.
Parlerò in particolare della lotta che questi adolescenti ingaggiano per non cadere nella psicosi e delle modalità difensive articolate e organizzate con cui tentano di sopravvivere nascondendosi o bypassando almeno apparentemente alcune tappe evolutive. L’entrata nella psicosi è il punto di arrivo di un lungo cammino ed è proprio lì che noi li incontriamo potendo incidere in questa lotta. Ma prima di affrontare questo tema devo fare alcune premesse importanti perché esse orientano non solo la mia comprensione, ma soprattutto la mia metodologia di lavoro in questi casi. Io credo che non sia utile parlare in questa età della vita di psicosi conclamata, ma preferisco usare il termine di “breakdown evolutivo”, termine con cui i Laufer (1984) definiscono uno stallo evolutivo nello sviluppo che ha il suo antefatto nella prima infanzia ed è legato all’impossibilità di elaborare l’edipo e l’integrazione della sessualità… Prendendo un punto di vista evolutivo consideriamo l’adolescenza come “organizzatore della personalità”, come enzima che attiva nella mente funzionamenti fase specifici (di cui l’integrazione simbolica del corpo sessuato, l’integrazione dell’aggressività, l’elaborazione del lutto evolutivo e ristrutturazione dell’identità sono i più importanti). Questo punto di vista sottolinea la grande mobilità della personalità in questa fase e quindi l’enorme potenzialità trasformativa che la caratterizza.
Nessuno più dubita di una genesi multifattoriale di queste patologie. Alla loro organizzazione concorrono:
a) il corredo con cui il ragazzo si è presentato all’adolescenza.
A questo proposito bisogna considerare le esperienze di integrazione sensoriale e di relazione sensuale che il bambino ha già al suo attivo nel precoce rapporto con la madre. Fin dall’origine della nostra vita le esperienze sensoriali legate all’udito, alla vista, all’odorato, al tatto, all’essere toccati, alla temperatura corporea necessitano delle cure materne per essere integrate. Inizia così un complesso processo che porterà alla personalizzazione (Winnicott), alla distinzione dell’Io dal non–Io e alla delimitazione “del confine di sé” (Gaddini). Molti altri autori si sono cimentati con questo stesso tema (Isaacs, Meltzer….) non ultima Piera Aulagnier che sottolinea il ruolo centrale della sensorialità. Per la Aulagnier il pensiero nasce dal corpo e dalle precoci relazioni tra la madre e il bambino e per corpo all’inizio la Aulagnier intende tutto ciò che fa riferimento all’esperienza sensoriale. (Questo corpo è poi al contempo autogenerato dato che primariamente il bambino confonde il proprio corpo con le sensazioni che gli provengono dall’esterno o che egli stesso ha prodotto nel suo corpo, da un corpo immaginato dalla madre ancor prima della sua nascita e quindi preceduto nella sua storia dalla storia di un altro – Aulagnier, 1979, p. 110). Queste esperienze sensoriali, grazie alla cura materna e all’investimento autoerotico, consentono l’investimento libidico del bambino sul suo corpo e permettono l’emergere di una sana sensualità.
Ma questi processi continuano lungo l’arco di tutta la nostra vita e trovano in adolescenza uno dei punti di snodo significativi dato che nuove esperienze sensoriali come la nuova muscolarità, la sessualizzazione del corpo, l’impregnazione ormonale, la maturazione sessuale, il menarca, il pubarca e l’iniziazione sessuale, dovranno essere vissute e integrate.
Sensualità e sensorialità sono legate, e “la sensualità ingloba e lega la sensorialità al desiderio” (Schmidt) grazie al rapporto con l’altro, alla cura della madre. Essa perciò si colloca come esperienza al crocevia tra l’autoerotismo e la relazione oggettuale, e proprio grazie alla relazione con l’altro trova, nella ricerca del piacere con l’altro, il suo senso, la sua delimitazione. L’esperienza della sensualità è caratterizzata perciò da due versanti, uno verso il mondo interno e un altro verso il mondo esterno e l’altro da sé. Il rapporto con l’altro è centrale nel favorire il processo di integrazione di sensazioni e lo sviluppo di una sana sensualità.
La grande sfida dell’età è perciò questa tempesta sensoriale e sensuale che caratterizza l’adolescenza e che lo stesso analista percepisce nella seduta nel corso del trattamento di alcuni di questi pazienti. L’adolescente sarà sfidato ad operare di nuovo quella elaborazione immaginativa di parti somatiche, sentimenti e funzioni che costituisce per Winnicott la psiche, sarà sfidato a potersi rappresentare, figurare, simbolizzare queste nuove sensazioni, queste nuove eccitazioni, questa sorta di esplosione sensoriale e sensuale.
b) La quantità di eccitazione e di tensione che egli incontrerà in quel momento.
Sarà cruciale insomma il rapporto tra il trauma attuale e la fragilità narcisistica primaria nel determinare una collusione psicotizzante (Cahn). Vedremo questi funzionamenti all’opera in molte situazioni in cui il corpo assume un significato persecutorio e l’adolescente lo attacca o lo nega in vari modi.
Ad esempio un mio paziente.
Fabio, studente di musica di 16 anni, tiranneggiato dal padre musicista, riteneva che non sarebbe potuto diventare grande come il suo idolo Glenn Gould perché gli mancava la sensibilità alla mano e in particolare c’era un’anomalia del tendine al suo dito medio. Ogni suo movimento autonomo e ogni rapporto sociale era perciò bloccato. Il padre, mediocre musicista ma portatore di fantasie grandiose sul figlio, si diede da fare e si realizzò così l’operazione al tendine con cui il paziente agiva l’attacco autodistruttivo al sé corporeo.
Possiamo ipotizzare molti significati di questo vissuto e anche che il tendine e la mano erano identificati con un terribile e intrusivo oggetto che occupava il suo corpo. Dopo tale operazione, Fabio si scompensò completamente e l’ultima seduta prima dell’interruzione che egli agì dopo tre mesi di trattamento, sentiva il suo corpo scisso da lui e completamente spiaccicato e fuso con la parete accanto a lui nella stanza di analisi. In quella terribile seduta, che precedette il trasferimento, ordinato dal padre, del paziente e di tutta la sua famiglia in un piccolo paese di origine del padre, Fabio mostrava l’assoluta perdita dei confini del sé corporeo e il transfert fusivo e confusivo con il setting concreto con cui cercava di arginare la persecutoria separazione che egli avrebbe subito di li a poco. L’operazione che egli aveva subito e ambivalentemente cercato, aveva rotto il fragile argine che lo difendeva dalla catastrofe.
c) La risposta dell’altro, attualmente presente e non solo del passato. Cioè sarà cruciale la risposta del genitore, dell’insegnante, del compagno, del gruppo, del partner e perciò anche dell’analista. L’altro sarà implicato, come il care taker nella prima infanzia, nelle sue capacità di contenimento, rispecchiamento, di reverie, ma anche come nuovo oggetto nella costruzione e ricostruzione del sé.
d) Nella mia esperienza poi, le strutture e le organizzazioni psicotiche sono sempre collocate all’interno di un’organizzazione di legami traumatici familiari che caratterizzano l’origine del soggetto ancor prima della sua nascita. E’ un errore pericoloso considerare questi genitori colpevoli dei funzionamenti esistenti nella famiglia, ad esempio delle difficoltà di individuazione separazione dal figlio, perché essi stessi sono vittime di questi funzionamenti che si tramandano transgenerazionalmente e che li implicano loro malgrado. Queste organizzazioni sono caratterizzate da funzionamenti anti-edipici e ante-edipici, anti-depressivi. Esiste al loro interno un divieto di pensare e una sorta di robotizzazione. Il funzionamento della famiglia è concreto ed agito. I confini del sé di ciascuno dei membri sono fragili. Segreti mai ufficialmente esplicitati determinano funzionamenti paradossali, caratterizzati dalla contraddittorietà tra la verità ufficiali e la verità nascosta e da vuoti ed elementi bruti non pensabili nella comunicazione. Miti familiari rigidi espropriano il sé dei membri e impongono oggetti di identificazione patologici e patogeni. Searles descrive le modalità relazionali con le quali il figlio diventa portatore delle fantasie alienanti dei genitori. E io ho descritto alcune di queste modalità comunicative come ad esempio il fatto che ogni legame tra due membri viene sentito come persecutorio, che vige un’organizzazione di controllo tirannica delle comunicazione accompagnata dal tentativo di carpire i pensieri dell’altro anche se questi non li comunica. Sappiamo che questi pazienti portano con sé quella potenzialità psicotica di cui ci ha parlato la Aulagnier (de Mijolla, p. 51) come eredità in rapporto con la storia e la preistoria di quel soggetto e come esistenza di un nucleo psicotico che è suscettibile di attualizzarsi in psicosi, ma la persistenza dei legami traumatici nella famiglia continua a funzionare come attacco al fragile sé del paziente, rendendo spesso inutili le nuove esperienze che la realtà offre. Possiamo allora ipotizzare che esiste anche nella famiglia una potenzialità psicotica familiare.
Non dobbiamo pensare alla psicosi in adolescenza come un momento di crisi che inaugura lo scompenso. Questo è solo apparente. Il paziente fa numerosi e prolungati tentativi per non arrendersi alla parte psicotica della loro personalità che egli naturalmente ha portato con sé dalla prima infanzia.. Accennerò ad alcune di queste strategie che, a mio avviso, è importante conoscere per aiutare il paziente a disfarsene solo e quando egli sarà capace di farlo, rispettandone invece l’esistenza laddove questo non è possibile, seguendo perciò il criterio di garantire la migliore possibilità di vita per quella persona piuttosto che perseguire una presunta guarigione psicoanalitica.
La prima che citerò è quella che Winnicott chiama “congelare la situazione di fallimento”. Si tratta di una sorta di ritiro del paziente in cui la persona contiene una parte regredita del sé a spese delle relazioni esterne, aspettando una situazione più adeguata o una possibile nuova esperienza (Winnicott, 1954, p. 338 It. ed.).” (1988, p. 141). Un’altra è l’incistamento e l’incapsulazione ad esempio nel corpo di queste parti psicotiche scisse come difesa contro le angosce di annichilimento (Tustin; Bion, 1957; Rosenfeld, 1998).
Un’altra possibilità è la creazione di un’identità segreta. E’ una soluzione efficace ma presuppone un certo livello di funzionamento dell’io che può delimitare i confini del sé per creare uno spazio segreto nella mente e nella realtà.
Un’altra soluzione, è l’alienazione nell’altro. Con questo meccanismo il paziente tenta di compensarsi aderendo a sette, organizzazioni religiose o realizzando un legame simbiotico con l’altro, ad esempio un partner, una relazione passionale senza conflitti. L’oggetto investito diventa il sostituto idealizzato per ogni tipo di relazione.
Un’altra modalità più complessa ed articolata è lo stabilirsi di transitori o definitivi funzionamenti perversi che possono fossilizzarsi nel tempo. Sono situazioni difficili da valutare anche perché sono complicate dalla paura della passività che gli adolescenti soffrono per il loro essere colonizzati da un oggetto intrusivo e dalla confusione bisessuale onnipotente che precede normalmente la definizione ultima dell’identità di genere.
Citerò per finire l’uso delle fantasticherie che sono normalmente presenti in questa età, e hanno una natura mista; se da una parte sono processi inconsci, dall’altra sono comunicate a sé o all’altro consapevolmente; se da una parte ci rimandano alle prime fasi di sviluppo, dall’altra si ricollegano con le relazioni e interazioni attuali della persona. In questi pazienti hanno caratteristiche particolari. Intanto possono essere onnipotenti e pervasive e usurpare la vita (Winnicott, 1935, p. 158). Esse hanno come obiettivo la fuga dalla realtà interna persecutoria e manipolando quella esterna, servono a riempire lo spazio psichico “per radicare qualsiasi spazio vuoto nello spazio psichico” (Britton). A parte la bizzarria che le caratterizza, esse possono presentarsi con fragili confini rispetto alla realtà e possiamo intravedere la facilità con cui il paziente potrebbe imboccare una delle due strade: verso la realtà o verso il delirio. Ma un aspetto importante è rappresentato dal fatto che la mente diventa ora una sorgente di gratificazioni sensoriali, escludendo l’apporto del corpo e stabilendo un’economia autocratica e autosufficiente. Le sensazioni si producono nella fantasticheria. Questo tipo di produzioni si apparentano all’allucinosi ma, come Bion dice, “uno sfondo di allucinosi” è presente nella realtà del paziente, conservandola per questo intatta (Bion, 1965, p. 92). Infatti l’allucinazione distrugge la percezione della realtà mentre le trasformazioni in allucinosi, contenendo l’angoscia, ne mantengono anche un certo legame. Winnicott, usando una teoria differente, individua una possibilità trasformativa dall’allucinazione alla illusione. Egli ricorda che nelle situazioni fisiologiche la madre offre al bambino un momento di illusione che “il bambino può prendere sia come sua allucinazione sia come una cosa che appartiene alla realtà esterna” (Winnicott, 1945, p. 184). Mantenere un illusione sostenuta per il tempo necessario da parte di una madre sufficientemente buona consente di fare fronte all’affacciarsi della realtà esterna mentre patologia è l’incapacità di avere accesso all’illusione ed essa è prodotta da un brusco passaggio dallo stato di fusione alla realtà senza che una sufficiente dose di illusione ne permetta un approccio graduale. Parafrasando Winnicott, quando la realtà esterna è stata traumatica e ha funzionato come un impingement nello scudo protettivo, i processi di scissione e dissociazione patologica, di diniego sono talmente massicci che non c’è spazio per il sogno e per la fantasia, e per il gioco. Alcune persone reagiranno a questo fuggendo dalla realtà rifugiandosi nelle fantasticherie o nelle costruzioni solitaria e auto riverberantesi del delirio, che non bisogna confondere con un eccesso di illusione. Il fallimento precoce di una buona reciprocità produce la fantasticheria pervasiva i cui confini possono toccare o evolvere verso il delirio, produzioni bugiarde della mente che prendono il posto del sogno e della creatività della vita. Vedremo allora un’altra possibilità di slittamento verso la franca psicosi.
Permettetemi di finire con alcune brevi note sul trattamento.
L’adolescenza, a differenza di altre età della vita, ci consente enormi possibilità di rimaneggiamento e ristrutturazione della personalità. “Tutto nasce nell’infanzia e tutto si gioca in adolescenza” (Kestemberg) e questo accresce enormemente le nostre implicazioni etiche e deontologiche come analisti.
La mia preoccupazione più importante è il mantenimento del legame terapeutico che in queste situazioni è sempre fragilissimo e attaccato dalla parte psicotica del paziente e della famiglia. Un lavoro contemporaneo con i genitori e/o la famiglia e un trattamento farmacologico, se, sono presidi ineliminabili.
Le prime fasi del trattamento impongono di rafforzare la fiducia del paziente nelle sue capacità realistiche e rispecchiare gli aspetti sani della personalità, oltre che aiutarlo, se possibile, a distinguere tra realtà e fantasia, mondo interno e mondo esterno, tra sé e l’altro. Il lavoro sul transfert è importante, ma più spesso (anche se non sempre) per usare l’espressione dei francesi, dobbiamo intervenire nel transfert piuttosto che interpretare il transfert. Il timing è importante e perciò tutte le interpretazioni che possono aumentare la tensione interna e la conflittualità vanno all’inizio evitate e lasciate ad un periodo successivo, quando il paziente potrà sopportarle. Se e solo quando questa prima fase sia andata avanti con successo, sarà possibile allora sperimentare nel setting con l’analista ciò che è accaduto nel passato in termini di fallimento ambientale. A mio avviso questa idea di Winnicott si avvicina molto a quanto i Laufer chiamano “ripetizione del breakdown nel transfert”. Nella mia esperienza tali eventi complessi (perché non si tratta di un momento, ma si dispiega in un tempo più prolungato) si producono in un modo sorprendente. Succede qualcosa che non ci aspettavamo potesse avvenire. L’analista può sentirsi ferito, tradito, impotente a fronteggiare la situazione che egli di primo acchito non comprende. Per quanto si possa manifestare con diversi livelli di gravità, a posteriori capiamo che non era così grave e pericoloso come il nostro controtransfert indicava e che il paziente ci stava avvertendo che qualcosa non aveva funzionato e che il trauma si stava ancora una volta ripetendo. Egli così riattualizza con noi qualcosa che non può ricordare e che raramente ha a che fare con un elemento storico puntuale del suo passato, ma piuttosto con modi, relazioni, vissuti, emozioni. La nostra risposta è allora cruciale. Non è tanto o solo una risposta interpretativa, ma è piuttosto il cambiamento del nostro stare con il paziente, del legame nella coppia analitica, una condivisione di emozioni e vissuti a volte poco verbalizzabili. Nelle sedute l’analista specialmente con l’adolescente in generale sarà usato come oggetto nuovo di identificazione ed è questa la ricchezza che noi possiamo offrire a questi adolescenti. Con noi potranno sperimentare un modo diverso di viversi e vivere la relazione. A partire dalle loro comunicazioni potremo aprire campi di dialogo con cui accostarci, bordeggiando tematiche che il paziente potrebbe sentire scottanti se prese direttamente.
L’aspetto più importante è costituito dalle nostre esperienze emotive. L’analista con i suoi vissuti psichici e somatici entrerà in contatto con parti scisse, negate o mai mentalizzate del paziente, con stati primitivi della sua mente, sconosciuti allo stesso paziente. La posta in gioco diventa quella di attivare un processo di pensiero inceppato, per riattivare o avviare un funzionamento mentale che era stato impedito, bloccato a causa di legami traumatici inelaborati o inelaborabili.
Quando sarà possibile, l’avvio di un processo di storicizzazione diventa cruciale. Non è tanto importante quella storia, ma la narrazione come una sorta di processo con molteplici funzioni: 1) il ristabilirsi di una continuità temporale in senso lineare. Processo molto importante perché utile a colmare i vuoti della storia. Questi pazienti sentono il breakdown come un vuoto e una interruzione angosciosa nella loro evoluzione; 2) la riflessione sulla propria identità storica e narrativa; 3) l’introiezione e il consolidarsi di una funzione psichica: la capacità di creare – e ricreare continuamente la propria storia. Connessa con questa è il costituirsi della consapevolezza di una storia, quella che Bollas chiama “una coscienza storica” che al contempo rimanda ad «un’area ricettiva nella mente dell’analista che consente all’analizzando di sviluppare la parte della psiche che conosceva la storia del sé» (Bollas, 1989).
Roma 22 novembre 2014, Vie d’ingresso nella psicosi
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