Un breve report da Basilea
La partecipazione ai congressi della FEP avviene per me in un clima abitualmente “esperienziale”. È come un continuum di spunti, sollecitazioni, situazioni che muovono dai gruppi di lavoro pre-congressuali sino all’ascolto delle relazioni presentate nelle diverse sezioni del congresso, offrendo però qualche resistenza ad essere trascritte e riportate. Questa difficoltà (forse attinente al titolo del congresso: “Senza Forma. Deformazioni, Trasformazioni”) mi ha fatto pensare alla complessità del passaggio dal “sognare” al “raccontare il sogno”.
Da diversi anni partecipo ai lavori del “Working Party on Specificity of Psychoanalitic Treatment Today” e il metodo associativo utilizzato in questi gruppi ha molto a che fare sia con il lavoro del sogno che con la possibilità di arrivare a raccontarne qualcosa. Nel lavoro del gruppo a cui ho preso parte quest’anno le associazioni dei partecipanti hanno trovato una corrispondenza di inedita intensità con aspetti personali del caso che è stato presentato. Per ragioni di privacy ometto i contenuti relativi alla storia del paziente, potendo però citare un ricordo personale, emerso come un’associazione pertinente sia alla discussione clinica che al metodo di lavoro che abbiamo utilizzato.
Alla sua nascita mio figlio dovette essere ospitato per qualche momento nell’incubatrice. Chiamato dalla nurse ho potuto vederlo per la prima volta, rimanendo soli, lui nell’incubatrice, io nella nursery in cui era collocata. Nel vedere il mio bimbo appena nato e non avendo la possibilità di prenderlo in braccio, istintivamente gli ho cantato una canzoncina. Nello stesso istante in cui ho cominciato questo piccolo canto lui si è girato, in modo deciso, verso di me.
Questo momento delicato e intenso della mia vita ha trovato uno spazio specifico nel lavoro del gruppo, risultando fruttuoso per il suo “working through”. La discussione del gruppo, e una parte delle riflessioni emerse successivamente nella plenaria, hanno riguardato infatti la possibilità di comunicare nonostante le differenze di lingua, di formazione, di provenienza geografica e teorica dei partecipanti. Come se lungo la differenza e le asimmetrie costitutive delle nostra alterità si realizzasse una importante opportunità di contatto e di scambio interpsichico, o anche semplicemente umano.
Durante i lavori del gruppo inoltre uno dei partecipanti, meno attrezzato degli altri nella comprensione dell’Inglese, ha esplicitato le sue difficoltà a seguire il discorso che si stava svolgendo. Avuta la possibilità di comunicare questa sensazione di disagio, le associazioni che questa persona ha potuto esprimere pur non comprendendo il contenuto della discussione in corso sono risultate pienamente sintonizzate col materiale clinico e con il lavoro che il gruppo stava svolgendo.
L’impressione è stata dunque che il modo in cui il gruppo ha potuto lavorare a partire dalle differenze di cui consiste, il suo poter “sognare” il paziente e il materiale clinico, abbiano consentito di attraversare la “confusione delle lingue”, portando sino al sentimento di un contatto e di un lavoro soddisfacente, e compiendo di fatto un lavoro “analitico”.
Fra i diversi panel che il congresso di Basilea ha proposto, riporto giusto un accenno a due di questi che mi hanno colpito.
Il lavoro di H. Levine su “Mito, Trasformazione e Creazione della Mente” ha dato luogo a una discussione molto partecipata, non prevista dal tema ‘manifesto’ della presentazione, a proposito della differenza fra “action” e “gesture”. Termini questi con cui si è tentato di distinguere le azioni che esprimono un “agieren” dell’analista dai gesti che avvengono invece lungo un enactment comunicativo e corrispondono a, o prefigurano, un autentico movimento elaborativo.
La relazione di Jan Abram dedicata all’area dell’informe in Winnicott (“Sull’area dell’informe in Winnicott: il puro elemento femminile e la capacità di sentirsi reali”) ha visto come discussant Ronnie Jaffè che ha parlato della relazione fra questo autore e Bion, e ha rimarcato la percorribilità del tragitto che distingue, e insieme mette in contatto, Winnicott con Freud. Abram ha accostato il metodo freudiano delle libere associazioni nella seduta analitica alla “possibilità di non avere una forma” di cui Winnicott parla in particolare nei suoi ultimi scritti, segnalando come questa dimensione propria della diade madre-bambino rappresenti una condizione necessaria perché il lavoro analitico veda comparire “ciò che chiamiamo creatività”.
In risonanza con questi temi, qualche passeggiata sul lungo Reno insieme ai colleghi, ma soprattutto la possibilità di attraversare il grande fiume che attraversa Basilea con un piccolo traghetto che per muoversi utilizza la corrente, e raccorda lentamente e piacevolmente le due rive, completano questo breve report di impressioni congressuali.
Andrea Scardovi